L’anello dei Golden State Warriors non è soltanto il ritorno ai vertici di una franchigia rimasta tanti, troppi anni a digiuno da titoli. Né tantomeno rappresenta unicamente la vittoria di un allenatore prodigio, Steve Kerr, e di un campione definitivamente esploso, Stephen Curry. Costituisce soprattutto il trionfo di un sistema, di un modo di fare basket a cui troppo spesso è stata affibbiata l’infelice etichetta di “sì, bello, ma non vinci mai giocando così”. Il Run&Gun, per i comuni mortali “corri e tira”, è una strategia di gioco tanto spettacolare e affascinante quanto, paradossalmente, vista con sospetto dalla maggior parte dei coach professionisti.

Curry e Green, due grandi protagonisti della cavalcata al Titolo. Fonte: www.bleacherreport.com

Curry e Green, due grandi protagonisti della cavalcata al titolo (Foto: bleacherreport.com)

Il motivo? Senza dubbio la radicalità e la mancanza di equilibrio che un approccio del genere porta a sposare. Del resto, non dimentichiamone i pilastri fondamentali: transizione immediata dall’attacco alla difesa, cercando una conclusione entro i primi dieci secondi dell’azione, e sviluppo offensivo marcatamente perimetrale, ossia tiro da tre punti come se piovesse. È chiaro che una scelta simile assomiglia molto a una sorta di All-In, della serie “o la va o la spacca”, tanto che i rischi collaterali sono enormi. Due su tutti: l’incapacità di giocare a metà campo in partite dal tatticismo esasperato, tipiche dei playoffs, e la mancanza di una pericolosità interna (dicasi anche monodimensionalità).

Eppure, come ha insegnato Steve Kerr parlando del Run&Gun da lui messo in mostra in questa esaltante stagione, “ognuno ha il suo stile”, e i risultati non possono che dargli ragione. Abbiamo quindi provato a capire perché e in base a quali fattori i Warriors degli Splash Brothers abbiano infranto una tradizione che aveva visto sciogliersi puntualmente sul più bello tutte le formazioni che in passato avevano adottato lo stesso sistema di gioco. E lo abbiamo fatto creando un parallelismo con i loro più illustri predecessori nella materia, i Phoenix Suns di Mike D’Antoni, protagonisti di tre fantastiche stagioni tra il 2004 e il 2007, senza tuttavia mai andare oltre le finali della Western Conference.

Al netto delle ovvie contingenze del caso (avversari incontrati, eventuali infortuni, variabili difficilmente analizzabili), ci siamo in particolare focalizzati su tre principali differenze nelle quali pensiamo possano risiedere le motivazioni che hanno portato al successo dell’una e all’insuccesso dell’altra.

Steve Nash, uno dei migliori playmaker di sempre (Foto: brightsideofthesun.com)

1. Il ruolo del playmaker. Il ritiro di Steve Nash, notizia di pochi mesi fa, è parso inevitabile, ma senza dubbio triste. L’NBA ha infatti perso uno dei più grandi intelletti prestati alla pallacanestro, espressione unica di estro, talento ed efficacia. Senza il due volte MVP, difficilmente Phoenix avrebbe potuto incantare gli spettatori di mezza America per anni. Grande e illuminato regista (terzo assistman di tutti i tempi) nel basket a ritmi folli predicato da D’Antoni Steve è stato il motore, l’uomo che ne ha dettato tempi e soluzioni, non tirandosi indietro nemmeno quando c’era da buttarla dentro (17,4 punti di media nei primi quattro campionati in Arizona). Pensate, però, a quanto siano diverse le caratteristiche di un playmaker puro come Nash – visione di gioco da marziano ma mezzi offensivi poco più che normali –, da quelle del suo pari ruolo nei Warriors neo-campioni. Curry è un attaccante mortifero, sesto miglior marcatore della Lega, da tre stagioni consecutive primo in NBA sia per tiri dall’arco segnati che per quelli tentati, ma anche quarto nella classifica degli assist. Rappresenta cioè l’evoluzione moderna, più ricca di “fosforo”, del cosiddetto Tweener, ovvero il play che è in grado di segnare alla stregua (se non di più) di una guardia, ma al contempo di orchestrare il gioco. Lo spumeggiante trionfo di Golden State è passato praticamente tutto dalle sue sapienti mani. Ecco dunque la nostra prima tesi: in un sistema di “Corri e Tira”, il ruolo di numero “1” deve essere sì occupato da un interprete oculato, ma anche talvolta istintivo, portato a realizzare tanto, che sia dalla lunga o attaccando il ferro. La ragione sta nella semplice legge delle probabilità. Il playmaker è colui che conduce le numerose e veloci transizioni generate da una squadra di questa impostazione. E se in quella posizione agisce un’arma letale come Steph, le opportunità di trovare canestri immediati, e quindi di moltiplicare i possessi, salgono vertiginosamente. Al contrario, se si ha “un Nash” in cabina di regia, è fondamentale che gli esterni abbiano potenzialità realizzative tali da poter raccogliere vagonate di assist al bacio. Se ci si pensa, è proprio ciò che è mancato ai Suns di un decennio fa, in cui i pur ottimi Marion, Bell e Barbosa (quest’ultimo curiosamente membro di entrambi i roster) hanno prodotto molto grazie al genio del canadese, ma mai permesso di compiere il grande salto.

Steve Kerr, il vero artefice del successo dei Warriors. Fonte: nypost.com

Steve Kerr, il vero artefice del successo dei Warriors (Foto: nypost.com)

2. Lunghi perimetrali. In un contesto di Run&Gun, un presupposto imprescindibile è che i Big Men siano fortemente dinamici, rapidi e pronti a correre da una parte all’altra del campo. Così come è necessario che sappiano agire fuori dalla linea dei tre punti, allo scopo di sfruttare, ma anche creare, enormi spazi per il penetra e scarica. In sostanza, l’identikit di Draymond Green, senza dubbio il miglior lungo della stagione di Golden State. Partito in sordina e con aspettative tutt’altro che da protagonista, il prodotto da Michigan si è rivelato un elemento irrinunciabile per la truppa di Curry e compagni, sfruttando la capacità di velocizzare la circolazione della palla, l’aggressività a rimbalzo, nonostante la stazza non certo notevole, e la pericolosità dall’arco. Decisamente lontano dal profilo dell’Amar’e Stoudemire dei Suns, atleta con pochi confronti e macchina da punti a tratti immarcabile (sempre sopra i 20 di media nella lunga parentesi a Phoenix). Non sempre, però, il talento prevale sulla funzionalità. E questo inedito parallelismo lo mette chiaramente in luce. Da un lato un numero “4” con poche varianti offensive, ma perfettamente complementari a quelle di compagni che viaggiano a mille. Dall’altro un’ala forte dalla grande corsa, ma anche monopolizzatore del pitturato, con la tendenza a giocare molti palloni, snaturando in parte un sistema che fa della mobilità il suo punto di forza. Conclusione: Steve Kerr si è dimostrato lungimirante, portandoci a pensare che, nella sua filosofia di gioco, il “finto” lungo, purché dotato di uno spirito da combattente, sia l’opzione migliore.

Boris Diaw e Shawn Marion ai tempi dei Suns (Foto: chatsports.com)

Boris Diaw e Shawn Marion ai tempi dei Suns (Foto: chatsports.com)

3. Aprire il campo. A una settimana dal termine delle Finals, la mente non può che andare alle straordinarie performance di Andre Iguodala e al quintetto piccolo dei Warriors, l’esperimento più riuscito dell’intera serie. Una prestazione di squadra che, da gara 3 in poi, ha letteralmente annichilito i malcapitati Cavs. Il tutto grazie all’abbassamento dello starting five, con il quale Golden State ha accentuato ulteriormente il proprio basket fatto di improvvisi capovolgimenti di fronte, dilatando a dismisura lo spazio a disposizione in attacco e costringendo gli avversari a un dispendioso lavoro di contenimento e di inseguimento sui blocchi. E se il culmine è stato raggiunto nel momento più importante dell’anno, va precisato come la franchigia di Oakland abbia sin dall’inizio portato avanti un progetto ben preciso, costruendo un roster che garantisse una grande efficacia perimetrale. In primis puntando forte sul micidiale tiro da tre punti di Stephen Curry e Klay Thompson (peccato per la serie finale disputata da quest’ultimo, parecchio sottotono), ben coadiuvati da Harrison Barnes, dal già citato ottimo Green e, nei momenti più cruciali, dal sorprendente “Iggy”. Al contrario, i Suns del triennio considerato non hanno mai potuto vantare un simile impianto. Fatto salvo Raja Bell, infatti, Shawn Marion e Leandro Barbosa non hanno mai rivelato, in tutta la loro carriera, una continuità al tiro tale da essere ritenuti degli specialisti. Così come Kurt Thomas e Stoudemire hanno sempre preferito gravitare nei pressi dell’area, supportati da un Diaw capace sì di fungere da raccordo, ma non di rendersi pericoloso dalla linea dei tre punti. Per riassumere, giocare al Run&Gun presuppone, come hanno dimostrato i Warriors, che vi sia tanto campo da sfruttare e che, in qualche modo, non si adottino strategie ibride. Trattandosi infatti di una “coperta sempre troppo corta” e di un approccio quantomai estremo, occorre perseguirlo fino in fondo dotandosi di interpreti con caratteristiche ideali a un gioco che ha la sua essenza nella corsa e nella ricerca di conclusioni dal perimetro.