Arrivati a metà stagione, è tempo di stilare i primi bilanci nella NBA. Analizziamo dunque le 30 squadre protagoniste, cominciando dalla Central Division:

Derrick Rose (foto AP)

CHICAGO BULLS, 27W-8L (Davide Sardi)
Eccellente stagione fin qui per i Bulls, con 27 vittorie nelle prime 35 partite e il testa a testa con gli Heat per la leadership della Eastern Conference. Non sembra cambiato molto nella squadra di Thibodeau che, come l’anno passato, continua a collezionare numeri importanti in difesa, che la collocano tra le migliori sia per punti subiti che per percentuali concesse. Poi in attacco c’è sempre un uomo a trascinare gli altri: si chiama ovviamente Derrick Rose (21.8 punti, 7.7 assist), potenzialmente immarcabile per le clamorose capacità di controllo di palla, il micidiale crossover che sbilancia gli avversari, i cambi di velocità per andare al ferro e anche un tiro da fuori dignitoso, ma che è ancora l’arma meno efficace dell’arsenale. Le sue cifre sono tutte in leggero calo rispetto all’annata da MVP, anche perché risentono dei continui problemi fisici, soprattutto alla schiena, che l’hanno già costretto a saltare ben 10 partite. Chicago ne ha vinte 7, dimostrandosi nel complesso solida anche in emergenza, soprattutto perché Deng è ormai una garanzia (prima convocazione all’All-Star Game) ma proprio senza il suo leader ha collezionato le sconfitte peggiori, su tutte una rara quanto brutta caduta interna contro i Nets. Partita bene, 3 sconfitte nelle prime 21, ha avuto qualche passaggio a vuoto nell’ultimo mese con 5 sconfitte dal 25 gennaio ad oggi, pesante quella con Philadelphia, di misura ma significative anche quelle contro Celtics e Heat. Battute d’arresto comunque comprensibili in una stagione così accorciata. Ma mai due sconfitte in fila, ed è un dato che dice molto della forza mentale di questa squadra, guidata da un coach che pretende sempre tanto dai suoi giocatori e non esita anche a lasciare fuori quelli più importanti quando li vede scarichi o non lo soddisfano. Molte cose sembrano essere rimaste simili all’anno passato, anche perché l’uomo preso per colmare la maggior lacuna del roster, cioè il ruolo di guardia titolare, non ha praticamente mai inciso. Fuori per ripetuti guai fisici, Richard Hamilton sta segnando sì più di 14 punti di media, ma ha giocato meno di un terzo delle partite totali. La sorpresa è un CJ Watson in doppia cifra di media, grazie soprattutto al tiro da tre, ma anche lui fuori in 12 gare. Così c’è stato spazio anche per John Lucas e in due momenti diversi per un Mike James che continua a dimostrare grande spirito di adattamento e motivazioni per strappare un contratto fino al termine della stagione. Rimane l’incognita di un reparto lunghi non profondissimo, ma se la giocheranno per andare fino in fondo.

Danny Granger

INDIANA PACERS, 21W-12L (Alessio Simeone)
Stagione al momento in linea con le aspettative di inizio torneo per i Pacers. Sesto posto a est e secondo della Central Division, alle spalle dei Chicago Bulls. Dietro ai buoni risultati sin qui ottenuti c’è il lavoro di coach Vogel, che ha beneficiato del positivo mercato imbastito da Larry Bird. George Hill, ex-Spurs, con 9 punti di media nelle sue 20 apparizioni si sta dimostrando un ottimo rinforzo dalla panchina, in grado di far rifiatare il quintetto base in caso di necessità. E’ però l’inserimento tra i primi cinque di David West che ha permesso a Indiana di fare un salto di qualità ancor di più verso l’alto. L’ala ex Hornets si è integrata perfettamente nei meccanismi di coach Vogel, sempre basati intorno al collaudato asse GrangerHibbertCollison: partendo sempre titolare produce medie di 12.4 punti e 6.8 rimbalzi a partita. Prezioso fino a questo momento anche l’apporto del suo ricambio, ossia Tyler Hansbrough che dalla panchina garantisce 9.4 punti e 4.8 rimbalzi di media. Gli unici punti interrogativi sugli Indiana Pacers riguardano la tenuta fisica e l’inesperienza, figlia della bassa età media. Quanto ancora la squadra di Vogel potrà reggere i ritmi forsennati di una stagione così concentrata e atipica? Il calo c’è già stato, infatti, dopo un ottimo 14W-6L tra dicembre e gennaio, i Pacers sono entrati in un febbraio nero dove hanno collezionato fino ad ora 6 sconfitte in 13 gare. Le ultime vittorie, anche se contro avversarie abbordabili, hanno ridato serenità alla truppa di Vogel. Per verificare comunque se si è trattato solo di un periodo, la pausa per l’All-Star Game può essere utile per far recuperare energie ai ragazzi dell’Indiana (solo Paul George, infatti, sarà impegnato nella tre giorni di Orlando) per entrare a mente libera nel rush finale della stagione che li può vedere ancora protagonisti. Migliorare (e di molto) l’ottavo posto finale dello scorso anno e avere voce in capitolo anche nei playoffs, provando a scalare la ripida montagna del primo turno possono essere, per Indiana, molto di più di semplici sogni.

Kyrie Irving

CLEVELAND CAVALIERS, 13W-18L (Davide Sardi)
L’ultima disastrosa annata sembra solo un lontano ricordo. A Cleveland hanno cominciato a rivedere la luce in fondo al tunnel. E il motivo principale ha un nome e un cognome: Kyrie Irving. La prima scelta assoluta sta convincendo anche i più scettici, con grande personalità, capacità di correre in contropiede e andare al ferro, un tiro da fuori migliore e più continuo delle aspettative. Ed è uno dei più seri candidati al premio di “Rookie of the Year”, perché è già stato decisivo in diverse occasioni, produce oltre 18 punti di media col 41.5% da tre, e può ancora migliorare, in particolare nella lettura di certe situazioni, nell’efficacia come passatore e nell’impatto difensivo. 5.1 assist di media non sono tantissimi, seppur in parte giustificati dal fatto di non avere estrema abbondanza di realizzatori al proprio fianco (le cifre offensive di squadra sono decisamente rivedibili). A parte un Jamison fin qui solido, infatti in doppia cifra media ci sono solo Varejao – cresciuto fino alla doppia-doppia, prima della frattura del polso – e Sessions, che è la point-guard di riserva, ma ha saputo trovare minuti anche al fianco di Irving sfruttando gli infortuni che hanno limitato Anthony Parker e Daniel Gibson. E’ un buonissimo talento che però molte voci di mercato darebbero in partenza. Aumentato fino ai 10.1 punti l’impatto di un Alonzo Gee molto meno esitante rispetto alla prima stagione, è ancora presto per dare giudizi definitivi su Tristan Thompson che è un buon atleta con istinto per il rimbalzo ma non ancora prontissimo per un ruolo di primo piano. La delusione vera è Omri Casspi, che non sta per nulla lasciando il segno e molti tifosi rimpiangono di aver sacrificato per lui l’apprezzato JJ Hickson. Squadra ancora in fase di assestamento, ma comunque molto cresciuta, che difende meglio del previsto (concede meno punti di tutti in contropiede, poco meno di 10 a partita) e in generale non gioca male nei quarti periodi. Chiaramente andrà dove riuscirà a portarla Irving, perché il talento complessivo del roster non è eccelso ed il bilancio è molto negativo quando tira sotto il 44%. Nel rendimento dell’ex Duke va dato credito al lavoro di coach Byron Scott che in carriera ha sempre avuto buoni rapporti e ottenuto eccellenti risultati dai suoi playmaker. Molta alternanza di risultati, finora c’è stato solo un grosso periodo di difficoltà, con 7 sconfitte – un paio molto pesanti – in 9 gare nella parte centrale di gennaio, l’obiettivo playoffs pare eccessivo ma in un est abbastanza incerto – e di livello non entusiasmante nella seconda fascia – potrebbe non essere impossibile.

Brandon Jennings (foto AP)

MILWAUKEE BUCKS, 13W-20L (Alessio Simeone)
La rincorsa dei Bucks alla postseason è in linea con i progetti iniziali, ma attualmente è costellata da alcune incognite. La prima riguarda il gioco, che dipende fortemente dalla propria stellina Brandon Jennings (18.4 punti e 5.2 assist di media a partita), che però potrebbe paradossalmente diventare il grande problema di Milwaukee. Infatti, dopo un’eccellente partenza, non sta più rendendo come ad inizio stagione e sembra essere stato colpito da quei bizzarri “mal di pancia” che girano per la lega ed arrivano all’improvviso a giocatori scontenti della propria collocazione e desiderosi di trovare una piazza più prestigiosa. Attorno a lui però, ci sono ancora Delfino (9.6 punti con il 40.7% dal campo per l’ex Fortitudo), Gooden (adattato da centro) con 12.7 punti e 6.2 rimbalzi e il neoacquisto Stephen Jackson (undicesima stagione tra i pro) che segna 10.5 punti ma saprebbe essere ancora più importante, se solo avesse provato a calarsi maggiormente nella realtà di Milwaukee. Per i Bucks, le sorprese arrivano dalla panchina e si chiamano Ilyasova e Dunleavy. Il turco ex Barça, sta raccogliendo 10.4 punti e 8.6 rimbalzi di media, giocando all’occorrenza da unico lungo, e oscurando il più quotato Mbah-a-Moute. Il prodotto di Duke invece, viaggia a 10.3 punti e 3.1 rimbalzi di media. Entrambi stanno cercando di mascherare la seconda grande incognita di Milwaukee, l’assenza di Andrew Bogut. Il centro australiano, fuori dal 25 gennaio causa frattura della caviglia (data di rientro sconosciuta, ma non prima di fine marzo), è nuovamente alle prese con una stagione tormentata e per migliorare il suo record, Milwaukee ha bisogno di lui, soprattutto in fase difensiva (fondamentale che Skiles ha sempre curato tanto), dove i Bucks soprattutto in sua assenza concedono troppo. La qualificazione ai playoff dipenderà appunto da come Skiles riuscirà a gestire l’assenza di Bogut e la “maledizione” infortuni che da tempo aleggia sul Bradley Center ma specialmente dalla voglia di Jennings di ritornare un fattore per Milwaukee, come nel 2009/2010. Per ora Milwaukee è ancora in linea di galleggiamento, ma con un Jennings demotivato la postseason sarà destinata per il secondo anno consecutivo ad essere affare altrui.

Rodney Stuckey

DETROIT PISTONS, 11W-24L (Davide Sardi)
Doveva essere un campionato di ripartenza e dunque non sorprende vedere i Pistons nei bassifondi della Eastern Conference. La squadra ha solamente iniziato la propria ricostruzione, affidandosi ad un coach giovane ma già di buona esperienza come Lawrence Frank che di certo non sta lasciando nulla di intentato. Solo che il roster è nel complesso giovane, è molto diverso da quella vincente del recente passato e, con ogni probabilità, anche da quello che potrebbe tornare a lottare per vincere in futuro. In prospettiva, quantomeno, hanno già individuato un elemento che può essere un cardine della franchigia per diversi anni. Ovvero quel Greg Monroe (16.7 punti e 9.8 rimbalzi, 19 doppie-doppie) che al secondo anno sta impressionando per gli incoraggianti progressi compiuti e il livello di solidità raggiunto in mezzo all’area, tanto che molti addetti ai lavori lo definiscono già ora “quasi” da All-Star Game. Joe Dumars si augura di poter dire presto la stessa cosa anche di Brandon Knight, il rookie da Kentucky che non è un vero playmaker, ma sta cercando di imparare a farlo sul campo e, pur con qualche passaggio a vuoto, non sta nel complesso sfigurando. In attesa di capire meglio cosa potrà diventare la prima scelta dell’ultimo draft, è già evidente come attorno a loro bisognerà presto fare un po’ di ordine, perché la squadra attuale concede troppo nella propria metà campo, non ha guardie di stazza né particolari specialisti del settore nel backcourt. Infatti ha grosse difficoltà a contenere le penetrazioni e gli uno-contro-uno dei tiratori e non casualmente è la seconda peggior difesa in assoluto per percentuale concessa sia dal campo (47.4%) che da tre punti (37.6%). Neppure l’attacco sprizza per qualità nell’esecuzione, ma quantomeno con Knight che libera Stuckey da compiti di regia (in realtà si stanno alternando nei due ruoli) e gli consente di concentrarsi su quello che sa fare meglio, cioé canestro, c’è una coppia di guardie di buon talento e offensivamente interessante, che però soffre molto dietro. E la situazione non cambia neppure quando entra Ben Gordon, uno dei pochi elementi produttivi di una panchina ricca di contratti ingombranti ma povera di talento e incisività – nonostante Jerebko offra lampi di classe purissima e Daye continui ad essere un prospetto intrigante – soprattutto da quando, inevitabilmente, Maxiell è stato promosso in quintetto a danno del venerabile Ben Wallace per affiancare Monroe e un discontinuo e declinante Prince. Inizio di stagione da incubo, con appena 4 vittorie nelle prime 23 partite (un paio di serie negative lunghe: la peggiore tra il 4 e il 12 gennaio, 6 sconfitte con uno scarto medio di 18.2 punti) e alcuni rovesci pesanti (-27 a New York, -24 a Chicago), Detroit ha visto come una salutare boccata d’ossigeno l’arrivo del mese di febbraio, che ha portato in dote 7 vittorie su 12 con cui ha ridato un minimo colore ad una classifica davvero molto pallida. Squadra in miglioramento, ma difficile credere ad una svolta completa della stagione.