Con Harden e Howard Houston è diventata H-Town

Con Harden e Howard Houston è diventata H-Town

Dopo quasi 3 anni di voci, tormentoni, dichiarazioni fatte e smentite, mugugni e con in mezzo una maxitrade che ha cambiato il volto di 4 franchigie, sembra chiudersi (o almeno così sperano i tifosi texani) il caso Dwightmare con l’approdo di Howard a Houston.

Superman, prontamente ribattezzato Rocket-man, attendeva con ansia l’estate 2013 fin da quando, dopo la stagione 2008-09 culminata con la Finale persa dai suoi Orlando Magic contro i Los Angeles Lakers, aveva iniziato un lento declino nei risultati di squadra con eliminazioni in finale di conference contro Boston nel 2010 e al primo turno contro Atlanta ed Indiana nei due anni successivi. I rapporti tesi con coach Stan Van Gundy e quelli con la dirigenza che via via sono degenerati sempre più avevano portato allo scambio con Los Angeles. Ai Lakers Howard avrebbe potuto continuare la tradizione dei grandi centri in gialloviola (da Mikan a Bynum passando per Chamberlain, Abdul-Jabbar e O’Neal) ma, complice anche un’operazione alla schiena subita la scorsa estate, la stagione di Dwight è stata a dir poco travagliata. La formazione, costruita su grandi veterani (Nash, Bryant, World Peace e Gasol) per vincere subito, fatica a trovare la chimica giusta (a causa anche degli acciacchi di Nash e del difficile ritorno in forma dello stesso Howard) e la preseason da 0 vinte e 8 perse è solo il prologo al licenziamento imminente di coach Brown. Tutto sembra pronto per il ritorno di coach Zen, al secolo Phil Jackson, sulla panchina gialloviola, ma a sorpresa la dirigenza sceglie Mike D’Antoni, un allenatore che predilige il gioco in transizione e senza centri di ruolo. Ed in una formazione con Gasol e Howard questo stona un po’. La stagione infatti non decollerà mai, nonostante i playoff acciuffati all’ultima gara e pure con la testa di serie numero 7. E le voci di dissapori in spogliatoio col leader Kobe Bryant si sprecano.

Dwight, rifiutato qualsiasi discorso relativo ad estensioni contrattuali, testa finalmente la free agency per poter scegliere la propria futura squadra.

Le ultime due estati sono state trionfali per il GM Daryl Morey. Ora spazio al campo (fonte: Bill Baptist/Getty Images).

Le ultime due estati sono state trionfali per il GM Daryl Morey. Ora spazio al campo (fonte: Bill Baptist/Getty Images).

Alla sua porta bussano Houston, Dallas, Atlanta, Golden State e Lakers con progetti molto differenti tra loro. I Mavs offrono un accoppiamento con Dirk Nowitzki ma, a parte questo, poco altro. Atlanta permetterebbe ad Howard di giocare a casa (essendo nato nella città della Georgia) ma sta ricostruendo da capo la squadra. Golden State ha un progetto accattivante, viene da una stagione entusiasmante, ma non ha spazio salariale per arrivare al centro se non attraverso complicate trade escluse a priori dai Lakers. I gialloviola possono offrire più soldi di chiunque altro (118 milioni in 5 anni contro gli 88 in 4 delle altre franchigie), ma Howard ormai conosce l’ambiente, sa quale sarebbe il suo ruolo anche l’anno prossimo e soprattutto mal digerisce la presenza di Bryant che catalizza la maggior parte dei possessi offensivi della squadra. Ecco quindi emergere Houston, che dopo anni di anonimato post era-Ming, è riuscita ad ingaggiare un uomo franchigia come James Harden, ha valorizzato giocatori di secondo piano come Chandler Parsons, Greg Smith, Patrick Beverley e lavorato bene sul mercato con Jeremy Lin e Omer Asik. Il GM Daryl Morey è il primo ad incontrare Howard all’apertura della free agency guidando una delegazione che annovera Harden, coach McHale e gli Hall of Famer Hakeem Olajuwon e Clyde Drexler, oltre a Yao Ming in collegamento Skype. Il lungo si sente valorizzato ed al centro di un progetto tecnico già avviato e con una superstar sì realizzatrice come poteva essere Bryant, ma anche molto più votata al coinvolgimento dei compagni. E sceglie di firmare per i Rockets.

Gli interrogativi su che impatto avrà Howard sull’edizione 2013-14 (e successive) dei Rockets sono diversi. La squadra che ha terminato la scorsa stagione dando filo da torcere nei playoff a Oklahoma City aveva un unico centro di ruolo (e a volte neanche quello) e 4 tiratori sul perimetro con licenza di colpire o creare dal palleggio. L’innesto del numero 12 richiederà necessariamente un adattamento, visto che negli schemi di McHale il lungo aveva compiti prettamente difensivi ed in attacco “viveva” di rimbalzi offensivi e scarichi, con pochi palloni da gestire in situazioni di 1vs1. La scelta di Howard è stata dettata anche dalla sua voglia di tornare ad essere il fulcro (o uno dei 2 fulcri, con Harden) dell’attacco, di non giocare solo il pick’n’roll come succedeva ai Lakers, nonostante Harden stia diventando infallibile in questo fondamentale, trovando sempre la soluzione più adatta ad ogni situazione. Sotto questo aspetto sarà importante che tutti si ritrovino già in forma per il training camp per cercare fin da subito la giusta chimica tra i vari giocatori, con lo stesso Harden che dovrà adattarsi alla presenza “ingombrante” del nuovo compagno di squadra, dopo un anno dove sostanzialmente faceva quel che voleva.

I Rockets potrebbero tornare all’antica, quando ai tempi del secondo titolo avevano una batteria di tiratori a fianco dell’unico lungo Hakeem Olajuwon, con inoltre Clyde Drexler (e Sam Cassel) che poteva creare dal palleggio. Paragonare Howard a The Dream è un’eresia, vista la distanza abissale a livello di tecnica, ma non per nulla il nigeriano si appresta ad entrare nello staff di Houston, con compiti prettamente da tutor di Howard, dopo averlo già allenato individualmente nelle scorse estati.

Quello che sarà fondamentale, però, sarà l’atteggiamento, la “testa”, con cui DH12 affronterà la nuova esperienza. Lasciato polemicamente alle spalle il recente passato (in una intervista alla ESPN ha dichiarato, riguardo Kobe Bryant: “E’ dura giocare con lui. Ma questo non ha inciso nella mia decisione di andare a Houston. Sento che questa è la miglior soluzione per la mia carriera. Con Kobe abbiamo avuto i nostri diverbi. Tutti sanno che a lui piace segnare. E quindi tenere in mano la palla. Ma il mio obiettivo non dev’essere Kobe. Devo guardare solo a me stesso. Posso avere più palloni per poter fare quello che voglio. Ne sono capace. Non posso incolpare nessuno per le cose che sono successe”), dovrà tornare quello concentrato, voglioso di affermarsi, ambizioso dei primi anni ad Orlando. Solo così i Rockets potranno entrare con pieno diritto nel novero delle contender con Miami, Oklahoma City, San Antonio, Indiana e Brooklyn. Altrimenti il rischio è di trovarsi in casa un bambinone viziato e strapagato, con un enorme potenziale (fisico più che tecnico) sfruttato decisamente male.

Il lavoro di Morey, comunque, non è ancora finito poiché la squadra va ancora puntellata con la giusta spalla vicino a canestro per la new entry (si era parlato di uno scambio Omer Asik per Ryan Anderson, ma la pista sembra essersi raffreddata, anche se così si risolverebbe anche il malcontento del turco), pur con un Terrence Jones in rampa di lancio. Inoltre Jeremy Lin non ha diradato i dubbi sulla sua capacità di guidare una squadra d’alto livello, confermandosi più un realizzatore che un costruttore di gioco. Il GM non è nuovo a colpi a sorpresa e quindi da qui a febbraio aspettiamoci di tutto. Ma in tanti, nel frattempo, sono ansiosi di vedere all’opera questi nuovi Rockets.


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