Prima dell’inizio di questa stagione a Chicago si respirava un’aria nuova, un’aria da solida pretendente al titolo. Dopo due stagioni sfortunate, Derrick Rose rientrava a pieno regime nel roster e nel quintetto di Thibodeau e fino al 23 novembre 2013 la squadra (che qualcuno dava addirittura come la favorita numero 1 al titolo) veleggiava fra alti e bassi, considerati fisiologici dai più. Ma quel giorno, contro i Portland Trail Blazers, Rose cade di nuovo infortunandosi al ginocchio destro: il destino aveva riservato ai Chicago Bulls un’altra beffa, un’altra stagione di svanite illusioni.

Joakim Noah è adesso il leader indiscusso di questi Bulls che, nonostante le perdite di Rose e di Deng (spedito a Cleveland), hanno un record di 32-25 sin da quell’infausto 23 novembre e un record assoluto di 38-30, che vale il secondo posto della Central Division e il quarto assoluto nella Eastern Conference.

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Foto William DeShazer/Chicago Tribune

Il segreto del successo dei Bulls, oggi e nelle ultime 3 stagioni, è certamente la difesa: Chicago è attualmente 30esima nei punti segnati, ma seconda nei canestri concessi agli avversari. E’ qui che Joakim Noah entra prepotentemente in gioco come il perno attorno al quale il sistema difensivo di coach Thibodeau gira intorno. Il riconoscimento più grande è arrivato dalla stella dei Thunder, Kevin Durant, che considera Noah non solo il miglior difensore della lega, ma anche uno dei migliori passatori: “Ve ne accorgete soltanto ora, ma Noah ha sempre giocato cosi, sin da quando è entrato nella lega. Pensate sia una sorpresa, ma non è cosi. Gioca con energia per 48 minuti, su entrambi i lati del campo e passa la palla benissimo”.

Dello stesso avviso sembrano i tifosi di Chicago, che hanno cominciato a riservare a lui quei cori “MVP, MVP” che una volta erano indirizzati a Derrick Rose. “Non mi piacciono, per me non è importante quanto la squadra, che è la sola cosa che conta. Dopo tutto quello che abbiamo passato, questa stagione non può essere ridotta a performance individuali”.

Il concetto di squadra dettato da Noah viene da lontano, dai tempi di Gainesville, Florida. Al college, nel 2006 e 2007, sono arrivati due titoli consecutivi sotto coach Billy Donovan, un traguardo che a livello universitario è sempre più raro. Quei Gators, guidati dal newyorkese di origini francesi (Joakim è figlio di Yannick, campione di uno sport individuale come il tennis), sono riusciti nell’impresa di vincere sia ad Indianapolis contro UCLA che ad Atlanta contro Ohio State, senza stelle dai nomi altisonanti, ma con giocatori del calibro di Al Horford e Corey Brewer, in grado di passare sotto traccia ma di essere efficaci come pochi (e fra alti e bassi lo hanno dimostrato anche al piano di sopra).

“There is no I in team”, dice un vecchio detto legato al basket e che calza alla perfezione a tutte le squadre in cui Joakim Noah ha militato. I Bulls di Thibodeau sono da sempre questo, il posto perfetto per un giocatore che abbiamo imparato a conoscere semplicemente per la sua energia in campo e voglia di buttarsi su ogni pallone vagante, e mai per eccessi e per comportamenti sopra le righe (rimane però famoso il battibecco dalla panchina con LeBron James ai tempi della serie di playoffs fra Bulls e Cavs).

Joakim Noah (Jonathan Daniel/Getty Images)

Joakim Noah (Jonathan Daniel/Getty Images)

Essere cresciuto con una madre svedese, un padre francese, un nonno camerunense, tutti con alle spalle successi nelle loro rispettive carriere, ha probabilmente aiutato Noah, titolare di tre passaporti, a considerare la squadra prima di se stesso. L’aver conosciuto culture diverse nella sua vita (nato a New York, ha vissuto 10 anni a Parigi, per tornare in USA e spostarsi per tre anni al college in Florida), è stato decisivo, e per questo siamo sempre stati abituati a sentir da lui questo tipo di dichiarazioni: “Ci sono tanti ragazzi che devono fare un passo ulteriore in modo che i Bulls possano fare qualcosa di speciale, e lo stanno facendo. Mi piace da matti il nostro comportamento come squadra, specialmente a fine partita. Quest’ultimo aspetto credo sia quello che è migliorato di più negli anni”. 

Ma non possiamo non parlare dell’individuo Joakim Noah e di quello che è riuscito a mettere insieme dall’All Star Game ad oggi. Da quel giorno di febbraio a New Orleans il francese (che ha annunciato di non voler e poter partecipare ai mondiali di basket con la sua nazionale), ha collezionato un ottimo 53,5% dal campo (con quasi il 60% sotto canestro), 10,5 rimbalzi e 13.8 punti a partita (14 nel solo marzo, finora il miglior mese in carriera).

Certamente tutta Chicago voleva e pretendeva di meglio in questa stagione. Sulla riva del lago Michigan non ci si poteva mai aspettare che Derrick Rose prima e Luol Deng dopo non avrebbero fatto parte di questa versione dei Chicago Bulls. Joakim Noah non ha parlato per settimane con la stampa dopo la cessione del cestista sudanese naturalizzato inglese. Per lui ha fatto parlare il campo prima e la sua lingua lunga dopo: “Nessun tifoso si può considerare tale se ci chiede di perdere”. I Bulls non hanno perso, e grazie alla sua leadership in difesa e alla sua energia in ogni angolo del campo, il vantaggio del fattore campo ai playoffs non è affatto un miraggio, ma una concreta possibilità (11-5 è il record da New Orleans in poi, con vittorie prestigiose come quella contro i Miami Heat all’overtime).

Kevin McHale, che di centri e lunghi ne capisce e allena probabilmente il miglior centro e più volte miglior difensore della lega, Dwight Howard, ci ha fatto capire con le sue parole come Joakim Noah ha fatto breccia (per alcuni versi e per alcuni addetti ai lavoro in maniera sorprendente) nell’olimpo NBA: “Sta giocando alla grande, dovrebbe essere eletto lui miglior difensore della stagione. Grazie alla sua determinazione, energia, impegno e durezza fisica e mentale Chicago sta facendo meglio del previsto. Queste sono qualità che tutti apprezzano”.

Non sappiamo se riceverà qualche premio a fine stagione, di certo siamo sicuri che a lui non importerà nulla. Joakim Noah continuerà a “rompere le scatole” a compagni e avversari finché anche la sirena finale di questa stagione, la sua settima in NBA, suonerà, in attesa che la buona sorte bussi anche a casa Chicago Bulls.