LeBron James (Photo by Mike Ehrmann/Getty Images)

LeBron James (Photo by Mike Ehrmann/Getty Images)

Non uno, non due, non tre anelli. Con queste parole, Lebron James lanciava proseliti di titoli in serie non appena arrivato a Miami. Solo il tempo ci dirà quanti campionati il nostro di cui sopra, Wade e Bosh avranno vinto insieme. Adesso, però, è tempo di celebrare a prescindere una squadra capace di arrivare per la quarta volta di fila alle NBA Finals, un traguardo che solo Celtics e Lakers prima della versione 2013-2014 degli Heat sono riusciti a raggiungere. Si spiega così da sola la straordinarietà di quanto fatto dalla franchigia della Florida. E’ evidente che in caso di three- peat l’impresa avrebbe una valenza ancora più prestigiosa ma è altrettanto evidente  che la portata di quanto fatto dagli uomini di Spoelstra possa prescindere dal numero di campionati vinti. A trascinare di forza Miami in finale, ci ha pensato il redento James, indifferente alle stucchevoli provocazioni di Stephenson, sublime nel trascinare i suoi fin dalle battute iniziali con la proverbiale capacità di attaccare il ferro, producendo canestri in serie per sé e per i suoi compagni. In una partita che non ha mai avuto storia, sospetta ci è sembrata l’attitudine dei Pacers, troppo soft, rinunciatari, quasi svogliati nell’interpretazione di una gara di così grande importanza.  Esce male Indiana, inutile negarlo. Per tutta la durata della serie, ad accezione del solo match inaugurale, ha subito una avversario mentalmente più pronto, più determinato nel far pesare in positivo le proprie differenze. Hanno stupito, soprattutto, i molti momenti di black out difensivi di una squadra che fa proprio della solidità nella propria metà campo il suo punto di forza. Sarà una lunga estate per i Pacers, consci che con questo gruppo non si può realmente competere per vincere l’anello. Saranno (alcuni) giorni di attesa per gli Heat, che aspettano di sapere chi tra Spurs e Thunder si metterà di mezzo tra la squadra magistralmente costruita da Riley e il terzo titolo di campione NBA di fila.

UPS

Spoelstra. Si tende a parlare troppo poco di un allenatore che è cresciuto tanto in questi anni. Essenziale nella gestione del gruppo, mai sopra le righe, ha saputo plasmare nel miglior modo possibile uno spogliatoio di difficile gestione. Contro i Pacers, ci è piaciuta la decisione di dare minuti a Lewis rinunciando ad Haslem, un’arma che contrariamente a quanto si possa pensare, ha pagato i dividendi sperati più in difesa che in attacco. L’ex video coordinator di Miami ci sembra pronto a sedersi allo stesso tavolo dei migliori allenatori della Lega di questa ultima decade.

James. Dominante. Inutile sprecare altri aggettivi. La maturità dimostrata nel non cadere nei tranelli di Stephenson si aggiunge alla lucidità e bravura con la quale ha attaccato fin dall’inizio. Le sue sortite al ferro hanno spaccato subito la partita. Con un James così, la sensazione è che Miami sia semi imbattibile.

Bosh. Dopo le difficoltà evidenziate ad inizio serie, l’ex Raptors ha recitato un ruolo decisivo nel 4-2 finale. West e Hibbert hanno sofferto la mobilità del lungo texano, la sua propensione ad uscire dall’area ha aperto i varchi giusti alle incursioni di James e Wade. Rinato.

DOWNS

Hill. E’ tra i giocatori sponda Pacers ad aver deluso di più. Timido, a tratti impacciato, poco lucido in molti momenti della serie, l’ex Spurs avrà una lunga estate per provare a dimenticare una post season dalla quale era lecito aspettarsi qualcosa di più.

Stephenson. Nonostante sia stato il solo a reggere l’urto Heat nella prima parte di gara, Born ready si è distinto soprattutto per il suo  discutibile atteggiamento, ai limiti dell’arrogante. Meglio stendere un velo pietoso sulla plateale manata con la quale ha provato a stendere il povero Cole. Siamo sicuri che il comportamento mostrato in questa serie non sia affatto piaciuto a Bird. Non siamo per nulla convinti del fatto che sarà un Pacer ancora a lungo…