Oh! Capitano, mio Capitano, il tremendo viaggio è compiuto,
La nostra nave ha resistito ogni tempesta: abbiamo conseguito il premio desiderato…

…Dal tremendo viaggio la nave vincitrice arriva col compito esaurito,
Esultino le sponde e suonino le campane!
Ma io con passo dolorante
Passeggio sul ponte, ove giace il mio Capitano caduto freddo e morto

Gli immortali versi di Walt Whitman, scritti nel 1865 per la morte di Lincon, aleggiano come sottofondo nella sala conferenze di Villa Ponti a Varese. Non solo perché il Workshop  che raduna tanti addetti ai lavori in un normale pomeriggio di questo piovoso gennaio fa espressamente riferimento al titolo della poesia; e nemmeno perché arrivano come scontati i riferimenti visivi e non al film che questi versi ha celebrato, quell’Attimo Fuggente in cui un Robin Williams maestro di vita insegnava ai suoi alunni a succhiare ogni istante della propria esistenza, andando al di là di ogni apparenza. E’ che sentir parlare persone che, nell’ambito sportivo e non, hanno fatto dell’assunzione di responsabilità, dell’essere guida di ciurme, della leadership un lavoro ed un modo di vivere, non può che far risaltare la potenza di quelle parole vere e senza tempo. Non è un momento felice, cestisticamente parlando, ai piedi del Sacro Monte e la crisi di risultati è il make up dei volti un po’ giù di corda dei presenti, si sente ma non si vede, è nello sguardo cupo di coach Frates, è nello smarrimento iniziale di Ere. Ma abbandonarsi ai ricordi, ascoltare parole che non abbiano stretta attinenza con la realtà attuale, è piacere ed insieme un po’ terapia, soprattutto se pronunciate da personaggi che con la canotta biancorossa hanno fatto la storia e vissuto momenti indimenticabili, così lontani dal grigiore del qui ed ora. Ognuno dei presenti era chiamato a dare una definizione di cosa volesse dire essere un “capitano”, di cosa significasse essere alla guida di un gruppo. Ne sono venuti fuori ritratti e sfumature diversi, influenzati dalle esperienze vissute e dalle inclinazioni personali. Tutti, però, hanno contribuito a dare un identikit a quello che prima di essere un ruolo deve diventare una condizione dell’anima per essere efficace. Prende la parola per primo Daniele Riva, capitano dell’Handicap Sport Varese, i rappresentanti cittadini del basket in carrozzina. Tra gli speakers è probabilmente il meno noto per la platea, ma il suo intervento è pregno di interesse, anche perché di pertinenza di un ambito in cui essere guida va al di là dello sport. Per lui capitano è “colui che non si accontenta mai, che punta a 200 per ottenere almeno 150…”. “Un capitano è il primo a rispettare le regole, non può che essere così se vuole che i compagni lo seguano …” E’ poi il turno di Toto Bulgheroni,

Ebi Ere (foto S. Paolella 2012)

Ebi Ere (foto S. Paolella 2012)

indimenticato proprietario della Varese stellata, anno di grazia 1999, industriale e manager di lungo corso. La sua disquisizione tocca il mondo delle aziende, non solo quello sportivo, ed è la testimonianza di un uomo chiamato spesso a scegliere a chi affidare le proprie “creature”. Se essere capitani nel mondo delle imprese vuol dire “saper lavorare di equipe, non imporre un’autorità ma cercare di arrivare ad un risultato comune attraverso il dialogo e l’apporto di tutti”, poco scontata e veritiera è la sua visione del capitano di una squadra “il leader naturale: non occorre sceglierlo, lo si vede da sé, lo vedono tutti”. Bulgheroni ricorda Meo Sacchetti (“cuore e fisico lasciati sul campo per la causa”), ma, pochi posti lontano da lui, c’è un esempio in carne d’ossa che non abbisogna di essere evocato: Andrea Meneghin. Il “Menego” è, come da programma, solare ed esilarante, soprattutto quando rimembra le sue strigliate all’indirizzo di Pozzecco, genio e sregolatezza di quell’armata (apparentemente) brancaleone che si scoprì bellissima e vincente: “un capitano è sguardo e parole, poi ognuno lo è a modo suo. A Cecco Vescovi bastava (e basta ancora) uno sguardo a redarguire un compagno indolente, io ci mettevo la mia capacità di sdrammatizzare ma sapevo arrabbiarmi quando qualcuno non ci metteva l’anima …” Quando a prendere il microfono è Aldo Ossola si sale sulla Delorean grigia e si fa improvvisamente un tuffo in un passato più remoto ma ancora più vincente. Il Von Karajan dell’epopea targata Ignis non era ufficialmente capitano di quelle squadre, ma leader riconosciuto di uno spogliatoio ricco di personalità immanenti, da Meneghin (Dino) ad Ottorino Flaborea: “capitano è umiltà, esempio e credibilità”. Tutte doti che senza dubbio appartengono a Ebi Ere. Ed a questo punto non più è necessario affidarsi ai ricordi o ai racconti, la sua figura di leader appartiene a giorni vicini, felici e non. Scelto come guida da Frank Vitucci lo scorso anno, è stato confermato come tale da Frates ed è il primo capitano di colore della Pallacanestro Varese. Sembra sincero e fa un po’ commuovere quando dice che “ogni giorno di allenamento al palazzetto guardo quegli stendardi appesi al soffitto e Dio solo sa quanto vorrei aggiungerne un altro con la mia firma”, soprattutto pensando a quanto ci è andato vicino lo scorso anno. Per Ebi “capitano è colui che non dice, fa! Non sono un motivatore a parole, cerco solo di esserlo con i gesti in campo”. L’onore gli viene dal suo coach, che è anche l’ultimo a parlare: “Ere ha capito cosa vuol dire cambiare per il bene di un gruppo. Con compagni che guardano al segnare canestri come all’unico motivo di realizzazione personale in campo, lui (che bomber nasce) ha capito che deve evolversi in difensore ed uomo squadra”. E’ piacevole ascoltare i concetti e gli aneddoti di una persona che ha sempre vissuto di palla a spicchi come l’Architetto, come quando ricorda il suo capitano a Reggio Emilia, Terrel Mcintyre (“lo chiamavamo il “muto”: avrà detto sì e no tre parole in tutta la stagione, ma era il capo naturale di quella squadra”) oppure la parabola di Pace Mannion, esempio di leadership nella sua Cantù vincente in Korac, ma rivelatosi inadeguato a guidare la Benetton qualche anno più tardi.

Una domanda sola rimane sospesa nell’aria: capitani si nasce o si diventa? Forse, fra dieci anni, lo chiederemo ai bimbi che aspettano Andrea Meneghin (ora allenatore) per la consueta seduta pomeridiana. Andrea corre via e saluta tutti sorridendo: sinceramente, è un sorriso che ci voleva.


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