Dal nostro corrispondente

In questa compressa ed anomala regular season, poche squadre hanno fatto parlare di sé come gli Orlando Magic. Purtroppo, però, tutto questo vociferare attorno alla franchigia della Florida centrale è da collegare più ad eventi accaduti fuori dal campo, che non sul nuovissimo parquet incrociato dell’Amway Center.

Un’emblematica immagine di Dwight Howard, protagonista di una stagione alquanto discussa (Foto Sam Greenwood/Getty Images)

La telenovela – o meglio, le telenovele – legate al nome di Dwight Howard hanno ininterrottamente accompagnato l’intera stagione di Orlando, tanto da fare quasi passare in secondo piano l’altra squadra dello stato, quella Miami solitamente così tanto reclamizzata e padrona dei titoli sportivi di quest’angolo d’America (e non solo).

Ma andiamo con ordine. Già la scorsa off-season in casa Orlando è alquanto movimentata, e sin dai mesi estivo-autunnali del lockout tutte le attenzioni si rivolgono a Dwight Howard e alla sua presunta intenzione di lasciare la Florida per altre, più attraenti e “mediatiche” destinazioni – con la Los Angeles di Kobe Bryant e Jack Nicholson e la New Jersey/Brooklyn di Deron Williams e Jay-Z viste come le più probabili mete di approdo.

Tutte queste voci rimangono però tali, e non portano a nulla di concreto. L’inedita partenza natalizia della stagione vede infatti un Howard ancora di bianco-nero-blu vestito. Non sono tuttavia in pochi coloro che ancora sperano in un’imminente partenza del #12, onde evitare che ad Orlando si giunga in una situazione alla LeBron James, Chris Bosh o che dir si voglia – insomma, di ritrovarsi una squadra lacerata dalla partenza della propria superstar, senza che niente di qualitativo si possa ricevere in cambio (vedi, appunto, Cleveland e Toronto).

Nonostante il via alle danze – tra l’altro cominciate in maniera del tutto positiva dai Magic, viste le 10 vittorie nelle prime 13 partite – il rumore attorno alla sua posizione contrattuale non accenna a calare. In prossimità della famosa trade deadline di metà marzo la febbre “dwightiana” sale ancora a livelli vertiginosi, calmata solamente dall’inaspettata decisione – giunta al termine di un estenuante tira e molla tra il suo agente Dan Fegan e i dirigenti della squadra – di non esercitare l’opzione che gli avrebbe permesso di diventare unrestricted free agent nell’estate ormai alle porte.

Stan Van Gundy, il cui ruolo è stato messo più volte in discussione negli ultimi mesi (Foto Doug Pensinger/Getty Images)

Una mossa, questa, che suscita comprensibilmente un mare di reazioni, più o (soprattutto) meno favorevoli ad Howard. La comune sensazione è, infatti, che in questo modo il nativo di Atlanta abbia voluto più che altro accontentare dirigenza e tifoseria locale, legandosi però alla squadra – e, come si suol dire in questi casi, al “progetto” – in una maniera che non dà nessun tipo di garanzia futura; ma che, anzi, molto probabilmente non fa che rimandare di alcuni mesi il tam-tam mediatico già sorbito nel recentissimo passato.

Da sottolineare anche il fatto che lo stesso atteggiamento in campo tenuto in questi mesi da Howard non sembra del tutto immune da critiche, e non fa altro che dare ragione a chi non ha visto di buon occhio il compromesso trovato in quella concitata giornata di fine inverno.

Eloquente a tal senso la partita del 28 marzo in cui i Magic sono di scena al Madison Square Garden, dove vengono letteralmente travolti da una delle prime versioni dei Knicks targati Mike Woodson. Risultato a parte (108-86 il punteggio a favore di New York), è l’atteggiamento estremamente distaccato di Howard e Jameer Nelson durante un timeout chiamato da coach Stan Van Gundy ad attirare attenzioni e critiche. I due, invece di partecipare attivamente alla pausa tecnica, si isolano dal gruppo appostandosi in fondo alla panchina, con aria tutt’altro che seria e concentrata, un comportamento non certo auspicabile da parte di quelli che sono ritenuti i due leader della squadra.

Commentando la gara in TV, anche Jeff Van Gundy – fratello di Stan ed ora analista televisivo – non esita ad esprimere al microfono di ESPN la sua immediata, totale delusione per tale atteggiamento. Una frustrazione che l’allenatore di Orlando ha forzatamente provato a contenere nelle dichiarazioni del giorno successivo: “E’ una bella cosa? No, non è sicuramente una bella cosa, quella che è successa ieri. Ma è un qualcosa che succede in ogni partita NBA? Sì, lo è, ed anche se sfortunatamente non è una cosa positiva per la nostra lega, è proprio ciò che quotidianamente accade”, le parole con cui il coach ha provato a smorzare i toni.

Gli equilibri in casa Magic sono dunque alquanto instabili, anche a causa della poca serietà dimostrata dal loro leader, e le voci che vogliono coach Van Gundy esonerato proprio su richiesta dello stesso Howard si fanno sempre più insistenti.

Si è dunque pronti per quella che si rivelerà come una delle scene più uniche ed imbarazzanti degli ultimi anni. Il siparietto messo in piedi in un pomeriggio d’inizio aprile da Van Gundy ed Howard di fronte ad una folta schiera di microfoni è infatti memorabile. Il coach, tra un sorso di Diet Pepsi e l’altro, non esita a dichiarare che fonti del management gli hanno riportato la volontà di Howard di cambiare allenatore, aggiungendo poi che lui, nonostante questo, non ha alcuna intenzione di abdicare.

Van Gundy dichiara alla stampa che Howard lo vuole esonerato (Foto NBA)

Tutto relativamente nella norma (…), se non che dopo una manciata di minuti sia proprio Dwight Howard a sbucare dal nulla, abbracciando subito l’amico-nemico con la sua classica, un po’ forzata aria da giocherellone (con Van Gundy che, opportunamente, coglie la prima occasione buona per togliere il disturbo). Incalzato dalle ovvie e pungenti domande dei cronisti, Howard prova ripetutamente a negare le fresche parole del suo allenatore – nel frattempo ormai divampate in giro per l’America intera – senza però avere grande successo, visto anche il palese imbarazzo suo e di tutti i presenti.

Insomma, una scena del tutto particolare, vista raramente in un contesto sportivo professionistico, dove solitamente tali manovre di favoreggiamento (o sfavoreggiamento) verso i propri allenatori vengono scovate e rivelate al buio dei salotti dirigenziali, e non alla luce di microfoni e telecamere.

Giunti a questo punto, sono in molti ad aspettarsi un sollevamento di Van Gundy dall’incarico, visto anche il momento negativo vissuto dalla squadra – 5 sconfitte consecutive in concomitanza con gli avvenimenti extra-cestistici appena narrati (la prima striscia negativa di questa portata degli ultimi 5 anni).

Ma di esoneri, nemmeno l’ombra. Van Gundy rimane al suo posto, cercando di rimanere concentrato su ciò che accade in campo, e non sulle voci che lo circondano: “Ciò che conta è la squadra, i giocatori, gli allenatori, Dwight e i suoi compagni, lavorare ed allenarsi per migliorare la squadra – afferma Van Gundy – Quello era il messaggio, per me la situazione in questi ultimi tempi non è cambiata, è la stessa di due giorni fa, tre giorni fa, tre settimane fa”.

Si prova dunque a far tornare (o perlomeno apparire) tutto nella norma, cercando di prepararsi al meglio in vista dei playoffs. I Magic, come ormai da pluriennale consuetudine, sguazzano nella zona di mezzo del tabellone delle prime 8 della Eastern Conference, assieme ad Indiana, Atlanta e Boston. Il quarto posto sembra comunque alla portata di Orlando, se non ci fossero gli infortuni a scombussolare qualsiasi piano tecnico del povero Van Gundy.

Dell’intero roster, è J.J. Redick l’unico Magic ad essere stato disponibile in tutte le 64 partite fino ad ora giocate. Ma se durante i primi mesi di stagione l’entità dei malanni fisici subiti dai Magic è stata generalmente lieve, il trend negli ultimi tempi è negativamente cambiato, ed ha coinvolto i due giocatori su cui si basano gran parte delle fortune e ambizioni di Orlando.

Si appresta a tornare in campo Hedo Turkoglu, dopo l’infortunio subito contro i Knicks (Foto Douglas Jones/US Presswire)

Hidayet Turkoglu è il primo ad essere bersaglio della malasorte, il 5 aprile contro i Knicks, a causa di una fortuita gomitata di Carmelo Anthony che procura al turco tre fratture allo zigomo. Una pesante tegola arrivata nel momento meno opportuno: “Sembra ci siano sempre dei nuvoloni neri sopra ai Magic – dichiara sarcasticamente Turkoglu commentando il suo infortunio – Spero comunque di essere di nuovo in campo per i playoffs”. Comprensibile la delusione di un giocatore che non sarà di certo più quell’eclettico e quasi immarcabile tuttofare il cui ruolo fu decisivo nella cavalcata alle Finals del 2009, ma che rimane comunque una pedina fondamentale nello scacchiere di Van Gundy, viste le sue doti da point forward che lo rendono elemento alquanto complesso da affrontare per gli avversari.

L’infortunio con la “I” maiuscola deve però ancora arrivare. Il 13 aprile – dopo un lungo periodo segnato da sofferenze ed antidolorifici – Howard vola a Los Angeles per sottoporrsi ad approfonditi controlli alla schiena, dolente ormai da settimane. E gli esiti di tali esami sono tutt’altro che confortanti: ernia al disco, e riposo forzato per la restante parte della regular season. Il che non rappresenterebbe nemmeno un così grande dramma, visto che la qualificazione alla post-season già è di fatto assicurata.

Tuttavia, passano alcuni giorni, ed irrompe la notizia che nessuno avrebbe mai voluto sentire – e che, di fatto, mette la parola fine sui (già pochi…) sogni di gloria di Orlando. Howard necessita di un’immediata operazione alla schiena, e salterà l’intera parte finale della stagione (playoffs compresi), oltre che le Olimpiadi di Londra.

E’ questa una botta tremenda per l’intero ambiente, che vede così inevitabilmente svanire le proprie speranze di una lunga e convincente corsa nella post-season. “Questa è la squadra che abbiamo, e con questa squadra dovremmo essere in grado di cavarcela in queste ultime partite di stagione e nei playoffs – afferma uno sconsolato Van Gundy – Non ci resta che fare al meglio ciò che siamo in grado di fare. Già abbiamo effettuato dei cambiamenti in corso, e credo che il nostro gruppo ne stia uscendo rafforzato”.

Quest’ultima affermazione può di certo essere verificata e confermata guardando le recenti prestazioni dei Magic. Nonostante gli ultimi risultati non siano dei migliori (9 sconfitte nelle ultime 13 partite, 3-4 senza Howard), il gioco si è fatto più fluido e corale, vista la mancanza dell’ingombrante presenza del loro centro.

Ryan Anderson, qui al tiro, è l’unica nota positiva della stagione di Orlando (Foto NBAE/Getty Images)

Perché giunti a questo punto, ci sarebbe anche il lato puramente sportivo della faccenda da raccontare (o perlomeno, a cui accennare). Un lato che, obiettivamente, non ha saputo offrire spunti memorabili, se non un Ryan Anderson autore di un notevole salto di qualità rispetto al passato, ben testimoniato dai 16.9 punti e 7.6 rimbalzi di media, e che gli vale una credibilissima candidatura come Most Improved Player of the Year.

Non si è rivelato invece indimenticabile l’inserimento in squadra di Glen Davis, scambiato lo scorso autunno per Brandon Bass. Arrivato in Florida nella speranza che potesse portare con sé un bel bagaglio di esperienza vincente bostoniana, l’unica cosa che non ha lasciato in Massachusetts sono i rotoli adiposi che gli valgono meritatamente lo storico nickname “Big Baby”. Non proprio ciò che il GM Otis Smith si augurava nel momento in cui ha ideato e realizzato tale trade.

Giunti ormai alle porte dei playoffs, è difficile pronosticare un risultato che non veda gli Orlando Magic eliminati al primo turno. Il sistema di gioco che per anni li ha contraddistinti – palla ad Howard e tutti ad appostarsi nei pressi del perimetro in attesa che la palla arrivi e si possa sparare verso il canestro, preferibilmente da dietro l’arco – in questo momento deve essere stravolto, vista anche l’assenza di qualsiasi altro lungo efficace da immolare sotto canestro.

I rinati Indiana Pacers, avversari dei Magic al primo turno, sono squadra troppo profonda e completa per sperare in una vittoria della serie da parte di Orlando. Inoltre, esiste pure il rischio che la squadra possa prendere l’assenza di Howard come una sorta di scusante, e per questo partire demotivata e già in netto svantaggio psicologico.

Howard in difesa su Andrew Bynum, giocatore ormai dominante (Foto Gary A. Vasquez/US Presswire)

Lo scenario presente non è quindi favorevole ad Orlando, e se si prova a guardare un po’ più in là nel tempo, il tormentone legato al nome di Howard sembra incombere di nuovo all’orizzonte. I Magic hanno probabilmente sbagliato a non lasciare andare la loro star quando le circostanze di mercato erano a loro più congeniali, e c’erano diverse squadre pronte a sacrificare in cambio fior di giocatori. Siamo sicuri che né Smith né Van Gundy sarebbero in questo momento dispiaciuti se, al posto dell’infortunato e polemico Howard, potessero contare sulle prestazioni di un Andrew Bynum, o di un Pau Gasol.

Difficile comunque azzardare sensati pronostici riguardanti il futuro di DH12. La notizia dell’ultimissima ora riguardante la sua probabile scelta di trascorrere le prossime settimane in California  –  e non in panchina a supportare i suoi durante il primo turno di post-season –  non fa che aumentare la rabbia dei tifosi, già scottati dai suoi recenti atteggiamenti. E rappresenta un altro indizio sul fatto che il futuro di Howard in Florida potrebbe davvero avere i mesi contati.

C’è però da dire che quelle che erano le sue due maggiori pretendenti – Lakers e Nets – sembrano ora più lontane, vista l’esplosione di Bynum e l’incertezza tecnica (legata soprattutto a Deron Williams) con cui i Nets si apprestano a sbarcare a Brooklyn. Inoltre, la recente operazione subita alla schiena potrebbe far calare il suo valore di mercato, nel caso dovesse ripresentarsi in campo non al 100%.

Di certo, il personaggio-Howard ha subito una netta involuzione negli ultimi tempi, ed ha perso buona parte delle simpatie che era riuscito a guadagnarsi tra i media americani qualche anno orsono, soprattutto in occasione della trionfale cavalcata verso le Finali del 2009. Un periodo, quello, in cui gli Orlando Magic del giovane Dwight Howard erano visti quasi all’unanimità come probabili dominatori dell’NBA di oggi e di domani. Non è andata proprio in quel modo.