Trinchieri (foto R.Caruso)

Andrea Trinchieri a Caserta ha raggiunto lo 100 panchine in serie A tutte alla guida di Cantù.

Ricorda l’emozione della prima?
No, ricordo solo che era lunedì e che si trattò subito di mia mazzata perché perdemmo in casa con Treviso. Pensai “ahi, quest’anno si soffre”.

Quota cento è un traguardo al quale ambiva?
Quando hai così tanta passione come l’ho io, non ti soffermi sul medio-lungo termine perché ti basta ciò che assapori ogni domenica.

La più emozionante, di panchina?
La seconda di campionato a Cremona il mio primo anno. Avevamo appena perduto con la Benetton e vincemmo una partita incredibile al supplementare. Quella fu la svolta, altrimenti sarebbe potuta diventare una stagione anonima.

Quella che le ha dato maggior soddisfazione?
Gara-4 di semifinale l’anno scorso a Milano (la Bennet sbancò il Forum volando in finale, ndr).

La più amara?
Quest’anno ad Ancona con Montegranaro.

Quando nella ripresa lei lasciò la conduzione tecnico al suo vice Molin, vero?.
Sì, avrebbe anche potuto essere un’intuizione corretta per scuotere la squadra e invece ho commesso un grave errore di valutazione. Perché un generale deve stare sempre davanti alle proprie linee, mai dietro. No, quella mossa non la rifarei.

La più deludente?
Sempre quest’anno, in casa con Venezia perché quella è stata la sconfitta che ha determinato tanti problemi: di classifica e di autostima. Occorreva indagare su noi stessi e allora abbiamo dovuto guardarci dentro molto a fondo.

La più travagliata?
Ancora quest’anno, quando ci presentiamo a Roma senza Micov e Scekic e durante il riscaldamento si fa male pure Shermadini. Mi son detto che sarebbe il caso la prossima stagione di andare prima in ritiro a Castel Gandolfo…

Quella della magata che resta agli atti?
La mia prima stagione, quando a Pesaro giocammo praticamente in sei e mezzo, senza Lydeka e Jeffers. Lasciammo che Green si sfogasse, ma da solo, vale a dire negandogli il contatto con il resto della squadra.

La panchina dove più si sta comodi?
Non esiste. Io sono sempre scomodo perché mi sento come un fachiro.

La più esilarante?
Qualche giorno fa ad Avellino. Durante un time out mi si avvicina mio spettatore dandomi del occhione. Io lo osservo con sguardo esclamativo e lui ribatte: “tu non lo sai ancora ma sei un ricchione”.

In un mini-ciclo di due anni e mezzo ha portato in alto Cantù senza peraltro ancora mai vincere. Le pesa essere ritenuto l’eterno secondo?
Preferirei essere qualche volta “1”, certo, ma servirebbe un colpo di reni ancor più forte. Di sicuro, comunque, mai mi sarei aspettato di aver giocato due finali di Coppa Italia, una scudetto e una di Supercoppa, oltre a esserci garantiti l’accesso all’Eurolega, in sole 100 partite. Insomma si è trattato di lui periodo decisamente molto intenso.

Le panchine con Anna Cremascoli?
Ormai si tratta di un rituale e forse c’è anche della scaramanzia nel sedersi l’una accanto all’altro prima delle partite. In fondo, è un presidente che si accomoda vicino al suo allenatore per ascoltarlo. E poi è un buon posto per stare tranquilli perché così nessuno ti viene a rompere le scatole.

Cantù trampolino di lancio per Trinchieri o viceversa?
Nessuno dei due. E solo un binomio che per adesso funziona. A tal proposito, vorrei dire che ho imparato molto presto che quello che si dice in Italia è taroccato.

Perdoni, ma necessita una traduzione.
Mi è bastato andare in giro quattro mesi per l’Europa per rendermi conto di quanta considerazione ci sia nei confronti di Cantù, intesa come squadra, club e tifo. Giudizi non inquinati dal campanilismo tipico dell’italico pensiero. E che rappresentano la fotografia di ciò che insieme stiamo riuscendo a fare.


Fonte: Fabio Cavagna - La Provincia