Kyrie Irving, decisivo per la vittoria di Cleveland (fonte: Ezra Shaw/Getty Images)

Kyrie Irving, decisivo per la vittoria di Cleveland (fonte: Ezra Shaw/Getty Images)

NBA Finals: Golden State Warriors – Cleveland Cavaliers 89 – 93 (serie 3-4)

Oscar Wilde diceva che chiunque può fare la storia ma solo un grande uomo può scriverla.

LeBron James è uno di questi, un giocatore che, dopo la leggendaria prestazione in gara 7, si iscrive di diritto nel ristretto club riservato agli iniziati del Gioco. Non si può non partire da quanto fatto dal #23 per spiegare il senso dell’impresa compiuta dai suoi Cleveland Cavaliers, una squadra che dopo anni, anzi decenni di delusioni, vede finalmente la luce in fondo ad un tunnel che sembrava destinato a non avere mai fine.

La luce, quella luce, ha le fattezze di LeBron James, autore di una serie finale ai limiti della perfezione.

Al di là delle cifre (29,7 punti, 11,3 rimbalzi, 8,9 assist, 2,6 recuperi e 2,3 stoppate le medie nelle 7 partite), al di là dei 27 punti, 11 assist e altrettanti rimbalzi con i quali impreziosisce il proprio show personale, è la sensazione di assoluto controllo su compagni ed avversari a definire la grandezza di un giocatore che permette ai suoi Cavs di scrivere la storia. Di questo si tratta se per la prima volta nella storia delle Finals, si vince un titolo dopo essere stati sotto 3-1.

Di questo si tratta se, contestualmente, batti a domicilio la migliore squadra di sempre  della lega (record alla mano) che nel momento più importante della stagione viene tradita dal duo Curry-Thompson. Il 10 luglio di due anni fa, James annunciò con una lettera il ritorno a Cleveland. Tra tante frasi più o meno di circostanza ma comunque sentite, si sbilanciò con una promessa: “sono tornato per vincere in Ohio”. Due anni dopo la promessa è stata mantenuta.

La partita Kerr parte con Ezeli da 5 ed Iguodala in panchina, rinunciando almeno in avvio alla “Death Lineup”. Lue, come da pronostico, non cambia nulla, affidandosi a Love da 4 e Thompson da 5. Proprio Love dà segni di vita (quantomeno a rimbalzo) in un primo quarto equilibrato, nel quale Ezeli si mostra subito inadeguato per competere ai livelli richiesti da una gara senza ritorno. Nonostante Cleveland sia più incisiva in transizione, all’intervallo è sotto di 7 lunghezze (49-42). La scatola nera parla chiaro: con un solo canestro da tre realizzato su 14 tentativi a fronte dell’11 su 20 degli Warriors non si può non essere sotto nel punteggio, anche perché Green recita contestualmente le parti sia di un Curry appena discreto che di un Thompson poco continuo.

Da bella, nella ripresa la partita diventa memorabile. James ispira Smith che segna un paio di canestri pesanti. Irving, dal canto suo, non ha bisogno di assistenza. Fa tutto da solo e lo fa al meglio, che sia una penetrazione nel traffico o un arresto e tiro dal mid-range. Quando a meno di 6 minuti dalla fine della partita,  Curry, Thompson ed un immenso Green firmano un parziale che spinge Golden State al momentaneo + 4 (87-83), l’inerzia della gara sembra pendere dalla parte dei padroni di casa.

In momenti del genere, per invertire l’apparente ordine naturale delle cose, ci vuole un uomo in grado di scrivere la storia. Quell’uomo indossa una maglia nera ed un numero, il 23. Quell’uomo è LeBron James che segna 6 punti consecutivi e sull’89 pari a meno di due minuti dalla fine, stoppa Iguodala lanciato in campo aperto, compiendo una giocata che è il manifesto ideologico dell’onnipotenza pura messa in scena in un campo da basket.

Il canestro decisivo, ancora più del tiro libero finale del “Prescelto” che vale il definitivo + 4, lo firma un Irving maestoso. E’ suo il canestro da tre punti che ammutolisce la Oracle Arena, inibita in un finale di gara nel quale Curry, vistosamente frenato da qualche problema fisico di troppo, spara letteralmente a salve.

I titoli di coda hanno, sponda Cleveland Cavaliers, il sapore della più classica delle storie americane. Una storia a lieto fine. Lue viene travolto dall’emozione, Curry si congratula con Irving con genuina sincerità. LeBron si lascia andare ad un pianto senza freni, un pianto che profuma di liberazione. “Torno per riportare un titolo in Ohio”. A due anni di distanza da “The decision part two”, James mantiene la promessa. A due anni da quell’annuncio, un uomo scrive la storia. Epiteto, in “Arriano di Nicomedia”, diceva che è “sorte di un Re fare il bene ed essere denigrato”. Quel bene che LeBron, il Re, ha fatto alla sua gente portando un titolo alla città di Cleveland dopo 52 anni.

No, pensare che possa essere denigrato ancora, ci risulta obiettivamente difficile.

 


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