Le Finali NBA del 2015, con buona pace dei tanti appassionati, sono giunte al termine nella nottata di ieri, con la perentoria vittoria di Golden State per 4-2 nella serie.
Senza dubbio un risultato poco sorprendente dopo che, sul finire di Gara 1, l’infortunio di Irving aveva ulteriormente indebolito i Cavs, privandoli così di due dei suoi “Big Three” (Kevin Love era fuori già dalla serie con i Celtics). A stupire è stato, invece, il modo in cui questo risultato è maturato, con Cleveland che è riuscita a rimboccarsi le maniche e, trascinata da un LeBron James quasi sovrumano, a dare del gran filo da torcere a dei Warriors nettamente avvantaggiati dal punto di vista della profondità e qualità del roster. Tanto che, per girare la serie a favore dei suoi, Steve Kerr è stato costretto a tirar fuori dal cilindro una serie di mosse a sorpresa, accentuando ai massimi livelli il tanto amato concetto di “Small Ball”. 

Detto questo, abbiamo voluto puntare i riflettori sui protagonisti di queste vibranti sei partite e, in periodo di esami di maturità, dare i voti ai giocatori scesi in campo.

Golden State Warriors

Stephen Curry e Andre Iguodala, trascinatori di Golden State (Foto: 247sports.com)

Stephen Curry e Andre Iguodala, trascinatori di Golden State (Foto: 247sports.com)

Stephen Curry: 8,5 . Per lui, come per tutti i suoi compagni di squadra, era la prima finale in carriera. E a dir la verità, soprattutto in gara 2 e gara 3, questo forse ha fatto sì che patisse la tensione e la responsabilità di una posta in palio così elevata. Non a caso, le sue prestazioni più opache sono coincise con le due vittorie di Cleveland. La svolta è avvenuta in gara 4, in cui Steph si è sbloccato traendo sicuramente vantaggio dalla mossa di Kerr di ricorrere al quintetto piccolo e quindi dalla maggiore fluidità del gioco dei Warriors, punendo con cinismo la difesa avversaria e guidando la squadra da vero leader. Il culmine, invece, è stato raggiunto in gara 5: 37 punti, di cui 17 (si, avete capito bene, 17!) nel solo quarto periodo, in una performance da assoluto dominatore, tirando con percentuali ai limiti dell’irreale (7/13 da tre punti). In generale, si può dire che Curry sia uscito vincitore da un’autentica prova del “nove”, quella di confermare, e semmai rivendicare, lo strameritato titolo di MVP della Regular Season. Lo ha fatto alla grande, coronando la stagione perfetta con una leadership silenziosa ma tremendamente efficace. È ufficialmente entrato nella schiera di quei campioni per i quali gli “esami” non finiscono mai.
Andre Iguodala: 9,5. Il vero e decisivo fattore di questa serie, l’indiscusso ago della bilancia. Parliamoci chiaro: se qualcuno vi avesse detto, prima delle Finals, “L’MVP sarà Iguodala”, probabilmente gli avreste fragorosamente riso in faccia. Invece, il prodotto da Arizona University ha incantato e sorpreso tutti. Non solo per le statistiche (16,3 punti, 5,8 rimbalzi e 4 assist di media, a fronte dei 7.8, 3.3 e 3 della stagione regolare), quanto per l’impatto incredibilmente importante avuto in ogni gara. Intensità costante, difesa leonina su un incontenibile James, capacità di colpire sia con il jumper dalla media che con il tiro dalla lunga distanza, schiacciate imperiose in penetrazione. Per non dire dell’interpretazione magistrale del ruolo di finto “4” affidatogli da Kerr, occupandosi spesso di condurre in prima persona la transizione d’attacco e aprendo il campo nei pick’n’roll di Curry. Insomma, in una parola, DEVASTANTE. Dopo una stagione vissuta da comprimario, Andre si è espresso ai livelli di quando era la stella di Philadelphia, dove non aveva però mai calcato questo genere di palcoscenici. Segno di grande forza mentale e attributi, ma anche di intelligenza nel saper attendere il momento migliore per esplodere. Il Bill Russell NBA Finals Most Valuable Player Award, consegnatogli dallo stesso Bill al termine di gara 6, è stato tanto meritato quanto inaspettato: Iguodala è infatti, nel corso della storia NBA, il primo MVP delle Finals a non essere mai partito titolare durante la Regular Season. Della serie: esserci quando conta.
Klay Thompson: 4,5. D’accordo, è un giudizio severo che penalizza non poco la seconda bocca da fuoco dei Warriors, uno degli artefici principali della cavalcata verso il titolo, quest’anno definitivamente stabilitosi tra le prime tre/quattro guardie pure dell’NBA in termini di talento e potenziale realizzativo. La ragione del voto, però, sta proprio in questo. Dopo tutto il buono che lo “Splash Brother” Klay ha dimostrato in stagione (21,7 punti a partita, sesto miglior realizzatore della Lega) ci si aspettava senza dubbio molto, ma molto di meglio rispetto a quanto espresso in queste Finals. 15,8 di media perlopiù “gonfiati” dai 34 di gara 2, visto poi il magrissimo bottino di rispettivamente 12 e 9 punti fatto registrare negli ultimi due incontri. Una presenza spesso marginale, con tanti errori al tiro (30% da oltre l’arco) e un’evanescenza preoccupante. Sicuramente il ragazzo avrà tanto da lavorare sui propri limiti caratteriali e l’augurio di tutti, Golden State in primis, è che queste prestazioni così al di sotto delle attese servano da stimolo per una sua maturazione definitiva.
Draymond Green: 7,5. Il cosiddetto “Draymond Factor” è venuto fuori alla lunga, in particolare da gara 4 in poi. Ossia quando Green ha preso le misure alle scelte tattiche di Cleveland, miranti sin da subito a lasciare tanto la palla nelle sue mani piuttosto che in quelle di Curry. L’uomo da Michigan ha impiegato infatti tre partite per capire realmente che andare a giocarsela nel pitturato contro Mozgov e Thompson non lo avrebbe portato lontano. Dalla seconda gara in Ohio in poi, infatti, calatosi con disinvoltura nelle vesti di “5” atipico, è riuscito a migliorare notevolmente le proprie scelte, ricorrendo a tiri in corsa dal centro area e selezionando con più oculatezza i tentativi dal perimetro, senza dimenticare le innumerevoli soluzioni create per i compagni. Risultato? Circa 16 punti di media nelle ultime tre partite rispetto ai 9,6 delle prime tre, con una fantastica tripla doppia in gara 6 condita da 10 assist. Un vero e proprio “fighter” dal quale i Warriors non potranno che ripartire per la prossima annata.
Harrison Barnes: 6. Sempre partito in quintetto, ma mai sopra le righe, fatta eccezione per gara 6 dove ha infilato tre bombe pesanti. Funge da collante e da prezioso elemento di rotazione per la sua squadra. Il problema per lui è stato la fase difensiva, dove il Prescelto lo ha portato più volte a spasso. Giocatore di contorno, ideale nel contesto dei Warriors.

Shaun Livingston, prezioso dalla panchina (Foto: newsday.com)

Shaun Livingston, prezioso dalla panchina (Foto: newsday.com)

Shaun Livingston: 6,5. Aveva un debito enorme con la dea bendata visti gli innumerevoli infortuni che ne hanno caratterizzato la carriera. Questo anello è quindi il giusto premio per un giocatore di rara affidabilità e intelligenza tattica, in grado di mettersi sempre a disposizione dei suoi nei pochi minuti trascorsi in campo e di spendere energie nella metà campo difensiva per arginare LeBron. All around player prezioso.
Festus Ezeli: 6. Davvero difficile giudicarlo appieno visti i pochi minuti concessigli. Lui, però, si è sempre dimostrato pronto quando chiamato in causa, non facendo mancare il solito apporto di muscoli e sostanza. Si è tolto anche lo sfizio di metterne 10 a referto nell’ultimo trionfale match, con due schiacciate in tap-in.
David Lee: 5,5. Rispolverato dal fondo della panchina durante gara 4, ha risposto inaspettatamente presente, con 9 punti e un gran dinamismo. Quella, tuttavia, è stata praticamente l’unica apparizione di un giocatore mai pervenuto nella stagione dei Warriors, dal contratto pesante (15 milioni a stagione) e che quasi certamente verrà ceduto.
Leandro Barbosa: 7. Se c’è bisogno di lottare e tirare fuori le unghie, il brasiliano non si risparmia mai. Si guadagna la propria fetta di gloria, mettendo la sua esperienza al servizio dei compagni e togliendo le castagne dal fuoco in gara 5, in un momento di seria difficoltà a cavallo tra secondo e terzo periodo.
Andrew Bogut: 5. Si intuisce ben presto che non sarà la sua serie. Kerr lo lascia in campo per 25 minuti di media nei primi tre incontri, cavandone fuori ben poco. Dopodiché lo relega al ruolo di spettatore non pagante. Pesce fuor d’acqua.
Coach Steve Kerr: 9. Al suo primo anno in carriera da Head Coach, l’ex tiratore scelto di Michael Jordan realizza il capolavoro portando l’anello a Oakland dopo quarant’anni di digiuno della franchigia. Il successo di Golden State è davvero frutto delle sue scelte, spesso estreme e radicali, e della sua filosofia di basket, improntata a un Run&Gun esasperato. Bravissimo nell’infondere sempre ai suoi giocatori la fiducia nei propri mezzi e la convinzione che, proseguendo nella strada intrapresa, avrebbero vinto la serie. Psicologo sopraffino nel riuscire a tenere alta la motivazione dei suoi dopo l’infortunio di Irving, ma anche stratega di livello nel rivoluzionare l’impianto del suo starting five, passando dal doppio lungo di ruolo al quintetto con soli piccoli in campo in gara 4, la vera chiave di volta delle Finals. Ottima poi l’impostazione della fase difensiva: l’aver piazzato Iguodala sulle tracce di James, le tempistiche spesso impeccabili dei raddoppi sul Prescelto, i cambi accettati nei pick’n’roll. Questi i suoi principali adeguamenti, alla fine rivelatisi vincenti. Nel complesso, tutta la stagione dei Warriors è da incorniciare: miglior record della Lega, di gran lunga la pallacanestro più spettacolare ed emozionante del pianeta, nonché la dimostrazione, più unica che rara nella storia del basket, che si può vincere anche con un sistema che fa del gioco perimetrale la sua essenza. Non male per un esordiente.

Cleveland Cavaliers

LeBron James non avrebbe potuto fare più di quello che ha fatto (Foto: sports.vice.com)

LeBron James non avrebbe potuto fare più di quello che ha fatto (Foto: sports.vice.com)

LeBron James: 9.5. “Sono tranquillo perché penso di essere il migliore al mondo”. Con queste parole, al termine di gara 5, James aveva apostrofato la stampa che lo interrogava sulle sensazioni per il prosieguo della serie. Come dargli torto, verrebbe da dire, a prescindere dal risultato poi ottenuto. Al termine di questa finale, la sesta della sua carriera, LeBron ha zittito anche il più ostinato dei suoi detrattori, dimostrando, ammesso che ve ne fosse bisogno, come attualmente le sue parole corrispondano alla sacrosanta verità. Il Prescelto in queste sei partite ha dovuto combattere praticamente da solo sia contro l’enorme sfortuna abbattutasi sui suoi Cavs, sia contro una macchina da guerra dalle ampie rotazioni quale è Golden State, pronta a triplicarlo e a cambiare costantemente marcatura pur di escluderlo dal gioco. Ciò nonostante, le sue performance sono state da capogiro: migliore, tra tutte le due squadre, per punti segnati (35,8), rimbalzi (13,3) e assist (8,8), due triple doppie messe a segno e tanta, tanta leadership. In alcuni frangenti si è quasi dubitato sul fatto che fosse umano, considerando quello che è riuscito a portare alla causa senza praticamente mai abbandonare il campo (alla fine, 45,7 minuti giocati per gara, un’enormità). È vero, forse in qualche circostanza avrebbe potuto forzare meno. Ma come biasimarlo visti i compagni che alla fine si è ritrovato attorno, commoventi tanto quanto lui nel non mollare nemmeno un centesimo, ma prigionieri dei loro evidenti e noti limiti? E soprattutto, è mai esistito un giocatore “totale” come il Prescelto, capace di segnare da tre punti, come di arpionare un rimbalzo dietro l’altro e, ancora, di dispensare assist a ripetizione? La stretta di mano con Curry nel finale in gara 6 sa tanto di premessa a una futura rivincita. Perché, statene certi, l’anno prossimo King James ci riproverà, stavolta magari con un Irving e un Love in più a supportarlo. E allora ne vedremo delle belle.
Tristan Thompson: 8. Un leone. Anche lui è una gradita sorpresa di queste Finals, considerando anche che ha solo 23 anni. Ha lottato incessantemente su ogni pallone (13 rimbalzi di media a partita) e non ha mai avuto paura di gettarsi nella bagarre, uscendone anzi spesso vincitore. Ottime premesse per un giovane lungo che ha sicuramente ampi margini di miglioramento offensivi, visto che oggi le sue soluzioni sono prettamente punti ottenuti da scarichi dei compagni nel pitturato e da rimbalzi d’attacco. In ogni caso, chapeau al gladiatore Tristano.
Timofey Mozgov: 8. A parte LeBron, le cose migliori in casa Cavs le hanno prodotte i lunghi. Al pari del suo compagno di reparto, anche il nativo di San Pietroburgo ha elevato notevolmente il suo livello di rendimento, producendo una solidissima serie da 14 punti e 7,5 rimbalzi a gara, con il picco dei 28 realizzati nella sfortunata gara 4. Le scelte tattiche dei due allenatori hanno impattato su di lui, paradossalmente in due sensi opposti. Da un lato quando si è ritrovato senza avversari che ne potessero contrastare la fisicità in area (gara 4 appunto), dall’altro quando è stato volutamente lasciato in panca da coach Blatt per adeguarsi al dirimpettaio Kerr, facendo posto a un quintetto piccolo e dinamico (gara 5, in cui Mozgov è restato in campo per soli 10 minuti). Alla fine, in tutto questo avvicendarsi di scelte tattiche diametralmente opposte, Timofey ha offerto prestazioni costanti, al di sopra dei suoi standard, dimostrando di meritare un posto in quintetto in quel di Cleveland, dove l’anno prossimo si troverà sicuramente a fronteggiare la concorrenza del redivivo Varejao.
Matthew Dellavedova: 7. L’australiano è l’eroe incontrastato delle due vittorie ottenute dai Cavs. In gara 2 grazie alla sua difesa impeccabile su Curry e in gara 3 grazie ai 20 punti messi a segno agendo da secondo violino nell’attacco dei suoi. Eppure, quando tutti avevano un po’ incominciato a crederci, Matthew è rientrato nei ranghi, ritornando nelle successive tre gare a incarnare il ruolo di sparring partner quale effettivamente era e resta. Rimane comunque il fatto che, senza dubbio, sia riuscito a dare quel qualcosa in più che Blatt gli aveva per necessità chiesto, con grinta e caparbietà, due doti che potrebbe vendere a tonnellate.

Ennesima occasione sprecata per JR Smith (Foto: wkyc.com)

Ennesima occasione sprecata per JR Smith (Foto: wkyc.com)

JR Smith: 4,5. Ennesima occasione sprecata per uno dei talenti più lampanti, ma anche sregolati, in circolazione nell’NBA. Arrivato a stagione in corsa dai disastrati Knicks, era stato ingaggiato con il compito di arricchire in termini di punti nelle mani e imprevedibilità una squadra già di per sé molto attrezzata. Il compito è stato eseguito così e così dal mai banale JR, che però, nel momento di maggior bisogno, ossia con l’infortunio di Kyrie Irving in gara 1, ha clamorosamente toppato. Per di più in maniera inspiegabile, visto che le possibilità c’erano tutte: più palloni giocabili, più tiri da prendere, scarichi invitanti da parte di LeBron. Invece Smith, per l’ennesima volta nella sua carriera, ha deluso le aspettative in lui riposte, regalando non più di qualche fiammata e scomparendo dal campo in quella che sembrava essere la sua serata, ossia gara 5, chiusa con 14 punti nella prima metà di gioco, ma un terribile “zero” nei restanti due quarti. Lo show di gara 6 è avvenuto a buoi scappati da ormai troppo tempo per essere ritenuto convincente. Un vero peccato per Cleveland e per un giocatore che non riesce proprio a diventare un vincente, sebbene ne abbia, eccome, le credenziali.
Iman Shumpert: 5. Costretto a restare in campo molto di più degli abituali 20/25 minuti della stagione regolare, rivela come una finale NBA non sia proprio il suo teatro, anzi. Apparso quasi impaurito e incapace di essere protagonista in partite così importanti, è stato in campo semplicemente per mancanza di alternative. Non è un cuor di leone e probabilmente non lo sarà mai. La cosa più grave è che non sia riuscito nemmeno a eseguire il compitino, ovvero cercare di dare una pericolosità maggiore dal perimetro raccogliendo gli scarichi del prescelto.
James Jones: 6. Classico “6 politico”, visto che lo abbiamo potuto a malapena scorgere nei rari momenti in cui è stato sul terreno di gioco.
Coach David Blatt: 7.5. Partiamo dal presupposto che è stato già un miracolo che i Cavaliers siano arrivati a gara 6 nelle condizioni in cui erano e che in questo ci sia molto del lavoro del loro coach. A quel punto l’unica scelta era mettere James nelle condizioni migliori per giocarsela, lasciandogli carta bianca, e agire sulle motivazioni degli altri superstiti. David Blatt ha eseguito tutto ciò alla perfezione, ottenendo il massimo dai suoi, che hanno lasciato l’anima in campo a ogni apparizione. Quello che gli rimproveriamo è semmai una lieve mancanza di coraggio. Perché non allargare la rotazione scommettendo qualche minuto in più su Mike Miller, uno che di finali ne aveva già giocate, per di più al fianco di James? Perché nell’ultimo match rinunciare così presto, forse per effetto delle numerose critiche, alla small ball proposta in gara 5, che, fin quando LeBron aveva avuto energie da spendere, si era rivelata proficua? Tolti questi interrogativi, il lavoro dell’ex Maccabi e Benetton Treviso è stato encomiabile. Anche lui al primo anno su una panchina NBA, con il difficile compito di aggregare una schiera di campioni, era riuscito a trovare la chimica giusta dopo un avvio di stagione complesso, dal momento che molti davano i suoi Cavs per i veri favoriti nella conquista del titolo. La sfortuna ha impedito che ciò accadesse, e ora Blatt dovrà essere in grado di trasformare la delusione legittima dei suoi in energia positiva, per provare a essere i seri candidati all’anello 2016.