In un periodo in cui la pandemia ci sta obbligando a dare l’addio a tante persone che hanno segnato la nostra vita, e anche lo sport – a causa del Coronavirus o meno – sta pagando il suo prezzo di lacrime, a Roma gli appassionati di basket si trovano a dare l’addio anche a una storica realtà sportiva che – tra gioie e dolori – li ha accompagnati per 60 anni. Un addio certamente meno doloroso di quello che molti di noi hanno dato ai propri cari portati via dal Covid, ma non per questo trascurabile per chi ha fatto della Virtus una ragione di vita. O anche per chi, più semplicemente, ne ha condiviso alti e bassi, glorie e delusioni, dai magici anni ’80 al lento calvario che ha portato al recente ritiro dal campionato di Serie A. Nelle righe che seguono, Eduardo Lubrano condivide con noi i suoi pensieri e le sue memorie sulla “fu” Virtus Roma.
La Virtus Roma per me ha iniziato ad essere qualcosa di molto importante quando avevo circa 17 anni, nel 1979. Quando cioè alla corte di coach Nello Paratore arrivarono due americani, Phil Hicks e Mike Davis molto diversi tra loro ma entrambi appassionanti per un ragazzino che giocava come me. E che veniva da un’altra società storica della Capitale, la Lazio. Hicks era biondo, di Chicago, un’ala con un tiro mortifero e che ogni volta che lo caricava aveva l’abitudine o il tic di spostare il piede destro indietro per trovare un miglior equilibrio. E segnava sempre. Davis era nero, alto quasi 2 metri e dieci, da Baltimora (come Henry Sims il centro della promozione in Lega A nel 2019) grosso e schiacciava spesso e volentieri quel che gli passava per le mani e stoppava a volontà. Quei due mi colpirono moltissimo e cominciai ad appassionarmi alle vicende di quella squadra che si chiamava BancoRoma e che dalla sua nascita, nel 1960 col nome di Virtus Aurelia, cresceva anno dopo anno, fino ad arrivare quasi allo stesso livello delle storiche società romane: Fortitudo, Stella Azzurra, Lazio. Sono stato fra i tantissimi che hanno affollato il PalaEur nell’anno dello scudetto fino all’ultima partita e tra quelli che l’anno dopo insieme a qualche amico stipato nella stessa macchina, è andato a Ginevra a vedere la vittoria nella Coppa dei Campioni.
Di lì a poco ho iniziato a cimentarmi con la carriera di giornalista e quindi ho dovuto mettere la passione in secondo piano e guardare le cose della Virtus da un’altra ottica. Sono stato tra quelli che hanno avuto l’onore ed il piacere di conoscere alcuni dei fondatori della Virtus: Rino Saba, Paolo Ragnisco, Franco Pileri e Armando Polidori.
Oggi, quale che sia l’angolazione dalla quale si osserva la situazione, è tutta molto triste e molto amara. Perché non è nel 2020 che è crollata la Virtus Roma. La società che Claudio Toti ha rilevato giusto 20 anni fa, nel 2000, ha iniziato a scricchiolare ad ogni annuncio di cessione da parte del suo proprietario, quattro o cinque. E visto che ogni volta c’è stata una marcia indietro, la volta successiva l’urgenza è stata presa sempre meno sul serio. La società ha iniziato a crollare quando Toti ha deciso di non investire nella costruzione di un club forte tanto dal punto di vista dell’immagine quanto da quello della composizione numerica della dirigenza. La rinuncia al PalaEur per la finale del 2013, quella all’Eurolega per l’anno seguente, l’autoretrocessione del 2015 spacciata come il solo modo per far rinascere il basket romano a tutti i livelli, la non festa per la promozione in Lega A del 2019. E nel frattempo le uscite di scena di personaggi di livello come Alberani, Giofrè, Ronci, il continuo cambio di allenatori, 5 dal 2013 ad oggi (Dal Monte, Caja, Corbani, Bechi, Bucchi), 7 perché bisogna aggiungere Saibene ed Esposito che ha guidato la squadra alla salvezza al primo anno di A2. Nonostante nel 2010, durante la conferenza stampa di presentazione di Sasa Filipovski, lo stesso Toti avesse detto: “Lui è l’ultimo allenatore della mia gestione”. Ai 5 di sopra vanno aggiunti, subito dopo il coach sloveno che ha resistito 24 partite, Lino Lardo e Marco Calvani.
Insomma radici profonde di un crack, per un amore certamente cresciuto col tempo tra Claudio Toti e la Virtus Roma, ma che nei primi anni lo portò anche a dire ad amici e confidenti di essere stato “trascinato dentro questa cosa” da Walter Veltroni, non ancora Sindaco di Roma ma grande appassionato di basket, e Giovanni Malagò, all’epoca presidente del Circolo Canottieri Aniene, la “lobby” per eccellenza dell’Italia di 20 anni fa (intesa nell’accezione americana di lobby cioè una cosa del tutto legale e normale) ed a sua volta amante del nostro sport. Vero? Falso? Difficile dirlo, fatto sta che Toti con la presidenza della Virtus Roma ha avuto molta fama nella Capitale ed ha passato un bel periodo sull’onda del successo. Poi l’asticella si è alzata, la finale scudetto con Siena del 2008 ha fatto capire che per vincere bisognava fare investimenti importanti per un certo numero di anni e non per uno solo. La battaglia politica contro la Montepaschi di Minucci – nota di merito della presidenza Toti – ha lasciato qualche ferito sul campo romano forse e spento l’entusiasmo del presidente che senza volerlo quasi si è trovato di nuovo in finale e di nuovo contro Siena nel 2013. E qui la prima picconata fortissima: non si va al PalaEur perché Roma non ha un pubblico da finale, il pensiero del patròn. Una ferita profonda aperta che Toti ha continuato ad allargare negli anni non trattando sempre benissimo i tifosi.
Anche in questa stagione ne ha combinata una delle sue. Dopo il campionato interrotto dello scorso anno, tutte le società di serie A hanno scritto ai loro abbonati proponendo una qualche forma di rimborso, recupero, investimento dei soldi spesi. La Virtus niente, nemmeno un comunicato. Nemmeno un: “Ci spiace, ormai i vostri soldi li avete spesi. Peccato per voi”. Detto dell’autoretrocessione c’è da aggiungere anche il particolare dell’iscrizione in ritardo nella stagione successiva, che alla fine fu fatta passare – anche dalla stampa romana inebetita – per un misundestanding tra quanto scritto sul sito della Fip e quanto interpretato dalla dirigenza, leggi Toti, virtussina. Insomma per farla breve una serie di figuracce che se qualcuno le avesse messe insieme prima e con un filo logico avrebbe capito: Toti sta facendo di tutto per farsi cacciare. Quando il 17 maggio scorso ha diffuso il comunicato nel quale annunciava il suo disimpegno dalla società, in molti hanno creduto al solito al lupo al lupo. Sottostimando la questione Covid e la crisi che ha spezzato le gambe al settore alberghiero della holding Lamaro, da cui in questi anni Claudio Toti ha tratto le risorse per finanziare l’attività della Virtus. Ed anche il fatto che prima del lockdown pare fosse davvero in via di chiusura la cessione ad una non meglio cordata di imprenditori italiani che dal blocco delle attività a loro volta hanno avuto danni enormi.
La storia recente è così triste che va esaurita in poche righe: Toti che iscrive la squadra al campionato sulla base di due strette di mano che gli promettevano aiuto… Toti che chiama Massimiliano Del Conte per portare sponsor e poi cedere ad una cordata di “20 ma che dico, 30 e forse più”, parole di Del Conte, ad un gruppo di imprenditori abruzzesi. Sparito lui ed i 300 mila, anzi no 150 mila euro di uno sponsor che doveva arrivare tra metà e fine ottobre… ecco gli americani che il 24 ottobre si presentano al PalaEur a vedere la partita con Pesaro e chiedono di entrare nello spogliatoio a fine partita per conoscere la squadra. E poi l’accordo verbale al telefono con tanto di annuncio in Federazione, il silenzio, la due diligence, l’appello disperato “vendo ad un dollaro!”. Ingegnere ci sarebbero da pagare 35 mila euro per la quarta rata federale… scusi sono diventati 38 mila perché c’è la multa ma dopo l’ottavo giorno ci escludono… E la scena finale: mercoledì 9 dicembre alle 21.45 il comunicato della Fip che annuncia di aver ricevuto la comunicazione della rinuncia. E giovedì 10 alle 11.24 il comunicato della Virtus che dice che ha rinunciato. Neanche nell’ora suprema il coraggio di affrontare le cose nel modo giusto. Brutto, tutto molto brutto. Meno male che mi ricordo ancora del passo indietro di Phil Hicks e delle stoppate di Mike Davis…