‘A tu per tu’ di Dailybasket con l’allenatore della Nazionale Greca e dell’Unics Kazan. Per parlare di passato, presente e futuro. Fra gioie, dolori, rimpianti ed una promessa. ‘Un giorno le nostre strade, quella mia e quella di Cantù, si incontreranno nuovamente. Perché è stato amore. Amore vero…’

Di Fabrizio B. Provera

Oltre, coach.. Oltre.. (2013 Foto Alessio Brandolini)

Oltre, coach.. Oltre.. (2013 Foto Alessio Brandolini)

CANTÙ (Como) – Jean Michel Basquiat, il geniale writer newyorchese membro non organico della Factory di Andy Warhol, bruciò la sua vita di genio ed eccessi  morendo a 28 anni. Trasferiva il suo bruciante desiderio di vita sulla tela, e non solo. Curioso  ma non troppo, alla luce di quanto appena detto, che l’incontro tra Dailybasket, il cronista più oltranzista tra tutti i trinchieriani devoti ed Andrea Trinchieri, neo allenatore della Nazionale Greca e dell’Unics Kazan, reduce da 4 intensi e appassionanti anni sulla panchina di Cantù, si svolga in una birreria della periferia canturina, intitolata proprio a Basquiat.

Perché di artistico e di geniale, nel senso cestistico ma soprattutto nel Trinchieri fuori dal perimetro di gioco, c’è parecchio. Per fortuna non c’è il desiderio di (auto)distruzione che stroncò la vita di Basquiat: Andrea Trinchieri è arrivato all’affermazione professionale e sportiva battendo- una per una- le strade secondarie dell’inferno cestistico. Ossia giovanili, panchine di provincia, confini estremi dell’Impero della palla a spicchi, presidenti sensibili e vulcanici, tifoserie in visibilio ma anche capaci di ferire (e parecchio) con le parole, il rapporto speciale con alcuni giocatori. Andrea Trinchieri, abbronzato, disteso, camicia fuori dai pantaloni e infradito, racconta se stesso (e anche qualcosa di più) al cronista che l’ha trasformato, crediamo con una mossa dialettica azzeccata, nel Poeta Guerriero. Perché nel gioco di Trinchieri c’è poesia. E nella sua vita ci sono sempre stati sia il conflitto che la sfida. E un sogno da nutrire, ogni giorno. Perché se ogni giorno della tua vita non lo nutri con un sogno, sei poca cosa. Come allenatore di basket, ma soprattutto come uomo. E invece Trinchieri è di quelli che sognano. Naturalmente, ad occhi aperti. Perché sarebbe troppo facile farlo ad occhi chiusi.. Due birre Ichnusa ad accompagnare le nostre chiacchiere. Il luppolo come stimolante per i ricordi, le emozioni e le sofferenze.

Grazie coach, benvenuto. Cominciamo dalla fine. ‘E’ stato meglio esserci lasciati che non esserci mai incontrati’, come scrisse De Andrè 40 anni fa. Si può dire lo stesso, del rapporto tra te e Cantù?
Mi ci ritrovo totalmente, perché è molto comodo usare le iperboli nelle dichiarazioni  e nelle lettere, poi però le cose succedono. Sono stato un uomo fortunato ad incontrare Cantù: è stata una corsa in verticale, dal primo all’ultimo giorno. Se non avessi incontrato Cantù sarei un uomo diverso e non  migliore. Senza Cantù sarei un allenatore diverso, e sicuramente non migliore.

L’uomo e l’allenatore. Vanno sempre in parallelo..
Credo, con un po’ di presunzione, che anche Cantù sia stata fortunata ad incontrare una persona come me. Del resto, come mi disse Boscia Tanjevic molti anni fa, c’è un detto montenegrino secondo cui è ‘meglio essere presuntuosi che impotenti’.

Cos’hai pensato immediatamente dopo la sirena di gara 7 a Roma?
È stato un mix di emozioni, veramente incredibile. Due estremi, mi verrebbe da dire un ossimoro: ghiaccio bollente. Da un lato una tristezza acutissima e vera, molto intensa. Sapevo che poteva essere la mia ultima partita a Cantù, per adesso. Sapevo che qualche giocatore non l’avrei più allenato. Era una situazione difficilmente gestibile, infatti non l’ho gestita. C’era però anche un sollievo, forse minimo ma presente, per essere riuscito a condurre la barca in un porto, che speravamo più bello, ma a un certo punto della stagione eravamo in mezzo al mare senza speranza di salvezza. E allora, anche se non si trattava di Montecarlo  o Saint Tropez, era un porto sicuro. Era terra.

Risentendo l’audio originale della tua ultima conferenza stampa, sempre dopo gara 7, sembravi serenamente lucido e convinto che ormai non ci sarebbe stato un domani, sulla panchina del Pianella. E’ così?
Ero, come dicono gli americani, ‘in the zone’. Sono stato investito da una lucidità che in quel momento era irreale. Ho fatto pausa e cercato di mettere in  ordine i miei pensieri, perché si trattava di un momento molto importante. Non ero certo di andarmene, ma si trattava di una possibilità altamente probabile.

Perché e quando sono finite le consuete e scaramantiche chiacchierate con Anna Cremascoli, in panchina e nei pre partita?Non si può dire, ma il motivo era molto propositivo e positivo. Era solo cambiata la location, non più la panchina ma un altro luogo.

I caratteri, tuo e di Anna Cremascoli, presentano molti punti di divergenza ma anche molti punti di contatto, almeno crediamo di poter dire. È corretto?
È corretto, con anche delle zone di grandissima compatibilità, il che ci ha consentito di fare questi 4 anni di corsa verticale. Ad Anna riconosco una lucidità e una capacità di analizzare la situazione –mischiata alla passione- incredibili. In queste settimane si sono dette e scritte tante cose, ed io rabbrividisco al pensiero che in Italia vige la regola che chi parla per primo ed urla più forte ha ragione. Come dicono da queste parti, ‘chi vusa pussè la vaca l’è sua’: non è montenegrino ma l’ho imparato lo stesso. E’ una cosa che mi dà fastidio fisico,  non mi appartiene culturalmente, mi fa venire l’eritema. Parliamo di una persona, Anna Cremascoli, partita  da un  punto A  ed arrivata un punto B, dieci volte superiore a quello di partenza; una donna che ha investito tempo, denaro e risorse. Ha avuto un  riconoscimento molto più ampio all’estero che in  Italia: il nostro popolo è un po’ così. Quindi due caratteri diversi, perché altrimenti non avremmo fatto nulla.  Ma complementari

Anna Cremascoli e coach Trinchieri (foto S. Paolella 2012)

Anna Cremascoli e coach Trinchieri (foto S. Paolella 2012)

Qual è il tuo primissimo flashback di quando arrivasti a Cantù, nel 2008?
La conferenza stampa di presentazione: Bruno Arrigoni, con saggezza arrigoniana, mi ha letteralmente nascosto. Dopo la conferenza mi fermai a parlare con Anna, chiedendole ‘Presidente, ma lei cosa vuole dalla sua squadra?’. Lei disse ‘che si esca dal campo sempre a testa alta, onorando la maglia e i nostri colori’. Da lì, sono stati 4 anni di gloria e di passione.

Il tuo ricordo più bello di questi 4 anni a  Cantù?
Sai che c’ho pensato tante volte, ma ogni volta mi do una risposta diversa.. So che per molte persone la Supercoppa è stato un apice: io purtroppo ho un difetto terribile e non mi godo nulla, e quella sera pensavo alle qualificazioni di Eurolega… Forse il periodo più bello fu la cavalcata verso la finale playoff del 2011, quando raggiungemmo il massimo della forza mentale che un gruppo di persone può raggiungere, andando al di là del proprio talento e dei propri limiti.

 Il tuo ricordo più brutto?
La partita di Biella, aprile 2013. In quel periodo non avremmo vinto contro nessuno. E il post Caserta di Pasquetta, quando i tifosi erano piuttosto incazzati e volevano parlare con i giocatori e con Pietro (Aradori). Allora andai a parlare io, e qualche cosa che mi è stata detta mi ha aperto gli occhi e mi ha colpito ed affondato. Non pensavo si potessero pensare di me certe cose. Io so di aver fatto montagne di errori, ma so che ho dedicato tutto me stesso- ogni giorno- per fare il meglio che potessi per Cantù. Quindi anche per loro. A volte ho dovuto fare uno sforzo sovrumano per andare oltre la depressione e la delusione: alla fine quello che ci è successo poteva succedere. Io so di non poter piacere a tutti, ed onestamente ho il difetto di non provarci neppure. Ho una costruzione mentale che mi porta a riflettere su un’idea semplice: se dai tutto cosa possono chiederti ancora, il sangue? Mi sono chiesto se fossi o meno in grado di fare ancora questo lavoro, e la risposta non era così chiara o univoca. Questa cosa mi ha profondamente segnato, rendendomi prima peggiore e poi migliore. Ho imparato tantissimo.

Una cosa che mi ha sempre incuriosito molto: sei figlio di un laureato ad Harvard, quindi avresti potuto essere uno studente di Harvard. Invece sei finito a cucinare salamelle in bermuda, alla festa degli Eagles… tra i figli della classe operaia e della piccola borghesia della provincia comasca. Che salto… Come l’hai vissuto, questo cortocircuito umano ed esistenziale?
È vero: avrei potuto andare ad Harvard. Più che avrei potuto, avrei dovuto andarci. Detto questo, ho  vissuto questo ‘passaggio’ veramente da Dio. Del resto puoi imparare da chiunque, inoltre ho la caratteristica di essere molto ‘trasversale’. Mi è molto chiaro il fatto che vengo da una buona famiglia, che aveva delle possibilità. Però aggiungo che l’unica cosa a cui non ho mai trovato un surrogato sono le relazioni umane. Alla fine tutto gira intorno a questo, almeno per me. Allenare una squadra è avere una serie di relazioni umane, che sono regolate e costruite attorno al lavoro, ma che ti dà tantissimo. Quindi cucinare le salamelle è stato appagante: del resto, una cosa che riconoscerò sempre ai tifosi di Cantù è quella di avere unità d’intenti, cosa che ho cercato di rubare. Se hai unità d’intenti, riesci sempre ad andare oltre i tuoi limiti. Il segreto è quello. I tifosi di Cantù non sono mai d’accordo su tutto, ma quando hai unità d’intenti raggiungi gli obiettivi.

Esultanza degli Eagles (foto R. Caruso)

Esultanza degli Eagles (foto R. Caruso)

Concludiamo con Cantù parlando, come hai accennato, al  tuo rapporto non sempre facile con la tifoseria. Trinchieri non è facile da capire, almeno non per tutti. Eppure, l’addio al Pianella di un  mese fa e altre cose mi fanno pensare alla bellissima frase di Joey Fagan in The Commitments; ‘Il successo del gruppo  non era importante. L’importante era elevare il livello delle loro aspettative, allargare gli orizzonti. Così è poesia’. E’ avvenuto lo stesso, tra te e i tifosi canturini?
Non lo so.. Guarda, mi piace tantissimo la parola che usano i grandi uomini di sport americani: ‘legacy’, ossia eredità. A me piacerebbe lasciare qualcosa a questa società, che ho vissuto come un mio organo vivente. Vorrei che di Andrea Trinchieri rimanesse qualcosa. Guarda, la storia della coppa dei Campioni come portapenne è vera. Quando giro per il mondo dico con orgoglio ‘guardate, io ho allenato a Cantù, non a Roncobilaccio, con tutto il rispetto per Roncobilaccio, dove ci sono ottime trattorie. Questa cosa mi ha riempito di sogni, quindi lasciare un segno è per me determinante. Se non lasci un segno dove sei passato, allora perché vivere?

Sulla  Gazzetta dello Sport, di recente, Dan Peterson ha citato il tuo commento sul basket italiano  (privo di soldi e sogni), invitando a ‘think outside the box’, pensare fuori dagli schemi.
L’Italia è un paese speciale, con modi speciali, idee speciali. La prima cosa che bisognerebbe fare, a mio avviso, è mettersi d’accordo sulla realtà. Se dagli anni Settanta non costruiamo un palazzetto, se viviamo solo di mecenatismo e passione, se produciamo solo emozioni (che è stupendo, sia chiaro), con grandi sacrifici mentali.. Se non troviamo il sistema per riportare e restituire qualcosa alle società, saremo sempre un vuoto a perdere. Rendiamoci conto di quali sono le cifre: negli ultimi 10 mesi il valore di giocatori ed allenatori si è dimezzato, si è ridotto del 50%..Perché? Perché il prezzo lo fa la domanda, non l’offerta. Mi sembra una spirale verso il basso velocissima. Se devo guardare ai saggi di economia  politica, dico che quando sei al fondo ogni cosa ti sembra positiva. Il rischio qual è? Arrivare alla fine ma conservare le fondamenta. Oggi siamo come dei cannibali, che mangiano tutto. Dobbiamo essere creativi, unirci, renderci conto del presente ed avere idee e progetti rivoluzionari. Così, è molto chiaro, si va verso una finale scudetto giocata a villar Perosa tra Juve A e Juve B, che sarebbe l’Olimpia Milano. Credo sia una cosa che non interessa a nessuno, neppure all’Olimpia. Oddio, forse per vincere sarebbero anche disposti a farlo, per carità, ma credo di aver reso l’idea.

Scaviamo nel passato: se quando allenavi le juniores del San Pio X o del Tony Magenta, che è come dire il Gesù Buon Pastore, t’avessero detto che giorno avresti sfidato Navarro e Diamantidis in Eurolega, o che avresti allenato la Nazionale di Spanoulis, cosa avresti risposto?
In milanese avrei risposto  ‘uè pirla, ta se drè schersa??’. Poi sarei tornato a casa, pensando che quello era il mio sogno. Sarebbe stato troppo presuntuoso averlo come obiettivo, ma l’ambizione quella sì, e fa tutta la differenza del mondo. Tu non puoi presumere che qualcosa succederà, però puoi ambire a raggiungere quell’obiettivo.

In rete corre una leggenda: che ai tuoi tempi ‘cremonesi’, durante una partita in cui il vulcanico Secondo Triboldi ti chiedeva a gran voce di far entrare un certo Perego, tu rimanesti impassibile e non cambiasti nessuno sino a fine partita. Allora Triboldi si avvicinò alla panchina e cercò di colpirti con un cestino. Il giorno dopo, tu andasti da lui con le dimissioni dicendo ‘se lei vuole che rimanga, non  dovrà più scassarmi le palle’. È un’invenzione o è tutto vero?
Abbastanza vero, forse un po’ romanzato… È vero che si avvicinò, è vero che mi chiese il cambio, non è vero che mi gettò il cestino (però lo gettò da un’altra parte..), poi non mi sono mai permesso di dirgli ‘non mi scassi più i coglioni’. Dissi ‘io sono fatto a un certo modo’, durante la partita sono il capo allenatore e ho il diritto dovere di assumermi delle responsabilità. Detto questo, davanti a una persona dall’intelligenza e dalla sensibilità assoluta come Secondo Triboldi, il chiarimento fu immediato.

Da Triboldi all’Unics Kazan: tempo fa, davanti ad alcune persone, elogi le doti umane di Nicos Zisis. Poi un sito parla di offerte dell’Unics a Bobby Brown, però tu sembri non gradire. E intanto oggi Zisis è un tuo giocatore..
Sì, per fortuna Zisis è con noi. Bobby Brown è un giocatore straordinario, fa canestro contro chiunque, ma io devo fare della chimica di squadra una ragione di vita, ed avendo già in squadra un giocatore come Eidson, cui bisognerà dare la palla spesso, penso che con Brown potremmo abusare del palleggio. Cosa che a me non piace molto. La valutazione era ed è prettamente di chimica.

E quella volta che ingaggiasti per poche settimane John Ebeling, all’epoca 40enne? E Rudy Valenti, non fine dicitore ma uomo da far innamorare il palazzetto?
Mi ricordo molto bene di quel frangente.. Poi gli esplose il ginocchio e si ritirò. L’idea tecnica era geniale, l’idea di prendere un giocatore di 40 anni nel basket di oggi molto difficile… Rudy era uno che spaccava i ferri, e la gente ama anche quello.

La Nazionale Greca. Sappiamo molto, ma non tutto su questa scelta. Qual è stata la persona che ti ha voluto, più di altre?
Non se n’è parlato molto e posso anche capire il perché. La Nazionale italiana vive un momento di grande attenzione mediatica, perché va agli Europei con delle ambizioni consistenti e legittime dopo un po’ di anni.Capisco che in questo momento non sono la notizia principale. Sicuramente è stata una cosa avvenuta molto sottotraccia, durata poco nella fase di trattativa. E’ stata una scelta del presidente della federazione greca, Giorgios Vassilakopoulos, una persona di oltre 70 anni, già presidente della Fiba. Un uomo di grande prestigio e grandissimo carisma. E’ stata una scelta non facile: sono per loro un allenatore straniero, fuori da certi circuiti, non sono né Obradovic, né Messina, né Ivkovic, e neppure Scariolo. Scelta che comporta dei rischi, però il fatto che una persona come lui abbia detto ‘io voglio te’, puntandomi il dito, mi riempie di voglia di ripagarlo. Ma anche di grande fiducia.

Pare una scelta analoga a quelle che fecero Secondo Triboldi ed Anna Cremascoli..
Assolutamente sì. Penso che sia sempre stato così, che tutto sia sempre avvenuto nel sommerso.

Alleni la Grecia nel  momento più difficile della sua storia  moderna, con gli ospedali che cessano di dare farmaci chemioterapici ai malati di cancro e con le idee di un idiota del Fmi che ha suggerito di privatizzare il sacrario delle Termopili per farci un centro commerciale, ricavare 1 milione di euro  per costruire una mosche ad Atene. Con che sentimento ci vai, dato che non sei persona estranea a quel che ti accade intorno?
Ho sempre detestato la falsa demagogia. La vita è un susseguirsi di problemi per tutti, ma mi son reso conto che in Grecia è più difficile che da altre parti, in questo momento. La situazione è molto seria. C’è il rischio che la gente perda la speranza, e se perdi la speranza c’è ben poco da fare. Però io faccio l’allenatore di pallacanestro, non salvo vite umane. Cerchiamo di mettere le cose a posto. Non andrò dai miei giocatori a dire ‘giochiamo per regalare un sorriso al popolo greco’, perché poi il sorriso finisce e la crisi rimane. Quindi, non prendiamo per il culo le persone. Punterò tutto sul piacere di giocare nella Nazionale, e sul fatto che in Grecia il basket è seguito tanto quanto il calcio. Ma non andrò oltre.

Dicono che berrai un caffè con Dimitris Diamantidis. E’ vero? Che cosa gli dirai?
Berrò un caffè con Diamantidis, facendomi serenamente consigliare. Ascoltare un giocatore che sul campo ha letture visionarie, che nessun altro ha, sarà di  grande aiuto alla causa della Nazionale ellenica.

Diamantidis et Trinchieri. Genius loci..

Diamantidis et Trinchieri. Genius loci..

Spanoulis resta all’Olympiakos e rinuncia a Barcellona o Cska. C’entra l’ingaggio, l’orgoglio o qualcos’altro?
C’è  un bellissimo detto greco che significa, tradotto,  ‘nei miei coglioni’. Questa è la tipica scelta di una persona che mette se stessa, il suo orgoglio  smisurato e la sua forza mentale prima di qualsiasi altra cosa. Razionale e  non razionale. Non dimentichiamoci che Spanoulis, in 4 anni, ha vinto tre volte l’Eurolega, tre volte da Mvp. Ci sono giocatori che in 15 anni non ne vincono una.. Personalmente, quando gli ho chiesto ‘sei felice di questa scelta?’, lui mi ha risposto ‘sì, molto’. A me questo basta. E’ una scelta di vita, prima che tecnica o agonistica. Mai trovato un giocatore con una tale forza mentale.. Lui è il giocatore capo.

Qual è il tuo obiettivo per gli Europei? A leggere le sempre più numerose defezioni, scorrendo certi roster tremano comunque i polsi, penso alla Spagna ma non solo. Pensi sarà un campionato equilibrato?
Prima di tutto bisogna ricordare, a memoria, che nessuno ha mai vinto un Europeo senza perdere almeno una partita. Non c’è il Dream Team, quindi dico che vincerà chi sarà in grado di ammortizzare le delusioni. Si gioca quasi ogni giorno, e non è umanamente pensabile produrre grande pallacanestro ogni giorno.  Sulla carta mi vengono i brividi a pensare a Turchia, Francia, Italia, Montenegro e il suo parco lunghi.. Però, alla fine, non c’è una potenziale dominatrice. La squadra più squadra, che avrà i ruoli più chiari e metterà il risultato collettivo davanti all’affermazione individuale, vincerà.

Come vedi la Nazionale Italiana?
Squadra dalla trazione anteriore fortissima. L’innesto di Bargnani dà agli azzurri un protagonista anche nel reparto dei lunghi: mi sembra nettamente la migliore Italia di questi ultimi anni. C’è il dispiacere, umano prima che tecnico, per Danilo: lui rappresenta secondo me l’esempio più positivo del movimento cestistico italiano. E’ il giocatore capace di andare oltre i propri limiti. Parlando con molti dei suoi compagni, so quanto gli vogliano bene. Non è affatto una cosa scontata.

Andrea Trinchieri e l’Olimpia Milano. Un rapporto sintetizzabile da una magistrale massima di Cesare Cadeo, ‘non puoi mai chiedere a una donna perché non ti ama?’
La frase di Cadeo è verissima.. Si tratta di un rapporto concluso dieci anni fa, con una società che non c’entra nulla con quella di oggi. Non c’è alcun rancore. Penso che una buona  birra potrebbe chiarire tutto.. (come quella che Proli consumò con Luca Banchi, sotto gli occhi del nostro Carlo Perotti, n.d.r)

Andrea Trinchieri e Sasha Danilovic. Uomini che combattevano col cuore, che hanno famiglia, che fanno figli che sono pieni d’amore, ma che avevano la forza, la forza di far questo. Se io avessi dieci divisioni di questi uomini, i nostri problemi qui si risolverebbero molto rapidamente. Bisogna avere uomini con un senso morale e che, allo stesso tempo, siano capaci di utilizzare i loro primordiali istinti di uccidere senza emozioni, senza passione, senza discernimento. Perché è il voler giudicare che ci sconfigge”. E’ una frase del Marlon Brando di Apocalypse Now. Frase che probabilmente si adatta a una leggenda che mesi fa ha rischiato di  morire a Belgrado, perché un suo amico lo ha accoltellato..
Gli eroi sono due metri sotto terra, quindi per grande fortuna Sasha  non è un eroe. Detto questo io adoro i giocatori mentalmente duri, e se ce n’è uno più duro di tutti quello è stato Sasha Danilovic.

'Amo solo ciò che difendo'. Sasha Danilovic

‘Amo solo ciò che difendo’. Sasha Danilovic

C’è  un giocatore come Sasha, oggi? Manu Markoishvili: può crescere ancora?
Il giocatore che si avvicina di più a lui, lo dico con pochissima obiettività e grande trasporto umano, è sicuramente Manu. Un giocatore che può crescere ancora tantissimo, specie se la salute lo assisterà.

Vlado Micov, il giocatore che non suda e che gioca seduto su un divano, arrivando sempre prima degli altri. E’ arrivato al suo acme?
Può crescere perché ha un grandissimo allenatore. Ti racconto un bellissimo aneddoto su Vlado: tutta la famiglia Trinchieri è schierata, con pargoli annessi, a vedere Zalgiris-Cska di Eurolega. Partita stupenda, allenata da Ettore in modo sublime. Comincia la partita e mia moglie, con grande nonchalance e rischiando la vita, dice ‘guarda, quest’anno Vlado corre…’. Si è rischiata un’istanza di divorzio per direttissima, col Tribunale di Cantù che ha appositamente aperto a mezzanotte. Racconto questa cosa per dire che ogni giocatore deve crescere: Vlado è cresciuto molto a livello mentale, ora può farlo anche a livello tecnico. Prima era un giocatore che non si sporcava molto l’abito, diciamo che a fine partita era intonso, come reduce da un matrimonio. Però a Cantù ci bastava. Ora, al Cska, deve poter andare oltre…

Parliamo appunto del rapporto tra te ed Ettore Messina, così diversi eppure forse non così dissimili. Messina, nel suo ultimo libro, scrive: ‘Un allenatore esigente che vince è uno che lavora tanto e pretende in proporzione, venendone ripagato dai giocatori con impegno  e dedizione. Un allenatore esigente che perde è uno che esagera coi carichi di lavoro e pretende troppo, finendo per essere lasciato a piedi dai giocatori’. Sei d’accordo?
Ettore, l’ho sempre dichiarato, potrebbe fare il Primo Ministro in Italia. E le cose andrebbero benissimo. Qualsiasi cosa dica, la dice bene. Quindi anche questa frase è sacrosanta.

Sempre Messina, in versione dialettica Trinchieri: ‘Se guidano il pullman giocatori come Ginobili, Smodis, Papaloukas, Nesterovic o Nicola, quelli seduti dietro non sbagliano mai strada’. Concordi?
È assolutamente vero. Noi avevamo Micov, Markoishvili, Mazzarino, Marconato…

Ettore Messina (foto G. de la Vallina - Jotdown.es)

Ettore Messina (foto G. de la Vallina – Jotdown.es)

Fulvio Pierangelini, un grande chef,  dice che il piatto perfetto non gli interessa, perché ha perso intensità e dinamismo, non può più crescere. Vale anche per una squadra di basket?
La perfezione non mi interessa perché è stabile, mentre il basket è un organismo in movimento. La perfezione che ti fa vincere oggi non potrà farti vincere domani. Nessun allenatore è più forte dei risultati, neanche il più bravo. Forse s’avvicina alla perfezione la squadra che supera i propri talenti, altrimenti sarebbe solo una questione di budget, ma fortunatamente non succede quasi mai. La squadra perfetta è quella che sa modificarsi, adeguarsi, che sa cambiare.

Il tuo discorso pre partita ideale: come il colonnello Kurtz o come Bobby Herbs in The Miracle?
Dipende dalla partita, dal momento e da chi hai di fronte. I giocatori non li puoi imbrogliare: puoi dire una volta, una volta sola, ‘siamo il bambino palestinese col sasso contro il carro armato’, poi però in campo devi dar loro gli strumenti per fare la guerra.

Maarty Leunen (foto R. Caruso 2012)

Maarty Leunen (foto R. Caruso 2012)

Marty Leunen, quest’anno, sembrava un po’ la tua ‘prosecuzione fisica’ in campo..
Maarty è un giocatore feticcio. Per me, un grande giocatore. Sicuramente.

Che libri  stai leggendo?
Quando parto, solitamente, scelgo tre libri ogni volta. I saggi vanno ‘piluccati’, vanno tenuti lì. Scrittori preferiti ne ho tantissimi, uno che ha scritto cose pazzesche è Sandor Marai (autore Adelphi, nda). Le Braci, secondo me, è un libro straordinario.

I tuoi ristoranti preferiti?
Sono una specie di ‘gastronauta’, quindi molto attirato da tantissimi locali, però  il posto dove tutto ebbe inizio- perché cominciò la mia carriera di allenatore professionista- è una trattoria lungo la Cremona-Mantova che si chiama La Resca. Da lì tutto ebbe inizio… Poi ci sono posti molto carini anche a Cantù..

E a Kazan come si vivrà, come vivrai?
So perfettamente di andare incontro a uno shock di vita. Non sono incosciente, ma so che sarà una situazione difficile. Fatta di cambiamenti epocali.

Stiamo per finire. Qui attorno, a Cantù, più di 100 persone in pochi giorni hanno formato su Internet il primo Unics Kazan Club. Ci sono   molte persone che t’hanno capito solo adesso, solo alla fine. A costoro puoi dire che un giorno, forse, di ritorno da una delle tante battaglie che avrai condotto in terre lontane, tornerai da questo popolo? Tanto la strada non cambierà molto, è realistico pensare che il Pianella resterà in piedi ancora per molti anni…
Sì, avverrà esattamente così. Più che un’ambizione in questo momento è un desiderio. Non diamo una temporalità, perché sarebbe poco rispettoso ed elegante verso altre persone, e a me non piace esserlo. Però ci sarà. Le nostre strade, un giorno, torneranno a combaciare.

A buon rivederci, Andrea (foto R.Caruso)

A buon rivederci, Andrea (foto R.Caruso)

L’intervista è finita. Un gruppo di ragazzini, che ha atteso pazientemente un’ora prima di disturbarlo, chiede al coach di scattare una foto. C’avviciniamo alla cassa, prima di uscire.

‘Fanno 8 euro, coach’

‘No, fanno almeno 15 euro. Il tuo lavoro va ripagato nel giusto modo. Ciao e grazie’

‘Grazie a te, coach. Ma prima, scusa, una foto…’

Il Poeta Guerriero sorride. Perché, mentre sul campo parevano addensarsi nubi cupe, mentre sembrava che a terra ci fossero soltanto cadaveri e carcasse fumanti, il popolo canturino ha colto sino in fondo- bastava un pizzico di onestà intellettuale- la dimensione straordinaria dell’allenatore. E dell’uomo. E adesso, con la compassata discrezione della gente di queste parti, trasmette le proprie emozioni al suo condottiero. Cosa tutt’altro che facile, per un popolo educato a trattenere. Gli impeti e le emozioni.

Il Poeta Guerriero esce dalla birreria Basquiat di Cantù e saluta sorridente. Lo accompagnano, come nei canti di battaglia del popolo indiano, le parole che un tempo significarono guerra e rancore. Ma che in questo momento significano passione e comunità ideale: white man, you’ll never walk alone. Non camminerai mai solo. E un giorno, quando i luoghi e i volti si saranno dissolti per fare posto a luoghi e volti nuovi, rinnovandosi trasfigurati in un’altra trama, i destini della Pallacanestro Cantù e di Andrea Trinchieri si incroceranno nuovamente. Perché è stato amore. Amore vero. E adesso Cantù può dirselo e chiederlo. Come a una donna che ti ama ancora.