Metta World Peace (fonte: Harry How/Getty Images)

Metta World Peace (fonte: Harry How/Getty Images)

Ringkomposition. In tedesco significa “composizione ad anello” ed indica una struttura compositiva circolare, in cui gli elementi iniziali sono ripresi alla fine. Se in testa vi si illumina la spia indicante “epica antica”, siete sulla giusta strada. Ma esistono chiari esempi di ringkomposition anche nella vita reale, storie che appena prima di giungere alla conclusione si riallacciano con il principio. Una di queste si è palesata da poco, e il suo eroe non è certo un paladino della giustizia né un campione di buoni sentimenti.

Qualcuno lo chiama ancora Ron Artest, altri invece si sono adeguati alla sua volontà e lo riconoscono come Metta World Peace. L’ex Lakers infatti, “amnistiato” dai giallo-viola, ha deciso di firmare per i Knicks facendo ritorno a New York (sua città natale) dopo anni passati lontano, in giro per l’NBA. E nonostante lo scorrere del tempo e tutti gli alti e bassi attraversati in questo lungo periodo, l’uomo che fa ritorno nella Grande Mela non ha nulla di diverso dal ragazzo che se ne andò quattordici anni fa, se non qualche storia in più da raccontare. Esattamente come i più grandi eroi epici del passato.

Nato nel 1979 nel distretto del Queens, l’ex Ron Artest è un distillato della situazione sociale del luogo, che volente o nolente influisce in modo assoluto sulla vita, e in modo particolare sulla crescita, dei propri abitanti. Non è un caso che la mentalità, il carattere, la visione del mondo acquisite dal nostro durante i primi anni di esistenza nel particolare (eufemismo) quartiere di New York non siano minimamente cambiate col procedere degli anni. World Peace ha conservato intatta l’anima guerriera ereditata da quel tipo di cultura, l’orgoglio di appartenervi, la rabbia.

I’m still ghetto, that’s not going to change. I’m never going to change my culture”. E sul campo da basket questa inclinazione si riflette perfettamente, nel bene e nel male.

L’inizio stesso della carriera cestistica di Artest è legato ad alcuni gravi problemi familiari: i genitori divorziano quando il piccolo Ron ha a malapena 7 anni, e lui accusa duramente il colpo, tanto da necessitare la consulenza di un assistente sociale. Lo stesso assistente che, per facilitare l’inserimento del bambino tra i suoi coetanei, consiglia alla madre di iscriverlo alla squadra di basket della scuola. Soluzione non tanto originale per la verità, ma che spesso dà i suoi frutti. Dal punto di vista della socializzazione forse i risultati avrebbero potuto essere anche migliori, ma quantomeno l’assistente indovinò lo sport. Da quel giorno in avanti, in effetti, Metta World Peace e la palla a spicchi non si sarebbero più divisi.

Il “Ghetto Boy” dimostra presto di avere delle doti non comuni, tanto che nell’ultimo anno all’High School (LaSalle Academy) viene nominato miglior giocatore dello stato e della città di New York. La scelta del college ricade sulla St. John’s University, non certo la più prestigiosa tra le università che avevano offerto delle borse di studio al giovane talento, ma una delle poche che gli avrebbe garantito di non spostarsi dalla metropoli.

L’esperienza al college è positiva, seppur priva di performance straordinarie e di riconoscimenti particolarmente prestigiosi, ma dura solo due anni: nel 1999 Artest decide di dichiararsi eleggibile per il draft, dove viene selezionato dai Bulls con la sedicesima chiamata. E qui ha inizio il lungo pellegrinaggio di un ragazzo che per la prima volta si vede costretto ad allontanarsi dal suo nido, dal luogo dove era nato e cresciuto e in cui ormai si era perfettamente integrato.

L’aspetto impressionane della carriera professionistica di Artest è la quantità di informazioni extra-cestistiche raccolte sul suo conto: la pallacanestro, le sue abilità, le sue caratteristiche sono sempre messe in secondo piano, nascoste dalle ingombranti notizie di cronaca che lo riguardano.

E così la sua crescita dopo l’arrivo ai Pacers, il suo ruolo di leader e di stella assunto ai Kings, l’importanza enorme all’interno della rosa dei Lakers, perfino il primo (e unico) anello vinto coi californiani, per il quale il “Ghetto Boy” fu assolutamente decisivo con una gara 7 di finale impeccabile in cui tagliò le ginocchia ai Celtics, sono tutti argomenti che restano offuscati.

L'assurda gomitata di World Peace ad Harden

L’assurda gomitata di World Peace ad Harden

Perché lo spazio davanti a loro è occupato da storie come le bevute di cognac durante l’intervallo delle partite ai tempi di Chicago, o la rissa più clamorosa della storia NBA scatenata in quel famoso Detroit-Indiana, che costò ad Artest una squalifica record di 86 partite con un danno economico di 6 milioni di dollari. O ancora, l’arresto (nel 2007) con l’accusa di violenze domestiche, l’allenamento disputato interamente con un accappatoio addosso (sempre ai tempi di Indiana), la folle gomitata a James Harden nel 2012.

A tutto questo si aggiunge il cambio di nome nel 2011, una decisione drastica e originale, pensata per “ispirare ed unire i giovani di tutto il mondo” a detta dello stesso giocatore.

“Metta”, infatti, è una tradizionale parola buddista, che assume all’incirca il significato di “amorevole gentilezza e amicizia verso chiunque”, mentre World Peace non ha certo bisogno di traduzioni. Molto si è discusso su questa scelta, l’ironia è sgorgata a fiumi e sarebbe stato oggettivamente difficile il contrario: la sensazione è che, come il miglior Dottor Jekyll, Artest abbia provato a nascondere il lato odioso (e odiato) del suo carattere assumendo una nuova identità, diametralmente opposta rispetto alla precedente, partendo dalla cosa più importante: il nome.

E siccome la vita è una storia spesso curiosa, qualcuno ha voluto concedere all’ex Artest altro tempo per convincere le persone del suo effettivo cambiamento: se quella clamorosa gomitata alla mandibola di Harden di un anno fa avesse colpito il bersaglio 3 cm più in alto, sulla tempia, difficilmente il “Ghetto Boy” potrebbe ancora calcare il parquet dei campi di basket, ma sarebbe anzi più facile incontrarlo in un’aula di tribunale o più direttamente in galera con l’accusa di omicidio colposo.

Questo è Metta World Peace: un lottatore. Che fa della sua forza non tanto il talento, quanto qualità decisamente più profonde come grinta, rabbia, orgoglio. Nessun allenatore si aspetterà mai da lui prestazioni da 40 punti o giocate di classe, e neanche decisioni illuminanti o particolarmente geniali.

Ciò che viene richiesto al nativo del Queens è di mettere in campo esattamente le sue qualità migliori: per arginare i migliori giocatori delle franchigie avversarie, per scatenare la sua immensa forza fisica, propria di un corpo che è palesemente un talento rubato all’NFL, per sfruttare la sua diabolica abilità difensiva.

E chi sarebbe in grado di descriverne al meglio le attitudini, se non lui stesso?

A domanda, risposta: “I wasn’t the best offensive player to play. I’m not the best defensive player to ever play, but there are not that many players that have done it like I have both ways” (“Non ero il migliore in attacco, non sono il migliore in difesa, ma non ci sono tanti che fanno bene entrambe le cose come me”, ndr). Pochi fronzoli, idea chiara e precisa. E dannatamente sensata, tra l’altro.

Ma non è tutto, perché sempre lui aggiunge che “I must say that I’m not a selfish player. I’ll sacrifice everything just to win a ring”, (“Non sono un giocatore egoista, sacrificherò tutto per vincere un anello”, ndr) per il semplice fatto che “I am not thinking about money when I am on the court. All I want to do is win” (“Quando sono in campo non penso ai soldi, tutto ciò che conta è vincere”, ndr).

Metta World Peace, la grinta del guerriero

Metta World Peace, la grinta del guerriero

E quest’aura da guerriero che inevitabilmente viene a crearsi intorno a lui non può che essere rafforzata da alcuni suoi comportamenti, come le urla di esultanza definite da più di una persona “urlo della savana”, o come frasi del tipo “Since all these players from overseas have come into the NBA, they have added flopping. That’s not how we play”. Come a dire: il basket qui da noi è cosa da duri, evitate di renderlo troppo delicato voi intrusi d’oltreoceano.

Ma come altri guerrieri, Metta si sente attaccato da un nemico subdolo e difficile da affrontare, potentissimo nel nostro mondo, comunemente noto come media. Anche per questo (forse) ha deciso di completare la sua personalissima ringkomposition facendo ritorno a New York, perché “The media cannot turn New York against me. They know where I’m from. They know how I grew up. They know what’s in my heart because of all the good things I’ve done here for years. People in New York look past all the other media driven stuff. They see what I’m all about.” (“I media non possono rivoltare New York contro di me. Sanno da dove arrivo, come sono cresciuto e cosa c’è nel mio cuore per tutte le cose belle che ho fatto qui per anni. La gente di New York guarda oltre i concetti pilotati dai media, loro vedono come sono davvero”, ndr).

La fine come il principio, quindi: l’ultima (probabilmente) squadra di Metta World Peace sarà quella della città cui lui è più legato, una città che ancora sa amarlo e proteggerlo, resistendo anche alle insinuazioni dei media. Una città che sa che l’ex Ron Artest, di suo, sarebbe un uomo semplice… ma viene da un posto complicato.

Ora c’è solo una persona in grado di decidere se questa ringkomposition terminerà come una commedia o come una tragedia: viene da Queensbridge, New York, porterà il 51 sulle spalle e di nome fa Metta World Peace.

 

Andrea Segatta