Stephen Curry (Kyle Terada-USA TODAY Sports)

Stephen Curry (Kyle Terada-USA TODAY Sports)

L’arrivo di Iguodala per colmare il mancato approdo di Howard: Golden State ha tutto per recitare un ruolo importante. Guidata dal talento del suo numero 30.

Se c’è una squadra che, a differenza di tutte le altre interessate a Howard, potrebbe non patire più di tanto il mancato arrivo dell’ex Lakers ma anzi trarne addirittura dei vantaggi, si tratta probabilmente dei Warriors: il roster a disposizione di coach Jackson ha un potenziale notevolissimo e, dopo l’ultima sorprendente stagione, buone possibilità di sviluppare ancora il proprio talento. Cavalcando la classe di colui che merita di essere il leader di questo gruppo. E che proprio per questo motivo potrebbe essere il più avvantaggiato dalla scelta di Superman.

Di chi stiamo parlando? Ovviamente di colui che sta facendo sognare più di qualche migliaia di persone nei pressi di San Francisco, che porta il numero 30 sulla maglietta, e che tutto sembra tranne che un fortissimo giocatore di basket.
All’anagrafe, Stephen Wardell Curry. Classe 1988, poco meno di un metro e novanta e poco più di 80 kg di poesia in movimento. Segni particolari: albino e meticcio allo stesso tempo, faccia da bambino, timorato di Dio, assolutamente inarrestabile.

La sua è una storia particolare ed esemplare: è il racconto di un ragazzo con limiti fisici più che evidenti che si è conquistato a spallate un posto nell’èlite della pallacanestro mondiale. È la storia di uno di noi che ce l’ha fatta. Steph ha avuto finora un compagno inseparabile nella sua (giovane) carriera cestistica: lo scetticismo di chi lo vedeva accanto agli altri giocatori. Il suo fisico snello, ossuto, non esplosivo è stato un problema ben prima di entrare nel basket professionistico: diverse università prestigiose si rifiutarono di offrire al nativo di Akron una borsa di studio ritenendolo non all’altezza di fare la differenza in una pallacanestro fisica come quella collegiale. Le proposte migliori furono quelle di unirsi alla squadra come “walk on player”, ossia come studente regolarmente iscritto all’università senza particolari meriti sportivi, buono giusto per fare il tredicesimo in allenamento. Alla luce di tutto questo, ringraziamo il cielo che sia arrivata tempestiva l’offerta di Davidson.

Stephen Curry ai tempi di Davidson (REUTERS/John Gress)

Stephen Curry ai tempi di Davidson (REUTERS/John Gress)

Bob McKillop, che di quei Wildcats era allenatore, non ci mise molto a capire cosa gli era capitato per le mani. Bastarono pochi allenamenti a Steph per conquistare nel modo più totale il suo nuovo coach, che un giorno, davanti ad un nutrito gruppo di studenti del college, realizzò una di quelle previsioni destinate a lasciare il segno: “Wait till you see Steph Curry. He’s something special” (traduzione: “Aspettate finché non vedrete Steph Curry. E’ qualcosa di speciale”, ndr) disse. Bel colpo Bob.

Il fenomeno di Golden State interpreterà successivamente il suo approdo a Davidson come una precisa scelta divina: “Tutto succede per una ragione e io credo che Dio mi abbia voluto a Davidson semplicemente perché questa storia, la mia storia, potesse svilupparsi nel modo in cui si è sviluppata finora”. Se a questo ragazzo manca qualcosa, certo non si tratta della fede.

Le prime due stagioni a livello universitario sono da incorniciare: impiega solo 83 partite per sorpassare quota 2000 punti (fanno 24,4 a serata, non male tutto sommato) e nell’anno da sophomore porta la sua squadra all’Elite 8 del Torneo NCAA dopo un’assenza durata qualche era geologica. Steph decide, ascoltando i consigli del padre, di rimandare un approdo in NBA a quel punto decisamente probabile per disputare la sua stagione da Junior, nella quale diventa il nuovo top scorer ognitempo di Davidson e, soprattutto, si consacra quale miglior realizzatore della stagione NCAA, portando a casa una media di quasi 29 punti a partita e mettendo in fila anche uno come Kevin Durant.

Dopo aver incantato al college Steph entra nell’NBA durante il draft del 2009, selezionato dai Warriors con la settima scelta assoluta. L’impatto col professionismo è tutt’altro che traumatico, e ancora una volta il “Baby-faced Assassin” riesce a far ricredere tutti coloro che gli rinfacciavano delle carenze fisiche non trascurabili: percentuali al tiro da cecchino, costanza nelle prestazioni, viene anche nominato secondo rookie dell’anno nonostante non riesca a portare Golden State ai Playoffs.

Le difficoltà maggiori però devono ancora arrivare, e si presentano nella forma più subdola e dolorosa per un giocatore molto giovane, quella dei problemi fisici persistenti. Già nel 2011 Steph è costretto a saltare alcune partite per un fastidio alla sua fragile caviglia sinistra, che nel 2012 diviene senza dubbio la nemica numero uno dell’intera franchigia. Steph scende in campo solo 26 volte e deve abbandonare i giochi molto prima del dovuto: addio sogno playoffs per il terzo anno di fila.

Come tutti i grandi, però, una volta toccato il fondo, il numero 30 comincia la sua risalita. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: l’ultima stagione è stata un continuo strabuzzare gli occhi e balzare in piedi dal divano per la sorpresa dopo ogni magata del ragazzino di Akron. Che è finalmente riuscito a condurre i suoi alla post-season e, una volta salito sul palcoscenico più importante, ha recitato il ruolo di primo attore in maniera impeccabile.

Stephen Curry (Photo by Nathaniel S. Butler/NBAE via Getty Images)

Stephen Curry durante la gara del career-high, 54 punti al MSG (Photo by Nathaniel S. Butler/NBAE via Getty Images)

Osservando giocare il 30 si nota immediatamente come il suo gioco goda di una caratteristica rarissima: la pulizia. Ogni gesto tecnico è eseguito sempre in modo armonico, senza sbavature spesso sembra che la presenza di un ottimo o di un pessimo difensore davanti a lui sia un trascurabilissimo dettaglio. Chiunque egli sia. Se finisci in isolamento contro di lui, è una sentenza. Se lasci più di 10 cm tra la tua mano e la sua faccia, nel momento in cui parte il tiro sai già che dovrai andare ad effettuare la rimessa. Se per non concedergli la conclusione ti fai battere in entrata, non sperare troppo nell’aiuto del lungo: il ragazzo alza la parabola a suo piacimento e trova quasi sempre il fondo della retina. Quando non si inventa uno di quegli assist a “schiaffo” che dovrebbero essere inseriti di diritto nell’elenco delle meraviglie da preservare su questo pianeta.

In tutto ciò il nostro riesce a non essere un giocatore egoista, ossia non tende a diventare il terminale offensivo di ogni singola azione dei suoi. Per Steph i compagni vengono prima di tutto, a tal punto da affermare in un’intervista che “Personally, I know that my teammates, coaches, and everyone else involved are as much a part of it as I am. With that in mind, I give glory to God for my talents and whoever is helping me, they get the credit too”. Ossia: grazie a Dio (e non è un modo di dire, nel suo caso, ndr) ho avuto in dono questo grande talento, ma il merito di tutti i traguardi che la mia squadra raggiunge non è solo mio, anzi va condiviso tra tutti.

Steph è una versione molto particolare di “torcia umana”: per come sa infiammarsi durante le partite e illuminare il pubblico con le sue giocate, ma soprattutto perché non ama brillare di luce propria in mezzo al buio, ma cerca anzi costantemente di coinvolgere i suoi compagni nella sua trance agonistica. Quando Curry si accende, i Warriors si accendono con lui, e chiunque sia sul parquet in quel momento sale di un giro. Quando i Warriors si accendono, si accende con loro tutta la Baia, in una catena coinvolgente e spettacolare, quasi commovente quando ci si accorge di quanta passione la squadra del reverendo Jackson sappia suscitare nei propri tifosi.

Dire oggi quali traguardi, personali e di squadra, potrà tagliare il figlio di Dell Curry è davvero impossibile, ma c’è un aspetto di cui si può essere sicuri: Steph non smetterà mai di provare a migliorarsi, non è nella sua mentalità. Giocare a pallacanestro per lui non è più solo un desiderio o un dovere o un’ossessione, è un modo per ringraziare chi ha deciso di concedergli questo meraviglioso talento e per “rendere gloria ai cieli”.

Oggettivamente, l’avesse detto qualcun altro l’avremmo preso per pazzo. Ma l’ha detto lui. Lo stesso che su ogni paio di scarpe scrive, con un pennarello indelebile, “I can do all this through him who gives me strength”. Perché “è ciò a cui penso ogni volta che inizio a giocare a basket, e ho pensato che scriverlo sulle scarpe fosse un buon modo per ricordarmelo ogni giorno”.  Questo ragazzo ha seriamente qualcosa di speciale, e più passano i giorni più un certo allenatore di un certo college della Carolina del Nord si compiace di una previsione fatta tanti anni fa.

 

Andrea Segatta