Due ciminiere e un campo di neve fradicia 
belvo3Qui è dove sono nato e qui morirò
Se un sogno si attacca come una colla all’ anima
tutto diventa vero tu invece no 

(Padania, Afterhours)

 

LOGRATO (Brescia) – Un quadrilatero di mura sbrecciate, infissi sguarniti di vetro, tetti cadenti che- alla corsa delle strade limitrofe- un’occhiata fuggevole di turisti al passo, noi turisti nelle nostre terre, l’avrebbe definita nient’altro che un ammasso di pietre. No, quella casa non è andata giù. Non ancora, non adesso. Oggi vi ritorniamo per giocare coi figli, al rimbalzo del sasso sull’acqua. Un’acqua che ci riconosce, e in cui si specchia una storia. La storia che, come ammonì Pier Paolo Pasolini, è un po’ “come sono gli ultimi giorni, o, è uguale, gli ultimi anni, dei campi arati con le file dei tronchi sui fossi, del fango bianco intorno ai gelsi appena potati, degli argini ancora verdi sulle rogge asciutte. […] Un nuovo tempo ridurrà a non essere tutto questo: e perciò possiamo piangerlo: con i suoi bui anni barbarici, i suoi romantici aprili. Chi non la conoscerà, questa superstite terra, come ci potrà capire? Dire chi siamo stati?”

Deve aver pensato così il Belvo, una sera di fumosa nebbia padana del 1975, quando sceso dalla corriera, e per nulla avvinto dalle fatiche dell’umano agire, in quello spicchio di terraferma brumosa e dedita più di ogni altra al concreto, mentre guadagna di fretta la porta in vetro raggelata del bar di Lograto.

Dove, non si sa se sospesi tra un Campari, un bianco o una primiera, o da tutt’e tre indistintamente, una sera del 1975 nacque l’idea di fondare il Basket team Lograto. Il 10 dicembre 1975, risale a quell’anno la fondazione team ad opera del Belvo. E dei suoi amici, ché questa è una storia di basket al cento per cento, pertanto il protagonista è il Noi, non l’io, come ci insegna il nostro maestro Werther Pedrazzi. Che mica per un cazzo, viene avvinto anni dopo dalla magia del sorriso del Belvo, figlio di un bracciante agricolo morto quando aveva appena 16 anni.

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Anzi, una sera Werther deve averci pensato, al Belvo e alla sua mistica strapaesana..  “Il Belvo non era un uomo: era un romanzo. D’amore, rabbia e avventura. Innamorato della luna, nelle notti fredde, limpide e serene. Boscia guardava i fuochi nella notte di Milano, non erano i falò accesi per scacciare i lupi in una vigilia rivoluzionaria, ma soltanto cupi segnali d’improvvisati mercati dove si vendono e si comprano corpi avariati, non certo l’anima delle cose e della gente, come sognava Tanjevic. Boscia deve aver patito tristezze metropolitane. Avara. Per uno zingaro tenero e crudele, che amava bere il fuoco liquido e sognare l’Utopia e la Città del Sole”

Il Belvo come Boscia, insomma. Il Belvo e la sua banda, antesignana di ogni altra ‘crew’ baskettara: Sigalo, Nobru, Silvi, Bulgo, Monecc, Lucio, Buschi, Buni, Ermo, Charlie, Bepe, Scalvino, Angelo del Comune e Cioncio. Il Basket Team Lograto 75 sono loro, e lo saranno sempre.

Anni dopo, tanti anni dopo, attorno a una bella tavola calda di passione, di vita, di spregiudicatezza beata e fimminara (c’era Riccardo Sbezzi che pontificava, mischiando il suo ragusano al bresciano: cazzo che spettacolo)  si sarebbe seduto anche Gigi Maifredi. Un Uomo, che da Lograto dovette andar via da bambino, il papù umile autista, in quel di Brescia. Ma che un segno deve averlo lasciato, nei campioni, se ti fa leggere un messaggio così: ‘Mister, alle 12.45 servo in tavola risotto alla quaglie e Amarone. Ti aspetto. Roberto Baggio’. A un certo punto, il 17 dicembre 2015, 40 anni dopo, mentre il team Lograto festeggia e il rosso di Capriano del Colle scorre copioso nei calici, ci sovviene solo un pensiero triste: diamine, ma a questa tavola manca davvero e soltanto Gioanbrerafucarlo, Principe della Zolla.. Come lo vedi camminare quest’uomo, subito egli ti sembra goffo e sproporzionato, non fatto, direi, per muoversi in terra, come tutti. Il suo passo, alla ricerca di un equilibrio malagevole e difficoltoso è quasi stentato e sghembo. Le braccia, assai gracili, spiovono inerti, impacciate dalle spalle non larghe. E la tua presunzione non se ne adonta. Piccolo comune uomo quale sei, non ti entra al suo cospetto nell’animo l’amaro dell’umiliazione fisica, quel senso di inferiorità che subito intimidisce e anzi talvolta annichila come di fronte all’atleta esteticamente bello e possente.

Poi succede che al Belvo nasce un figlio. Quel figlio cresce, s’innamora della palla a spicchi, accudito dalla soavità di mamma Maria Giulia, che sfida ogni giorno la primigenia foggia contadina di una terra semplice, spietata nella sua essenza padana, e spesso maleducata ma sempre generosa, di quella generosità forgiata dalla povertà e dalle privazioni; la sfida con una grazia, ed un’eleganza, che in tutta evidenza devono aver sedotto il Belvo, sotto qualche luna che faceva a gara con le lucciole per inondare di bagliori i campi silenti. Quel figlio nasce e cresce come un guerriero, al posto del pallone è come se avesse una pistola, nasce a 1000 km o giù di lì da Maddaloni, ma sembra uno come  Nandokan Gentile. “Il Furibono Serna, il nostro Fuser (Ernesto Che Guevara, ndr), che non abbandonava mai il campo, anche alla fine dell’allenamento, un po’ come il fratellastro Vincenzino Esposito, ci  è rimasto nella mente anche quando non era più un giovane principe, ma stava diventando una persona diversa, perché anche i rivoluzionari, se non cadono prima, finiscono per alzare le braccia davanti a chi sostituisce il fucile con il cannone, mentre loro continuano a girare fidandosi soltanto della pistola” (Oscar Eleni).

Poi un giorno quel figlio assaporò il gusto al miele della vittoria. E non fu più lo stesso, per lui: “Urlava di dolore e di vittoria e non capiva niente e si teneva stretto al ramo, alla spada, nel momento disperato di chi ha vinto la prima volta ed ora sa che strazio è vincere, e sa che è ormai impegnato a continuare la via che ha scelto e non gli sarà dato lo scampo di chi fallisce” . Un giorno, forse, scriveranno così sul figlio del Belvo: ‘Al cospetto delle sfide o di una minaccia, ha sempre avuto lo stesso atteggiamento. Gettarvisi contro. Perché una vita diversa, lui, non l’avrebbe mai concepita’.

E in sottofondo, ancora una volta, suoneranno per sempre le note eterne di Bob Dylan e di Koncking on Heaven’s Doors, mentre Pat Garrett dà una spietata caccia all’amico fraterno di un tempo, il Kid, perché Chisum e i proprietari terrieri gli hanno comprato l’anima, e il Kid dev’essere ucciso. Sono cambiate le cose,dice Pat al Kid.  Le cose sono cambiate, ma non io, rispose il Kid. E poi: perché non lo uccidi, Billy, perché? Perché è mio amico. La storia d’amicizia del Basket Team Lograto continua, oggi come allora. Il Belvo si è incanutito, ma gli occhi e il sorriso sono quelli del 1975. The dream never ends, in questo punticino della pianura. So long per te, Belvo. Hai costruito la cosa più vicina che conosciamo, a quello che i realisti chiamano- con tono sprezzante- un sogno irrealizzabile.

Sognavo.. Sognavo di giocare a pallacanestro al mio paese

Sognavo, volevo… Volevo giocare a pallacanestro al mio paese, volevo..

Volevo che tutti i ragazzi e le ragazze di Lograto potessero giocare a pallacanestro al mio paese

Volevo..

Belvo

 

Questa, che vi abbiamo appena raccontato, è uno spicchio della storia di Giuliano Aradori, detto il Belvo, di Pietro Aradori, detto il Cannibale ( o lo Squalo), e di Maria Giulia, moglie del Belvo e mamma di Pietro. E ovviamente,del  Basket Team Lograto 75

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