Danilo Gallinari non riesce a stare fermo. Ha voglia di giocare, ha voglia di avere il pallone in mano, ha voglia di sentire il campo. Lo incontriamo a Roma, al Basketball Without Borders, evento organizzato da NBA e Fiba Europe. Appuntamento fisso del calendario cestistico europeo: 45 giovani ragazzi, i migliori d’Europa classe ’97, vengono invitati a una quattro giorni di clinic, lezioni e partite sotto gli occhi attenti di scout e allenatori NBA. Nel 2003 Danilo era “dall’altra parte della barricata”. Era una delle giovani promesse europee che erano state invitate a vivere quattro giorni da sogno sperando un giorno di fare strada nel mondo dei grandi del basket d’oltreoceano. Di tempo ne è passato tanto. Danilo, adesso, è un veterano NBA (quella che sta per iniziare sarà la sua 7ª stagione, ndr). Quando entriamo nella palestra della Stella Azzurra, storica società della capitale che quest’anno ospita il Camp, troviamo Danilo in campo. Si vede che la sensazione fisica è quella giusta. Ha un pallone in mano e non ce la fa a non tirare. Si mette a giocare con alcuni dei ragazzi invitati al Camp. Scappa qualche sorriso e l’aria è quella del primo giorno di scuola. E’ il momento dell’intervista:
Danilo, prima di tutto, come stai?
(Tira un sospiro di sollievo) Bene, finalmente bene. Le sensazioni sono buone. Stiamo lavorando molto bene e cerchiamo di non commettere errori che potrebbero rivelarsi fatali. Però devo dire che sono molto contento di come sto adesso. La tabella di marcia è perfetta. Sta andando tutto bene.
Si vede che hai voglia di giocare, come sta andando il graduale ritorno al basket giocato?
Ho una voglia super di giocare! Sta andando molto bene. Abbiamo reintrodotto da qualche settimana la corsa e i salti. Stiamo lavorando con il pallone sul campo. Per i contatti c’è ancora tempo.
Quanto ti ha aiutato la franchigia in questa rieducazione?
Tantissimo. Sono molto grato ai Nuggets che si sono messi a totale disposizione. Abbiamo dei fisioterapisti super a Denver, secondo me tra i migliori della lega. Il preparatore atletico della squadra (Steve Hess, ndr) è bravissimo e sa esattamente cosa fare con il mio ginocchio. Sono molto contento di come stiamo lavorando.
Quali sono i progetti per la tua estate? Come continuerà il lavoro di riabilitazione?
Farò avanti e indietro con gli Stati Uniti. Abbiamo preparato un calendario con delle scadenze e degli obiettivi. Sarà un’estate di lavoro ma farei di tutto per tornare a giocare.
Passiamo alla stagione appena conclusa. Hai dovuto guardare tutto da bordo campo ma come ti è sembrato questo nuovo inizio?
La franchigia ha cambiato volto. Dal General Manager all’allenatore, così come moltissime figure manageriali della squadra, sono tutti cambiati. Devo dire che nessuno di noi si aspettava un cambiamento così profondo. Quando ho saputo che George Karl non sarebbe stato più il nostro allenatore sono rimasto sorpreso. Coach Shaw è un allenatore preparatissimo e ci troviamo molto bene con lui, non sto dicendo che non mi piace, solo che non ce lo aspettavamo. La stagione è stata difficile ma siamo stati sfortunatissimi anche sul piano degli infortuni. Io ho dovuto saltare tutta la stagione, Nate Robinson e JaVale McGee mi hanno raggiunto molto presto in infermeria. Una stagione segnata.
Domanda obbligata. Ti ritrovi in squadra con due dei personaggi più incredibili dell’intera lega: Javale McGee e Nate Robinson. Ora te li ritrovi anche tutti i giorni in sala di fisioterapia. Immaginiamo che le risate non manchino. Raccontaci qualche aneddoto, almeno di quelli che si possono raccontare…
E’ dura. Ci sono tanti aneddoti che non posso raccontare (ride ndr), però posso dirvi questo: avete presente gli episodi di Shaqtin’ A Fool che una volta a settimana vi fanno vedere su TNT? Ecco. Quella è solo la punta dell’Iceberg. Io vivo Shaqtin’ A Fool quotidiani con quei due (ride ancora).
Passiamo alle Finals che sono ormai alle porte. Marco Belinelli è diventato il primo italiano a raggiungere le Finali NBA. Sei contento per lui?
Sono strafelice per il Beli. Se lo è meritato. Nei suoi anni di NBA ha saputo avere pazienza anche facendo tanta panchina. Ha sempre lavorato sodo e non ha mai smesso di crederci. L’anno scorso è stato l’anno della svolta ma quest’anno ha trovato l’ambiente perfetto per lui. Una squadra che lo ha saputo valorizzare per il giocatore che è.
Vi siete sentiti dopo l’approdo alle Finals degli Spurs?
No, purtroppo. Problemi di orari ma appena riusciremo a sentirci gli farò il mio in bocca al lupo.
Hai la sensazione che si stia tornando a una NBA di inizio 2000, quando le due grandi scuole di pensiero della pallacanestro americana, Spurs e Lakers, Popovich e Jackson, si spartivano i destini della lega? I discepoli del Pop stanno colonizzando le panchine – e i front office – NBA da alcuni anni. Adesso tocca ai ragazzi di Phil Jackson. Cosa pensi di questo?
E’ una buona domanda. Sono due eccezionali scuole di pallacanestro e entrambe possono fare il bene di questa lega. Non credo che si stia tornando a quel dualismo ma sicuramente tutte le squadre NBA si rendono conto che quelle due scuole di pensiero rappresentano un’idea di squadra basata sul gruppo e non sulle superstar. Non ci sono tante squadre che si possono permettere di pagare tre superstar. La soluzione è programmare.
(Andrea Bargnani ci viene vicino e ci suggerisce: “Chiedigli per chi tifa in queste Finals”)
Per chi tifi, Danilo?
San Antonio. Si meritano di vincere.
Esattamente 11 anni fa tu eri su un campo simile a questo, ospite di Basketball Without Borders, cercando di carpire qualche segreto da chi in NBA c’era già. Adesso sei qui a insegnare a questi ragazzi. E’ stato un momento importante del tuo percorso?
Assolutamente sì. E’ stato il mio primo contatto con la pallacanestro NBA. Fondamentale per iniziare a capire di cosa si tratti. E’ stato un momento fondamentale della mia carriera.
Spesso si chiede ai giocatori NBA che arrivano dal college quale sia l’aggiustamento più grande che hanno dovuto fare quando hanno iniziato a giocare tra i Pro. Arrivare dall’Europa, dove i giocatori hanno già giocato tra i professionisti, richiede altri aggiustamenti. Quali sono questi accorgimenti e credi che sia più facile adattarsi all’NBA quando si arriva dal vecchio continente?
Per certi aspetti, sì. Giocare tra i professionisti è completamente diverso. Soprattutto per alcune posizioni nel campo, come per i centri, arrivare dall’Europa è sicuramente più facile che arrivare dall’NCAA. Gli accorgimenti che bisogna fare sono più o meno gli stessi del College. La velocità del palleggio è il problema più grande. Non è facile abituarsi alla velocità con cui i giocatori NBA mettono palla per terra. Ci vuole del tempo.
Torniamo ai Nuggets. L’estate 2014 sarà fondamentale per gli equilibri della lega. Potrebbero cambiare tantissime cose. Che ne sarà dei Nuggets?
Ci hanno detto che la squadra non dovrebbe cambiare di tanto. Noi possiamo solo lavorare sodo.
Sarai pronto al 100% per l’inizio della nuova stagione?
Mi vedrete in campo.