beltramaAgosto 2012. In una torrida giornata – ha mai fatto freddo ad agosto? – arriva una stringata email di Guido Guida, caporedattore al basket per gazzetta.it:  “Se ti va, potresti seguire Belinelli in tutte le partite interne dei Bulls”. La nostra risposta positiva arrivò all’istante. Senza tuffi carpiati, intendiamoci. Al massimo, con la sobria dose di entusiasmo  di chi da tempo ha già scelto – più per contrarietà che per altro – che scrivere di pallacanestro deve restare unicamente un passatempo. Anche solo per rispetto verso chi lo fa davvero,  per lavoro. Le uniche persone che possono davvero essere chiamate giornalisti.

Belinelli e i Bulls, dicevamo. Da vecchi nostalgici degli Utah Jazz di Stockton e Malone, dunque non esattamente accecato dal tifo nella NBA contemporanea, l’aspetto più intrigante della faccenda era la novità di un compito del genere. Sistematico, strutturato, settoriale. Tutt’altra roba rispetto al dispersivo approccio “andiamo a vederne una al mese, appendiamo il pass al muro e atteggiamoci da insider” tenuto fino a quel momento. Del resto, 50 partite da seguire dal vivo, tra playoff, regular season e preseason, sono un’occasione clamorosa per vivere, più o meno dal dentro, una stagione NBA nella sua complessità. A gratis, oltretutto. Qualcosa che in pochi, anche tra i tifosi più accesi, hanno la possibilità di fare, viste la mostruosa lunghezza del calendario e i prezzi impossibili degli abbonamenti.  Quando sarebbe mai capitata un’occasione del genere?

A sette mesi di distanza, si può dire che ne sia valsa la pena. Non perchè sia stata una cavalcata trionfale – tutt’altro – ma perchè è stata un’esperienza istruttiva, vera. Che ha confermato vecchie intuizioni e instillato nuovi dubbi. Che ha annoiato – specie in certi lunedì sera di gennaio – e ha esaltato – soprattutto nelle due serie di playoff. A bocce ferme, proviamo a riassumere i momenti per noi salienti. Un po’ come quei patetici beveroni  intitolati “Un anno di sport” che manda la RAI la sera del 31 dicembre, in attesa del discorso presidenziale. Solo che qui non ci sono filmati a fare da supporto al testo. E nemmeno il discorso presidenziale.

Il momento più profetico: 27 aprile 2013 – Ultimo quarto di gara 4 tra Bulls e Nets. Il 2-2 sembra cosa fatta, mentre la partita si avvia verso uno sgonfio finale. E quando Nate Robinson inizia a prendere un tiro a ogni possesso, non possiamo esimerci dal vantare la nostra conoscenza da insider, proponendo il seguente tweet. Del resto abbiamo visto tutta la stagione dei Bulls. Ne sappiamo a pacchi, noi.

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Infatti. Ne capiamo così tanto che il folletto riporta da solo in partita Chicago, gettando le basi per uno dei finali di partita più emozionanti a cui abbiamo mai assistito. Dal momento del tweet arrivano 23 (!) punti filati, molti dei quali grazie a tiri che sfidano le leggi della fisica e della logica. I Bulls si ridestano, lo United Center diventa una bolgia (a parte quelli che, leggendo il nostro tweet, erano già andati via a metà ultimo quarto), la partita si trascina per tre indimenticabili supplementari. Durante i quali si vede di tutto, in campo e sugli spalti. Con la perla di un tifoso che dal terzo anello si gira verso la tribuna stampa e inizia a battere un cinque a tutti i giornalisti, in quel momento in piedi ed esultanti come se fossero sullla panchina dei Bulls. Peccato che noi, in quel momento, fossimo impegnati in una lotta contro il tempo. Con la partita iniziata alle 8 ora italiana, infatti, in gazzetta avevano avuto la malaugurata idea di pubblicare immediatamente il pezzo, senza aspettare il mattino dopo. E così, mentre fuori impazza il delirio, noi siamo attaccati al computer a pregare che tutto questo finisca. Per starci dentro con i tempi, ci sarebbe persino toccato spedire tre quarti del pezzo a metà del secondo supplementare, senza sapere chi avrebbe vinto la partita, tenendoci solo un pezzetto introduttivo da mandare sulla serata finale. Il tutto per colpa di un tweet.

Il momento più patriottico : 18 marzo 2013. Derby d’Italia, l’unico stagionale allo United Center. Per il quale si presenta un mischione di italianità mai visto: Belinelli e Gallinari, certo, ma anche Gianni Petrucci e Simone Pianigiani in visita speciale. Un’ora prima della palla a due, i due atleti sono in campo per il riscaldamento. A bordocampo, intanto, si sentono solo accenti della penisola. Pianigiani discute con Umberto Belinelli, fratello di Marco. Petrucci intanto parla con il resto della delegazione federale. Lo United Center sembra Little Italy. A interrompere la festa ci pensa Sebrina Brewster, carismatica PR dei Bulls che convoca tutti a metacampo per la foto ricordo. Ci sono Beli, Gallo, il ct, il presidente, i delegati federali, più il GM Gar Forman. Segue il classico casino italiano per trovare una posa decente, prima della perla finale. Che arriva quando Nuccio Di Nuzzo, fotografo napoletano del Chicago Tribune emigrato in Illinois 50 anni fa, si presenta per scattare la foto. “Andrè, ma chi m….sono questi?” mi chiede a voce alta, incuriosito dal trambusto. Un rapido calcolo da noi personalmenre effettuato avrebbe rivelato che nel giro di 2 metri quadrati si trovavano, noi inclusi, nove italiani, sei regioni diverse. Più che un derby d’Italia, un All Star Game.

Il momento più squallido: 14 gennaio 2013. In un piacevole lunedì sera, piacevole come solo i lunedì sera di Chicago sanno essere, gli Atlanta Hawks entrano nella storia. Ovviamente dalla parte sbagliata. Nella sconfitta 58-97 (http://espn.go.com/nba/recap?gameId=400278278), che già di per sè lascia spazio a poche discussioni, gli uomini di Larry Drew segnano solo 5 punti nel secondo quarto, ritoccando il record franchigia negativo di punti segnati in una frazione. Gli Hawks per 10’ non trovano il canestro, collezionando 17 errori e 8 palle perse. I 20 punti segnati all’intervallo sono secondo record negativo per una franchigia NBA.

Marco Belinelli (Photo by Jonathan Daniel/Getty Images)

Marco Belinelli (Photo by Jonathan Daniel/Getty Images)

Il momento più esaltante: 8 dicembre 2012 – Contro i New York Knicks, Marco Belinelli gioca una partita strepitosa, chiudendo con 22 punti, 4 triple, l’assist decisivo e tutti gli onori della cronaca. Non è stata forse la partita migliore di Marco in assoluto, nè a livello di numeri, nè a livello di importanza. Ma è stata la prima volta in cui tutti, addetti ai lavori (e pure noi) compresi, si sono resi veramente conto di quello che Beli fosse in grado di fare in questo sistema. Il che andava abbondamente al di là di sparare qualche tripla sui blocchi, come lo stesso Belinelli avrebbe poi ampiamente dimostrato. E’ stata anche la prima volta in cui Beli si è conquistato l’intervista sul jumbotron dello United Center, a fine partita. Un onore che spetta alle stelle della squadra.  E’ stata anche la partita del “stop it! stop it! give me the hot sauce” urlato da Stacey King in telecronaca, dopo che una tripla da metacampo di Marco aveva chiuso il primo quarto. E’ stata una partita indimenticabile, combattuta, intensa. Vinta dal giocatore per cui si è lì a seguire quella roba. Si sa che è più facile rispondere alle interviste quando si gioca così bene. Va anche detto che è più facile  anche fare le domande delle interviste, in condizioni del genere.

Il momento più imbarazzante: 26 novembre 2012 – Contro Milwaukee, i Bulls hanno appena buttato via 28 punti di vantaggio nel secondo tempo, subendo una sconfitta imbarazzante. In tutto questo, Belinelli non ha messo piede in campo, incappando nel primo DNP-CD della stagione (sarebbe anche stato l’ultimo). Insomma, è uno di quei momenti in cui sia i giocatori che i giornalisti vorrebbero abolire l’obbligo di aprire gli spogliatoi alla stampa nel dopopartita. Un temerario chiede a Thibodeau in conferenza stampa: “C’è un motivo particolare per cui non hai utilizzato la tua panchina?” . Risposta secca: “No”. Un altro temerario, anche un po’ idiota peraltro, ci riprova: “Pensi che lo scarso utilizzo della panchina abbia influito sul risultato finale?” Segue un altro “No”, questa volta con sguardo inceneritore. In spogliatoio, va anche peggio. Proviamo ad avvicinarci a Belinelli. Lui, magnanimamente, ci risparmia anche la fatica di chiedere: “Spero niente intervista questa sera, eh”.  Due giorni dopo, in seguito a una bella vittoria sui Mavs con 11 punti di Marco, sarà lui a cercarci prima che la stampa americana gli salti addosso, gridando “ci voleva eh”. Fine dell’imbarazzo.

Il momento più divertente: 10 maggio 2013 – Di risse, botte, scaramucce ne abbiamo osservate parecchie. Ma mai ci era capitato di scoppiare a ridere in maniera compulsiva alla loro vista. L’episodio è noto a tutti.  In gara 3 della semifinale di conference con gli Heat Nazr Mohammed, a gioco fermo, spinge a due mani LeBron James, scatenando il parapiglia. Un’azione così plateale, così goffa, così inaspettata da risultare inevitabilmente comica, al netto dello sterile dibattito sulle tendenze di LeBron a simulare. La spinta di Mohammed sembrava un misto tra un filmato di Paperissima, un capriccio di un bambino  che gioca a calcio nel cortile e  uno dei mitici falli intenzionali di NBA Live ’96, quelli che si facevano premendo il tasto Y sulla consolle del super Nintendo. Vederlo dal vivo, con la visione globale del campo offerta dalla press box dello United Center, è stata un’esperienza impagabile. Al pari del clima da battaglia offerto dallo United Center per quella gara 3, poi vinta dagli Heat

Il momento più grottesco : 9-26 ottobre 2012. Ovvero, tutta la durata della preseason. Che sarà un periodo fondamentale per mettere a punto i giochi, ma resta la morte nera e secca per qualsiasi appassionato che non sia a) lo scout di un Fantasy Team, b) un maniaco dell’orrido o c) un totale invasato. Titolari a riposo, lunghi tratti con il fantasma di Radmanovic in campo,  cambi col cronometro, spettacolo azzerato dal sovraccarico muscolare del training camp. E  coachThibideau che, a fine gara, dichiara sempre, a prescindere dal risultato “we are nowhere near where we need to be” (non siamo nemmeno lontanamente vicino al punto in cui dobbiamo essere). Peraltro, quello che ha sempre detto dopo ogni partita fino ai playoff, prima di perdere improvvisamente il senno nel mezzo della serie con gli Heat.   Il fondo della preseason lo si tocca a fine mese, quando i Bulls annunciano costernati l’assenza di Kyrylo Fesenko per l’ultima partita interna causa…raffreddore. La mattina dopo ne ufficializzano il taglio. Dopo settimane del genere, non  è difficile credere che l’opener con i Sacramento Kings sembrò quasi una gara 7 di finale di conference. Quasi.

Il momento più nostalgico: qualsiasi giro di campo alla vigilia di qualsiasi partita. Per chi si è appassionato a questo giochino negli anni ’90, camminare a bordocampo e passare a pochi centimetri da personaggi come Bill Wennington – ora radiocronista -, Stacey King – ora telecronista –, John Paxson – Vice Presidente -,  Scottie Pippen e Randy Brown – ora consulenti  del GM Forman,  sarà sempre un’emozione più forte di qualsiasi schiacciata di LeBron o acrobazia di Kobe. Non perchè vogliamo fare i diversi, ma perchè anche noi, come tutti, siamo patetici nostalgici. Illusi che i tempi andati fossero i migliori, solo perchè, guardandoci alle spalle, credevamo di essere più competenti dei bimbiminkia di adesso. Altre apparizioni mistiche, più occasionali ma non meno commoventi di quelle nominate sopra, sono state quelle di Chris Mullin, Dominique Wilkins, Tim Hardaway, Reggie Miller, Will Perdue, Toni Kukoc, Steve Kerr. Ciascuna capace di evocare ricordi a profusione.

Insomma, lunga vita alla lunga stagione NBA.

Twitter: @andreabeltrama

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