zar sabonisOmaggio di DailyBasket alla più sfolgorante leggenda della pallacanestro russa e lituana, di cui lo Zalgiris Kaunas ha appena ritirato la gloriosa canotta numero 11

E’ una storia intrisa di mitiche rievocazioni storico geografiche, sportive, socio politiche, che sfuggono a ogni precedente – e successiva – classificazione. E’ una storia che si snoda lungo un sentiero sconnesso di date e ricorrenze, non necessariamente lineari in termini di tempo, come nello splendido gioco a incastri tarantiniano di Pulp Fiction. Niente unità di tempo, luogo e azione, ai modi dell’Antica Grecia. L’epopea di Arvydas Sabonis – nobili ‘lituani’ genere natus nel 1964, maglia numero 11 ritirata per sempre, pochi giorni fa, dallo Zalgiris –  rassomiglia a una cavalcata solitaria e atemporale.

Possiamo cominciare da Budapest, la sera del 3 aprile 1986. Sul parquet magiaro si sfidano, per la finale della Coppa dei Campioni, il Cibona del non ancora 22enne Drazen Petrovic – e di Nakic, Cveticanin, Cutura e  Arapovic – e lo Zalgiris dello Zar Sabonis (e di Iovaisha, Kurtinaitis e Homicius: piena autarchia jugo-baltica). Drazen è una stella che splende da mo’: arriva alla finale con una media punti stellare, 40.2 (mai più nessuno, come lui), e guida il Cibona verso il ‘repeat’ dopo la  vittoria del 1985. Nel finale, dopo che l’arcigno e alquanto son of a bitch Nakic subisce fallo sotto le plance lituane, scatta una rissa piuttosto accesa. Strano, verrebbe da dire;  con di mezzo dei croati e dei lituani, chi non conosce l’attitudine guerriera di quei due popoli pensava che si sarebbero scambiati delle margherite.. Dopo alcuni secondi, lo Zar arriva da tergo e colpisce Nakic, che finisce platealmente (ed astutamente..) a terra. La terza leggenda in campo quella sera, il fischietto Carl Jungebrand, sanziona il fallo di Sabonis con l’espulsione. Il lituano se ne esce con 27 punti, 12 rimbalzi, 3 stoppate e 3 assistenze, prima del tempo… E’ l’apotesi di Drazen e del Cibona, che issano il loro vessillo sul basket europeo per la seconda volta consecutiva, prima delle vittorie e del Triplete dell’Olimpia del Nano Ghiacciato e di Franco Casalini: a Budapest finisce 94 a 82. Sabonis, dirà molto più avanti, vive quella sera come la più grande delusione sportiva della sua vita.

Di padre in figlio

Di padre in figlio

Passeranno molta acqua e molta vodka, corroborante che Sabonis ha sempre tenuto in grande considerazione, sotto i ponti. Un palmares sterminato. Oro alle Olimpiadi 1988 con la casacca sovietica, contro l’Usa dell’Ammiraglio, Richmond, Majerle, Augmon, JR Reid. L’ultima selezione cestistica che avrebbe indossato la maglia dell’URSS era colonizzata dal talento lituano (Marciulonis e Kurtinaitis) e della classe felina di Sasha Volkov. Gli Dei del Basket, ovviamente, scelsero di mettere in panchina- per quell’ultima, gloriosa volta- una leggenda vivente: il ‘colonnello’ Alexander Gomelski.

Siamo tuttavia certi che lo Zar visse con la stessa intensità, se non di più, il più modesto Bronzo ottenuto a Barcellona  nel 1992, il primo con la casacca gialloverde della Madrepatria, la ‘Lietuva’. Poi ci saranno l’ingresso nella Hall of Fame di Springfield e in quella Fiba, oltre che in ogni classifica e/o primato di qualsiasi genere stilato da chicchessia, si trattasse della Nba o del sindacato venditori di bibite oppure hot dog ai palazzi.

Nel 2004, alla veneranda età di 40 anni, conquista persino il titolo di miglior giocatore della stagione di Eurolega, indossando ancora la maglia dello Zalgiris. Pensate un attimo a ‘quel’ Sabonis: 40 anni, ginocchia bioniche o metalliche, infortuni, dolori d’ogni genere, la lentezza elegante d’un tempo che s’è fatta proverbiale, il ricordo di quando in Nba uccellava senza troppa fatica gente come Shaquille, fintando sul primo passo e appoggiando dolcemente a canestro, con la stessa facilità con cui ingollava il distillato di patate e cereali a lui così caro. Il distillato che, letteralmente, lo stende negli spogliatoi quando la Lituania, sua e di Marciulonis, sale come detto sul podio di Barcellona. Ma alla cerimonia di premiazione Sabonis non c’è: la leggenda dice che fu ritrovato da qualche oscura parte nel villaggio femminile, altri suggeriscono che sfidò a braccio di ferro dei lottatori.. Ci pensò Marciulonis a dire la verità: ‘Provate voi a portare a braccio 225 centimetri e 135, 138 chili ad una cerimonia di premiazione olimpica. Noi non ce la facemmo’, disse il campione di Golden State, spiegando l’arcano della sua assenza… Altezza e peso ne fanno, come ha saggiamente scritto Simone Basso, finis dicitor del cesto lituano, una sorta di scherzo della natura, specie se combinati col suo sterminato ‘arsenale’ tecnico: non c’era inatti cosa che Sabonis non potesse fare. Palleggio, tiro, finta, penetrazione, conclusioni da tre punti, rimbalzi, assistenze, no look pass davanti e dietro la schiena, cavalcate lungo il parquet come se fossero praterie, come se fosse in sella a Re Nero, il cavallo di Raul, il fratello di Ken Shiro, per schiacciare gli spicchi a canestro.

'Due vodke, ragazzo..lunghe'

‘Due vodke, ragazzo… lunghe’

Otto anni di Nba, dopo che nel 1985 viene scelto al draft da Atlanta, che lo passa ai Clippers che lo passano a Portland, dove nel 1995- a 31 anni, crollato il muro e l’Impero (ante Putin), la Lituania rinata come Nazione libera e autonoma- esordisce ufficialmente. Nella città dell’Oregon Sabonis, senza troppa fatica, assume lo status di leggenda pure Oltreoceano: ventella comodamente, nonostante il declino fisico, supera le 35 primavere senza mai dismettere l’abito di sempre. Quello dominante. C’è solo una cosa, a ben vedere, che è mancata molto spesso ad Arvydas Sabonis: il sorriso. Ride molto poco, quasi mai. Ha indosso un disincanto regale, noblesse oblige, tipico di chi è investito di una tale potenza di derivazione mistico divina da ritenere superflua un’applicazione spasmodica. Non è come il Drazen che passa in palestra le ore più impensabili del giorno e della notte. Arvydas, in Oregon, diventa conoscenza fissa della polizia, che spesso becca lui e la moglie di allora- miss Lituania- col gomito troppo alzato e un’eccessiva quantità di vodka in corpo. Cosa sarebbe accaduto, se fosse arrivato in Nba integro e a 21 anni di età,  non a 31 dopo il tendine spezzato? Fate vobis, la risposta  è nelle statistiche dello Zar ai playoff 1986 con Portland: 23.6 e 10.2 per partita. Punti e rimbalzi. Nothing else, to say.

Nel 2011 il cuore dello Zar si ferma: infarto. Ma si riprende.

Di lui, i blog americani parlano frequentemente usando l’espressione ‘dark past’, passato  oscuro (o misterioso?), sense of humour condito con indifferenza, padronanza delle lingue e dell’inglese. Tutte cose che ci ronzano nella testa da quando l’abbiamo scrutato dal vivo, per 1 ora intera, nel pre partita di Italia-Lituania, a Lubiana, quarti di finale dell’Europeo 2013. Eravamo a meno di 5 metri da lui, dietro il canestro che ospitava gli alti papaveri della federazione baltica. Polo verde, jeans scuro, occhiali, pizzo imbiancato. Cerchiamo il suo sguardo, che però resta fisso. Fine primo tempo. Sirena. Ci alziamo dal seggiolino. Lui si dirige verso il tunnel, dopo la squadra. Abbiamo un notes e una penna. A 40 anni, ancora il brivido di un autografo. ‘Arvydas’, diciamo rispettosamente, vedendolo procedere verso di noi. Un movimento della mano destra, serafico e veloce. In alto. Ma niente, il capo (suo) non si abbassa e il passo procede. ‘Dopo’, è come se dicesse. Un dopo che non ci sarà mai. Ma niente, forse, rende appieno l’idea della persona Sabonis – dell’uomo – meglio dell’aneddoto che ci ha raccontato Werther Pedrazzi. Nel 1987 lo Zalgiris è a Milano per sfidare la Tracer di Peterson, D’Antoni e McAdoo. Perderà entrambe le gare, a Milano e a Kaunas. Werther ha appuntamento in albergo per un’intervista. Lo accompagna la moglie, docente di russo.

Ai tempi dell'Nba, contro uno 'piuttosto' dominante

Ai tempi dell’Nba, contro uno ‘piuttosto’ dominante

‘Preferisce parlare in russo o in inglese?’, chiede Werther.

‘Sono entrambe lingue inutili, io sono lituano. Comunque parlo sia russo che inglese’, replica lo Zar.

Dalla finestra della camera, a un certo punto, intravede una Renault Fuego. E’ quella di Werther. ‘Nice, very nice car… Take me to the gym!’, portami al Lido, per l’allenamento pre gara.

E ci mancherebbe: sulla Fuego salgono i 198 centrimetri di Werther e i 222, 24 o 25 di Sabonis. A beneficio dei più giovani, basti ricordare che la Fuego non era propriamente grossa come una ‘Limo’…

Eccolo, un briciolo appena della mistica leggendaria di Arvydas Sabonis, di cui la maglia numero 11 splenderà a imperitura memoria (ma perché l’han fatto solo adesso?) sul tetto del palazzo di Kaunas. Poi c’è un biondo giovanissimo, classe 1996, nato a Portland, si chiama Domantas e ogni tanto fa venire guizzi di rimpianto e principio di lucciconi. Ma quella è un’altra storia.

La storia, quella che ci importa aver raccontato, anche se per sommissimi capi, è quella di un Principe che si fece Zar. O di uno Zar che si fece Principe. Il tempo non è la variabile principale di questa epopea. Il leggendario disincanto: quello sì.