Tim Duncan (Ronald Martinez/Getty Images)

Tim Duncan (Ronald Martinez/Getty Images)

Un canestro come tanti in un NBA friday come tanti altri. Staples Center di Los Angeles, California, San Antonio Spurs – Los Angeles Lakers. Mancano poco più di due minuti alla fine del 2° quarto quando Tony Parker brucia Jeremy Lin in penetrazione, scarica per Timothy Theodore Duncan che, con la consueta e regale classe, mette a segno un semigancio per il provvisorio 43-35 Spurs. Un canestro come tanti altri, per un giocatore come (quasi) nessuno mai. Quello appena segnato dal nostro è, infatti, il canestro che permette a “The big fundamental” di “scollinare” quota 25.000 punti segnati in carriera, impresa riuscita soltanto ad altri 19 iniziati del gioco. Non ce ne vorranno gli amanti dei numeri che nel basket sono a dir poco rilevanti, ma stabilire la grandezza di un giocatore attraverso le mere statistiche ci sembra artificio a dir poco astratto e fuorviante. Nel caso di Tim Duncan ancora di più, aldilà di quanto abbia segnato, a prescindere dal numero di titoli vinti in carriera o da quante stoppate e/o rimbalzi abbia totalizzato. No, contano di più altri aspetti per misurare la grandezza di un giocatore, contano di più le sensazioni che suscita in chi gioca insieme o contro di lui, in chi lo allena, in chi lo guarda. Se in diciotto stagioni c’è una maggioranza bulgara che ne loda la capacità di restare ad alti livelli e lo indica come uno tra i migliori ogni epoca, se da quel draft del 1997 Gregg Popovich ne ha fatto la ragione principale e imprescindibile dei suoi successi passati, presenti e, chissà, futuri, se San Antonio è da quasi due decadi la migliore squadra per percentuale di vittorie tra tutti gli sport professionistici americani, capirete che si, i 25.000 punti raggiunti dal caraibico sono rilevanti, ma non spiegano quasi nulla della sua unicità, della sua capacità di dominare anche a dispetto di ginocchia ormai logorate, di essere determinante contro avversari molto più atletici e fisici di lui.

In una NBA sempre più propensa ad esaltare il lato più spettacolare del gioco, in una lega sempre più esposta verso l’esterno, il #21 ha saputo restare sempre se stesso, fedele ad una riservatezza ai limiti del maniacale e, soprattutto, concentrato quasi unicamente su quanto debba fare sera dopo sera in campo, e pazienza se su Instagram, Facebook o Twitter non brilli di luce propria. Conterà forse qualcos’altro che non siano cinguettii spesso irrilevanti o post il cui contenuto è quantomeno privo di qualsivoglia interesse? Non vorremmo, però, far passare l’assunto che riservatezza sia sinonimo di successi ed esuberanza da social network e derivati o più prettamente tecnica sia vettore di insuccessi e minore competitività, tutt’altro. Vogliamo soltanto evidenziare come vi sia una stretta correlazione tra il Duncan uomo ed il Duncan giocatore, tra quello che potrebbe essere scambiato per il vostro vicino di casa e tra quello che scende in campo pensando solo a cosa sia meglio per se stesso e per la squadra, ad un blocco fatto nel modo e nel momento giusto, ad una stoppata che non finisca in tribuna ma sia potenzialmente propedeutica ad un contropiede, ad un’apertura a due mani previo rimbalzo catturato fatta per permettere al compagno due punti comodi più che pensata per finire su Sports Center.

Il titolo, il quinto della carriera, con il quale si è laureato campione NBA lo scorso giugno, crediamo riassuma al meglio l’essenza del giocatore in questione. Non ha vinto il premio da MVP, non ha preteso di essere il fulcro della squadra, ha recitato invece alla perfezione nel ruolo di alter ego, un perfetto Robin per Batman (ed MVP) Kawhi Leonard, un fondamentale uomo-squadra che con le innate doti cestistiche ha saputo essere decisivo senza prendersi il centro della scena come in altre NBA Finals finite in gloria per i suoi Spurs. Proprio il quinto titolo vinto in estate ed inseguito per lunghi 7 anni da quel 2007 a Cleveland, è arrivato a suggello ultimo e probabilmente definitivo su di un percorso che in 18 stagioni ha visto trionfi (tanti), frenate (altrettante) e momenti, come quelli immediatamente successivi alle eliminazioni ai Playoffs contro i Phoenix Suns nel 2010 o contro gli Oklahoma City Thunder in una finale della Western Conference in cui Duncan e compagni vincevano la serie 2-0, in cui, obiettivamente, neanche i più ottimisti avrebbero previsto un ritorno ai vertici di un giocatore francamente (ma solo apparentemente) logoro e di una squadra ormai usurata da anni e anni spesi ai vertici della lega. E’ quasi fisiologico per chi come lui è arrivato in questo momento storico della carriera, fare incetta di record statistici e traguardi personali e collettivi. Meno fisiologico è se si pensa a come questi siano arrivati, a quanto lavoro e dedizione vi siano dietro, a quante volte si è giustamente pensato che padre tempo avesse avuto definitivamente  la meglio senza possibilità di appello sulle abilità del giocatore che però, è ancora in grado di sorprendere segnando un canestro come tanti altri, in un NBA friday come tanti altri per due punti di 25.000 e passa come tanti altri. Un grande traguardo per una leggenda, al di là dei numeri.