Kobe Bryant

Kobe Bryant

Con un tiro libero realizzato in un’anonima notte di inizio novembre del 1996, Kobe Bryant ha segnato il suo primo canestro nella NBA. Il teatro era il Madison Square Garden di New York, l’avversario erano i  Knicks, QUEL Madison Square Garden e QUEI  Knicks che hanno fatto da sparring partner involontari ad alcune delle più grandi imprese personali del #24 di giallo-viola vestito e del suo idolo, un certo Michael Jordan la cui presenza, il cui metro di paragone, aleggerà sempre in maniera più o meno velata in queste righe. Flash forward velocissimo, un salto in avanti lungo quasi 19 anni, in un’altra anonima notte, stavolta di metà dicembre del 2014. Il teatro è meno nobile rispetto al Garden, il Target Center, l’avversario un filo meno prestigioso rispetto ai Knicks, i Minnesota Timberwolves del presunto nuovo fenomeno, Andrew Wiggins. Kobe Bryant va in lunetta, realizza un tiro libero, un altro tiro libero significativo della sua carriera, sorpassa MJ nella classifica marcatori ogni epoca nella storia della lega, 32.293 contro 32.292. L’allievo supera il maestro! Il mondo NBA lo celebra, i T’wolwes fermano la partita per consegnarli il pallone con cui ha firmato l’impresa, il suo coach Byron Scott, colui che nell’anno da rookie ne ha seguito passo dopo passo la formazione cestistica e non, lo abbraccia calorosamente. Kobe appare sorpreso, quasi commosso, certamente fiero di quanto ha appena realizzato. Sà di aver fatto qualcosa di grande, è conscio che, se se ne fà una mera questione di punti segnati, nei libri di storia il suo nome, Kobe Bean Bryant, comparirà prima di Michael Jeffrey Jordan.

Un costante metro di paragone 

Per chi ha da sempre cercato di emulare il più possibile il #23, fin da ricalcarne quasi alla perfezione le movenze in campo, le gesta durante le pause di gioco, perfino le mimiche facciali e le esultanze dopo i titoli vinti, beh, quanto andato agli archivi in quell’anonima notte di due giorni fa contro Wiggins e compagni, è un qualcosa in più di un mero dato statistico, di uno dei tantissimi record personali da ricordare una volta appese le scarpe al chiodo. Non sappiamo se nell’istante in cui segnò il primo punto nella lega, Kobe pensasse davvero un giorno di poter mettere la freccia, sfrecciare in corsia di sorpasso e guardare dallo specchietto retrovisore  il suo mito. Se, però, riavvolgiamo ancora una volta indietro il nastro, se torniamo con la memoria a 17 anni fa, al 17 dicembre del ’97, giorno di Chicago Bulls-Los Angeles Lakers, ecco che in qualche modo la genesi del sorpasso potrebbe aver avuto inizio proprio a partire da quel giorno. Prima della partita, infatti, un Bryant per nulla intimorito dal fatto di trovarsi di fronte il suo idolo di sempre, battezzò uno dei primissimi incontri tra i due con queste parole: “Sai anche tu che posso farti il culo quando voglio 1 contro 1”. Cosa? Chi mai fino a quel momento, Isiah Thomas a parte…, aveva osato mostrare cotanta sfacciataggine, quasi arroganza nuda e cruda, verso sua maestà Michael Jordan? Nessuno, lo sappiamo e lo sapete bene.

Never give up

Se ci fosse uno slogan più adatto di altri per identificare al meglio a livello mentale cosa abbia spinto Bryant in tutti questi anni di carriera, sceglieremmo senza dubbio quello di cui sopra, quel “never give up”, “quel non arrendersi mai” causa ed effetto di cadute, trionfi, critiche, elogi, partite da dimenticare e prestazioni già consegnate all’olimpo del basket, che hanno reso Kobe uno dei giocatori più seguiti, in positivo ed in negativo, da tutta la critica mondiale, a prescindere dai tanti detrattori e dai più numerosi ancora estimatori. In quel never give up si racchiudono partite sbagliate, contratti firmati a cifre da capogiro anche a fronte di infortuni e ad una età ormai “avanzata” che ne pregiudicheranno con ogni probabilità le velleità di successo future, titoli sfumati per gelosie personali (citofonare Shaquille O’Neal e/0 Phil Jackson per ottenere le conferme del caso), incapacità quasi cronica di rendere davvero i compagni migliori come tende a fare LeBron James, tanto per fare un nome  a caso, data la difficoltà ad accettare l’assunto che molti dei suoi compagni non possano suonare lo stesso (suo) spartito. In quel never give up, però, in quell’ostinata ossessione di provare ad essere sempre e solo il miglior giocatore possibile, in quella semi-ossessiva volontà di essere messo sui libri di storia nello stesso capitolo riservato a Michael Jordan, si celano anche imprese memorabili, vittorie ottenute con la precipua volontà di dare tutto fino all’ultimo secondo, di segnare il canestro della vittoria sulla sirena anche al crepuscolo di gare nelle quali fino al canestro decisivo lo avremmo preso tutti a calci nel sedere. E poi, senza quella voglia di andare sempre oltre l’avversario, non sarebbero arrivate le cose per lui più importanti, quei 5 titoli, tre insieme al già citato O’Neal, gli altri due recitando da attore iper-ultra-stra- protagonista che faranno di Bryant uno dei più grandi giocatori di basket che si siano mai visti.

Quei 5 titoli però…

Proprio nel numero di anelli vinti si racchiude l’ultimo anello di paragone tra il #24 ed il #23. Quel confronto che lo stesso Bryant ha sempre ritenuto essere fondamentale per lo sviluppo del suo gioco e della sua carriera. Per poter essere davvero equiparato a Jordan, lo stesso Kobe ha sempre dichiarato che avrebbe dovuto vincere almeno gli stessi anelli vinti di MJ. Se la matematica non è un’opinione, però, i sei titoli inanellati da Jordan con i Bulls sono di più di quelli vinti dal nostro con i Lakers. Difficilmente, come già accennato in precedenza, Bryant potrà davvero mettersi al dito il sesto anello visto le difficoltà attuali dei losangeleni dovute in parte anche al rinnovo contrattuale da 48 milioni per due anni firmato proprio dal Black Mamba. Nemmeno la sua incrollabile fede in se stesso potrà fare miracoli e rendere la sua squadra, salvo clamorosi quanto improbabili stravolgimenti di roster, una contender nel prossimo futuro. Non vincerà un altro titolo, forse, ma da quell’anonima notte di novembre del 1996 fino all’altra sera a Minneapolis, di strada Bryant ne ha fatta tanta, lasciando un segno indelebile nella lega. Non scalzerà mai Michael Jordan nella classifica (del tutto opinabile da chiunque) su chi tra i due sia stato il migliore ma, in fin dei conti, 32.293 punti and counting da quel primo libero segnato al Madison Square Garden contro i New York Knicks bastano e avanzano per annoverare il natìo di Philadelphia tra gli eletti del gioco. Intanto lui, c’è da scommettersi,avrà già messo nel mirino Kareem Abdul Jabbar per la sua personale ed ennesima operazione sorpasso per quel che concerne i punti segnati. Don’t give up, Kobe!