Sergio Tavčar

[…] Leggo che non sarei riuscito in questi anni a capire che le partite si vincono segnando i tiri e che tutto sommato non importa come poi vengono costruiti.

Maledizione! Mannaggia! Incredibile! Sono 50 anni che dico esattamente la stessa cosa, in tantissime salse. Agli inizi di questo blog venivo attaccato a raffica da tutti i vestali del mantra che le partite si vincono in difesa, che la difesa mette in ritmo (cosa voglia dire non lo so, ma di questi tempi va di moda dirlo) l’attacco, che difendendo bene poi si ritrova la fiducia in attacco (l’idea sarebbe che se una squadra difende bene poi tira più leggera in attacco, perché saprebbe che, anche se sbaglia, ci sarà poi la difesa a metterci una pezza: alzi la mano chi ha giocato qualche volta a basket e che quando tira pensa a queste cose – in realtà a me veniva da pensare che, visto che il coach mi aveva fatto sgobbare come un pazzo in difesa, ero arrivato al tiro spompato e con le gambe che mi tremavano, per cui di fiducia proprio non ne avevo, anzi) e tutte le altre clamorose menate del genere che vengono profferite di continuo. Tutte cose che per la mia estrazione cestistica, per tutta la vita rivolta alla mentalità del basket jugoslavo, sono cose molto americane, o anglosassoni se volete, ma che sono la classica fuffa per trovare una scusa perché anche perfetti cessi scendano in campo (“sì, ma sai come difende!” – mi ricorda il famoso aneddoto di Praja che alla critica di un giornalista che gli imputava una scarsa difesa per il fatto che il suo diretto avversario avesse segnato 20 punti, rispose: “Io quanti ne ho segnati? 35? 15 a 0 per me”). Sono esattamente 50 anni che ripeto come un mantra che l’unica cosa che alla fine importa è quanti punti hai segnato tu e quanti gli avversari. Come tu li abbia fatti non ha la minima importanza. Se segni anche dallo spogliatoio in doppio avvitamento carpiato hai sempre ragione tu. Punto. Come più volte sottolineato in Jugoslavia senza tiro non giocavi a basket. Fine. Mancava il presupposto fondamentale e imprescindibile per poter scendere in campo.

Mi ricordo in merito una trasferta di Coppa Campioni a Spalato per commentare un Jugoplastika- Scavolini (quando poi la Jugoplastika vinse la Coppa nella finale di Monaco), quando per la Rai arrivò a commentare Aldo Giordani, con cui eravamo in eccellenti rapporti di stima e amicizia, per quanto su sponde politicamente perfettamente opposte. A proposito, sincere condoglianze per la morte della madre, che ho conosciuto, vera signora dai modi squisiti, a Claudia che ho conosciuto ai tempi della collaborazione con Mediaset e che è anche lei una bellissima persona. Ovviamente ci trovavamo di mattina a colazione a chiacchierare e a un dato momento lui prese un pezzo di carta e si mise a disegnare i motivi per i quali odiava il basket jugoslavo. Disse: “Vedi Tauciar (come mi chiamava), il vero basket è quello che prevede che si attacchi il canestro per arrivare a una conclusione il più vicino possibile e il tiro da fuori è solo un complemento di questa filosofia, mentre invece gli jugoslavi cosa fanno? Hanno stravolto tutto e hanno messo il tiro da fuori come prima opzione: quando uno entra la cosa che fa più spesso è passare la palla fuori a uno che tira da lontano. Ecco, questo secondo me non è basket.” Ovviamente io gli obiettai immediatamente che, se uno segna sempre da fuori, e visto che nel basket conta chi fa più punti, giocare così ha una sua ovvia logica se poi, segnando sempre, si vince. La discussione continuò a oltranza e ognuno dei due rimase della propria idea.

Ora che dopo tanti anni uno mi attribuisca esattamente le idee che combattevo aspramente quando le professava Giordani mi crea un forte disagio. Evidentemente o sono perfettamente rincoglionito o non so farmi spiegare. E allora provo a farlo, sapendo già in partenza che si tratta di un lavoro da Sisifo, tanto poi è facile estrapolare singole frasi dal contesto per far passare qualsiasi idea si voglia. Comincio con una semplice domanda: se segnare comunque e in ogni modo è l’unica cosa che conta (come è in effetti, ripeto, questo è un dato di fatto inoppugnabile), perché allora si gioca a basket secondo filosofie magari diverse, ma sempre con l’idea di costruire il miglior tiro possibile? Per l’altrettanto semplicissima ragione che, più un tiro è buono e facile, più probabilità avrà che entri e dunque ci saranno più probabilità che una squadra, giocando meglio e costruendo tiri migliori, faccia più punti dell’avversaria e dunque vinca la partita.

Poniamo adesso che una squadra abbia a disposizione tutta una straordinaria serie di segnatori (che, come dice coach Bosini, è tutta un’altra cosa che tiratori). Per una squadra del genere trovare schemi d’attacco semplici è la cosa più facile del mondo. 35 anni fa, quando la maggior parte degli intenditori da forum era ancora bambina o non era ancora nata, c’era una squadra che era in Europa la perfetta dimostrazione di cosa significhi avere a disposizione gente che da fuori non sbagliava colpo. Era di Zagabria, Jugoslavia, e si chiamava Cibona. In quegli anni vinse due Coppe Campioni di fila e dunque il suo gioco era maledettamente redditizio, visto che praticamente giocava senza un vero centro di ruolo, se si esclude il tutto sommato modesto Arapović. Una volta venne a Trieste a giocare un torneo e andai a vedere la partita contro la Stefanel. La quale a un dato momento ebbe la malaugurata idea di mettersi in difesa a zona. E allora il Cibona schierò quattro uomini sulla linea del tiro da tre, tutti a uguale distanza l’uno dall’altro, i fratelli Petrović, Ušić, biondo polesano (di Pola, per i fenomeni che chiamano Fiume Rijeka Pula – inciso curioso: subito dopo gli allenamenti del Cibona c’erano quelli della Mladost femminile di pallavolo, e guarda caso una ventina di anni dopo la nazionale femminile croata di pallavolo aveva quasi tutti cognomi che ricalcavano quelli del Cibona basket con la figlia di Ušić, Senna, che oltre a essere una grandissima giocatrice era una sventola abbacinante) che sapeva solo tirare, ma lo faceva in modo straordinario, e Nakić, lasciando il solo Čutura sotto il canestro avversario. E mise in pratica uno schema d’attacco che consisteva in una serie vorticosa di passaggi fra i quattro sulla linea di tiro da tre fino a che uno non rimaneva solo abbastanza tempo per poter tirare. E segnare. Ogni volta. Dopo aver subito 4 triple su 4 attacchi di fila la Stefanel ritornò a uomo. L’anno dopo il Cibona (che aveva perso incredibile in campionato contro lo Zadar) dovette giocare la Coppa delle Coppe che vinse puntualmente battendo a Novi Sad la Scavolini. Inizio partita: Cibona avanti 6 a 0, recupero in difesa, contropiede con Aca Petrović che va a canestro, potrebbe segnare in sottomano, ma riapre verso la linea del tiro da tre dove aspettava Cvijetičanin, tiratore piedi per terra infallibile, e mentre Cvijetičanin sta incoccando e poi appena scoccando il suo tiro, Aca va a fare una sfilata sotto la tribuna facendo il suo classico, e tanto odiato, gesto dell’aviatore. 9 a 0 e partita che praticamente finisce subito con la Scavolini che non riesce a raccapezzarsi su cosa stia succedendo.

Quello che voglio dire citando questi esempi è che, se si vuole basare il proprio gioco esclusivamente sul tiro da tre, lo si può fare senza nessun tipo di filosofia particolare. Il campo è abbastanza grande per fare in modo che, dopo una serie di veloci passaggi e di tagli puntuali, ci sia sempre uno che abbia lo spazio e il tempo per tirare da tre. Ragion per cui quando sento che la squadra tal dei tali ha giocato in modo superbo in attacco trovando Tizio solo per un tiro da tre e che poi questi, sfiga, il tiro lo ha sbagliato, ma era un buon tiro, mi viene un attacco di itterizia. Un tiro sbagliato è sempre, la filosofia è sempre quella e vale anche al contrario, un errore e dunque l’attacco è stato un pessimo attacco. Non si scappa: non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca. Se un tiro da tre senza senso entra e allora l’attacco è stato fantastico, allora vale esattamente anche il contrario: se un tiro da solo piedi per terra da tre non entra l’attacco ha fallito. E se per caso succede, e succede molto spesso, che in un periodo della partita questi tiri non entrino, allora la squadra avversaria scappa e bisogna trovare un piano B.

Ettore Messina in sala stampa (©2019 Foto Alessio Brandolini)

E proprio qui sta il punto nevralgico, quello che avevo sottolineato io nel commento su Milano che è stato così clamorosamente frainteso (anche da Buck, e la cosa mi delude). Sia nella partita contro Brindisi che contro Sassari che ieri contro il Baskonia questo piano B, o se per quello C o D, non l’ho visto proprio. Senza girarci tanto attorno piani di riserva vuole essenzialmente dire che a un dato momento, quando la mano si inceppa, bisogna cominciare a giocare a basket secondo le idee di Aldo Giordani. E allora bisogna avere un’organizzazione nella quale ogni giocatore deve sapere cosa fa e quando lo deve fare, dove deve e dove non deve, e quando, andare, insomma ognuno al suo posto a remare tutti nella stessa direzione. Ripeto, in tre partite queste cose non le ho viste. E, ripeto ancora e non abiurerò mai a quanto sto scrivendo, ho avuto la netta sensazione di giocatori che vagavano per il campo a caso a cercare soluzioni personali o passaggi a qualcuno trovato all’ultimo momento per sbaglio. E questo, almeno dal mio punto di vista, è un pessimo segnale. In questo contesto leggo anche la partita di ieri contro il Baskonia: gambe molli e idee annebbiate le spiego semplicemente con una giornata mediocre al tiro (dov’era stavolta Roll? e Shields? e Punter?) senza piani alternativi di sorta. Per me is as simple as that. Che poi i baschi siano stati comici nel finale buttando via un tranquillo più 16 con cazzate assurde, che neanche il mio Polet, è tutta un’altra storia che non cambia di una virgola il ragionamento.

E ancora una parola su Hugo Sconocchini (o Sconochini? non l’ho mai capito veramente – lui come si firma?). Nel pezzo precedente ho elencato i sei dell’Argentina delle meraviglie. C’era anche lui, se andate a vedere. E dunque mi sembra solo ovvio che io abbia nei suoi confronti una grandissima stima e se è sembrato che non fosse così chiedo scusa. Non si poteva giocare in quell’Argentina se non si era grandi giocatori di basket. E Hugo lo era, senza dubbio. Per cui capisce tantissimo di basket e lo conferma quando fa commenti che gli sgorgano dal cuore. E dunque mi da tanto più fastidio quando vuole fare il politicamente corretto dicendo cose che, sono sicuro, sa che deve dire, ma non le pensa.