Recensione-omaggio di ‘La Jugolasvia, il basket e un telecronista’,  alla vigilia degli Europei di Slovenia, che si giocheranno nelle terre che hanno fatto da sfondo all’epica del giornalista di TeleCapodistria. Una persona che riassume in sé molti dei valori che ispirano la banda corsara di Dailybasket.

 

“Ecco che Weis va sulla lunetta del tiro libero…questo giocatore  è veramente un brocco…” (Weis tira il libero e non prende neanche il ferro) “Eccolo: Weis si è appena espresso in tutte le sue folgoranti capacità!”

 “Il collegamento è difettoso…non si sente niente…ma non stupitevi! Qui è così da 30 anni!”

 “Kristof Lavrinovič ha un gemello, Darius. Pensate che sono nati lo stesso giorno!”

 “Ma diciamolo dai! …questa è una partitaccia ignobile, non so cosa sto a fare io qua a commentarla e soprattutto voi a casa a guardarla…”

L'immenso, il Dioscuro: Drazen Petrovic

L’immenso, il Dioscuro: Drazen Petrovic

Ecco, avete capito persino se siete dotati di scarsa intelligenza (ma se siete lettori di Dailybasket, molto probabilmente avete un QI superiore al 115, quindi avete perfettamente colto l’antifona): questa recensione, pur senza mai scadere in una retorica melensa che farebbe inorridire il suo soggetto principale, è una sorta di resoconto agiografico di quello che ha fatto nella sua vita professionale Sergio Tavcar, l’icona generazionale di migliaia di baskettari accaniti, nati tra i Sessanta e i Settanta (sono quelli migliori, è del tutto ovvio…), che al Liceo si facevano inesorabilmente beccare da quella di Latino mentre leggevano avidamente Superbasket, oppure compulsavano maniacali le citazioni di questo eterodosso telecronista di Tv Koper Capodistria, tanto che i fanatici di citazionismo tavcariano (o tavcarista) formano una sorta di setta esclusiva e inavvicinabile: per accedervi, bisogna mandare a memoria ininterrottamente almeno 360 minuti di estratti da telecronache dello stesso Tavcar. Il quale, tre anni fa, ha condensato il suo sapere relativo alla materia che maggiormente padroneggia- la storia del basket jugoslavo, un autentico unicum a livello planetario- in un libro che non vi incanterà per la veste grafica. Che non vi sedurrà con pagine patinate o con le fotografie che avremmo avidamente fatto passare: non c’è manco una fotografia in 194 pagine, ed il libro è uno dei meno belli che ci sia capitato di toccare con le nostre mani di lettori bulimici di volumi a tema cestistico. Ma il contenuto, quello sì, è tale da suggerire il posizionamento dello stesso in una teca, da osservare con ammirazione mentre si gusta una partita in Tv. Magari sorseggiando un grande Single Malt, carezzando le cosce piene di una maggiorata creola.

D’altro canto non ce ne voglia il cavalier Ferrero, ma che basket sarebbe senza Sergio Tavcar? Che basket sarebbe, senza questo personaggio che ha sistematicamente fatto di tutto per non esserlo, che ha visto da vicino l’epopea e cantato l’epica dei più grandi giocatori jugoslavi e poi balcanici (negli anni successivi al sanguinoso conflitto di inizio anni Novanta), con ripetute incursioni nel basket di casa nostra?

Sergio Tavcar è un oltranzista di una certa ortodossia cestistica, fatta di impegno, fondamentali, di classe accompagnata a dedizione sovrumana (come nel caso di Drazen Petrovic); Tavcar è un anarco-conservatore che deve aver certamente letto Ernst Junger, specie il Trattato del Ribelle. Un giornalista che guarda con manifesto sdegno all’iper fisicità della pallacanestro Nba, specie quando si distacca in maniera così palese dalla tradizione continentale, quando scompagina i ruoli, quando fa prevalere la potenza alla bellezza e all’estetica del gesto.

Tavcar è Tavcar, punto. Insostituibile, come la  Nutella. Nel libro di cui vi vogliamo parlare, omaggiando Sergio nel giorno in cui scattano gli Europei nella ‘sua’ terra slovena, l’autore compie una disamina storica, sportiva ma anche antropologica del popolo jugoslavo, indagando le ragioni di questa straordinaria produzione di campioni.  A modo suo, ovviamente… Altrimenti,  non saremmo qui a parlarvene.

LA SELEZIONE NATURALE E LA NASCITA DI UN MITO

“Per quanto riguarda la coordinazione, è solo ovvio che in un popolo di contadini e pastori gli imbranati sono stati fatti fuori molto presto dalla selezione naturale”, chiarisce Tavcar a pagina 3. Da qui un excursus sui suoi esordi di telecronista, la prima finale di coppa dei Campioni, l’Ignis Varese schiacciata dai russi di Sergei Belov e dai suoi 25 punti, l’irruzione di Kreisimir Cosic, le Olimpiadi di Montreal 1976, quando la Jugoslavia di Kicanovic, Dalipagic, Delibasic, Jerkov  e Zizic si piega solo in finale al cospetto dei giovani universitari Usa di Dean Smith: Adrian Dantley, Mitch Kupchak, Phil Ford e Scott May, successivamente allievo del professor Dido Guerrieri a Torino. Stì cazzi, verrebbe da dire…

Toni Kukoc in maglia Jugoplastika

Toni Kukoc in maglia Jugoplastika

Tavcar assiste, in  prima persona, all’irrompere della Golden Age slava negli anni Ottanta, quando- dopo i pur nobili fasti degli anni Settanta- la Jugoslavia, per un paradosso storico sportivo proprio prima di implodere, sforna a getto continuo talenti di 14 o 15 anni che reggono il campo con la compassata autorevolezza dei veterani. Si chiamano ovviamente Drazen Petrovi, il Mozart dei Canestri (copyright Enrico Campana), Dino Radja, Sale Djorjevic, Sasha Danilovic, Zarko Paspalj.. A Spalato la Jugoplastika strappa al tennis tavolo un giovane playmaker altissimo, che dimostra subito un talento superbo: si chiamava Toni Kukoc. Sono i tempi del glorioso Cibona Zagabria dei fratelli Drazen e Aza Petrovic, Cutura, Nakic. Gli anni delle coppe dei Campioni interamente seguite da Tavcar, quando Drazen- nel corso della prima fase a gironi- mette a segno i seguenti score: 31 (contro Maccabi), 28 (Bancoroma), 44 (Cska), 35 (Virtus Bologna).  Nel 1986 l’anno della consacrazione e della storica vittoria del Cibona contro lo Zalgiris del principe Sabonis: contro la Simac di Dan Peterson Drazen dice 47, poi fa a fettine il Real nella tana di Madrid, 107 a 91 e 49 punti di Petrovic (ragione che spingerà i Blancos ad ingaggiarlo, e nel 1989 sarà vittoria in Coppa delle Coppe contro la Caserta di Oscar e Nandokan Gentile: 62 punti di Petrovic, Real vincente ai supplementari..). Il 1986 è anche l’anno di un cambiamento epocale,  anche se extra cestistico: Slobodan Milosevis sale alla carica di segretario dei Comunisti di Serbia, galvanizzando con comizi nazionalisti un popolo che si era sempre sentito sminuito dal dominio del maresciallo Tito. Covavano furori nazionalisti e ultrasecolari,  nonostante 40 anni di unità formale sotto l’egida della contrapposizione tra blocchi. Venuti meno i blocchi, era ovvio sarebbe esplosa la questione etnica. Ai campionati europei del 1987, il ct della Nazionale Kreso Cosic può schierare Petrovic, Kukoc, Paspalj, Radja, Djordjevic, Divac e Radovanovic. Eppure quella formazione riuscì a perdere contro la Grecia di Yannakis e Galis, dando il via al boom del basket che ha perseverato sino ad oggi in terra greca. Anche a Seul 1988 la baby nazionale slava, farcita di campioni, cede alla Russia di Marciulonis. Di quel decennio dorato non sarebbero rimasti che sconfitte nel  momento clou, quando se solo fosse stato concesso un tempo che non ci fu quella Jugoslavia avrebbe fatto a pezzettini qualsiasi avversario.

LARRY BIRD E MASON ROCCA; L’ULTIMO MONDIALE DELLA JUGOSLAVIA

“La mia concezione di giocatore di basket è  molto peculiare: per me è colui che trae il massimo possibile dal potenziale fisico e tecnico di cui dispone, e non ci possono essere dubbi che Larry Bird fu il giocatore che più incise sulle fortune delle sue squadre in proporzione alle doti naturali ricevute. Tanto per dire, nella mia bizzarra concezione uno straordinario giocatore di basket è Mason Rocca”. Capito? Chiaro. Cristallino. Tavcariano. Sul finire degli Ottanta, la Jugoplastika di Kukoc e Radja incanta l’Europa conquistando la Coppa dei Campioni ne  spazzando via prima il Barcellona poi il Maccabi, quello infarcito di Magee, Mercer, Barlow e di Dorom Jamcky ( mica il Gesù Buon Pastore). Sul finire della storia jugoslava,  mentre per le strade si erigevano già le barricate e i giocatori serbi cantavano l’inno a squarciagola, tra il silenzio dei compagni non serbi, si consuma una vittoria che sa di tragico: ai Mondiali 1990 la Jugoslavia di Drazen, Kukoc, Zdovc e Savic batte 99-91 gli usa di Mike Krzyzewski (c’erano Alonzo Mourning, Kenny Anderson, Chris Laettner e Chris Gatling), infine conquista l’oro piegando 92 a 75 la Russia.

L’Europeo 1991, giocato a Roma, vede la Jugoslavia vincere sull’Italia (88 a 73, poco più di una formalità) mentre i carri armati di Milosevic invadono la Slovenia, causando il rifiuto a scendere in campo di Jure Zdovc.

EPITAFFIO PER DRAZEN, E PER IL BASKET FU JUGOSLAVO. UN EPILOGO AMARO E CONSERVATORE

“Dal mio punto di vista la storia del basket jugoslavo finisce nel 1993 con la morte di Drazen Petrovic, al culmine della sua vita di sportivo (stava per compiere 29 anni), che con la sua proverbiale ostinazione era riuscito a sfondare anche in Nba, quando era passato dall’aria mefitica di Portland ai New Jersey Nets. Con la sua morte si percepì vividamente e dolorosamente il concetto che  nulla sarebbe stato come prima, che un’era era definitivamente tramontata”.

 Impossibile non essere d’accordo con quanto Sergio scrive a pagina 172.  Epitaffio per Drazen,  sia sempre lode al suo nome, e per il basket della fu Jugoslavia. Finita la storia del basket jugoslavo? Come si sa, la storia non finisce mai, dice l’autore. ‘Che però sia finita ‘una’ storia è innegabile’. Impossibile non concordare.

Obradovic

Obradovic

Com’è impossibile, specie per chi scrive, non fare altro che sottoscrivere alla virgola l’amara chiosa finale dell’autore, che ha deciso di rinunciare  fare l’allenatore perché “la stupida ambizione e la cafonaggine dei genitori, la totale mancanza di ogni autorità morale sui ragazzi, viziati e pronti a essere scusati per ogni vaccata, lo sfacelo della scuola e di ogni struttura sociale che dovrebbe educare alla disciplina e al rispetto, la vacuità degli stessi ragazzi, in definitiva l’incapacità di concepire una qualsiasi attività che non abbia riscontri materiali sono cose che non potrei sopportare”. Chapeau. Si chiude con sette righe-sette di grande saggezza sulla storia secolare della Jugoslavia: “I popoli slavi che nel sesto secolo hanno occupato i Balcani hanno sempre avuto uno spiccato senso di appartenenza alla grande nazione slava, vedendo nella Russia la grande protettrice nei confronti dei soprusi patiti da germani e  latini. Questo senso di appartenenza comune, estremamente sviluppato nelle elite intellettuali, molto meno nel popolo, ha portato alla mistificazione della Jugoslavia. Un substrato culturale esiste, ed è sempre esistito”. Quindi una cultura cestistica slava esiste ed esiterà sempre, oggi icasticamente rappresentata da Zelimir Obradovic o Dusko Ivanovic, come ieri lo fu con Aza Nikolic. Domani si vedrà, ma un domani ci sarà. Perché non muore mai chi ha una storia ed un’epica. Come il basket. Quello vero. Quello di Sergio Tavcar.

‘La Jugoslavia, il basket e un telecronista’, Sergio Tavcar,   Youprint edizioni, 15 euro

Fabrizio B. Provera