5. RITORNO COL BOTTO

I playoffs 2016 si sono aperti con la sconfitta dei Raptors contro i Pacers, a Toronto. C’è da stupirsi? Beh no; conoscendo i canadesi, proprio no. Perdono sempre gara-1.

L’amarezza di Lowry e compagni fa da contraltare alla gioia di Indiana, tornata nella post season e convinta di poter superare il primo turno, nonostante lo sfavore dei pronostici. Anche solo per un semplice motivo: Paul George.

Il #13 ritrova il prestigioso palcoscenico che più gli si addice e mette tutti in riga, con la consueta classe ed eleganza. “Significa molto essere tornato ai playoff; essere di nuovo qui vuol dire davvero tanto per me”: ha dichiarato P.G. al termine del match.

Match che lui stesso ha deciso, con i 33 punti finali, ma, soprattutto, con un terzo quarto da All-Star: 17 punti, 6/7 al tiro, tre triple e un paio di inchiodate in contropiede. Per ribaltare il risultato e affacciarsi sull’ultimo periodo avanti 70-67.

La partita, in sostanza, si è decisa così. L’ha decisa lui. E nessuno ne fa mistero; Vogel, coach dei Pacers: “Il principale motivo per cui abbiamo vinto è che, nella parte finale del match, Paul ha tirato in maniera spettacolare”.

Più chiari di così…

 

4. LA STORIA CHE CAMMINA

Poteva esserci una Top-5 senza un qualunque nuovo record di Tim Duncan? Ovviamente no. Ormai, ogni volta che si allaccia le scarpe, il caraibico ne stabilisce almeno un paio.

Gara-3 con i Grizzlies ha significato: aggancio a Robert Horry al secondo posto della classifica all-time per numero di partite giocate nei playoff, 244.

E terzo posto per numero di vittorie nella post season. 154, come Kareem Abdul-Jabbar.

Tre righe scarne e imparziali, per testimoniare gli ennesimi passi nella storia di questo giocatore infinito. Piano piano, sottovoce, come piacerebbe a lui.

 

3. IL RISVEGLIO DEL PICCOLO GIGANTE

Ci voleva il Garden per risvegliare i Celtics, trotterellanti e irriconoscibili nelle due gare di Atlanta. E ci voleva l’aria di casa per caricare a pallettoni Isaiah Thomas, piccolo grande uomo tornato a dettare legge e trascinare i suoi.

Boston vince il terzo incrocio della serie con gli Hawks, riapre i conti e riaccende la speranza. Grazie, soprattutto, alle imprese del già citato #4. Che ritrova un minimo di continuità al tiro e ne mette 42, vincendo l’ingaggio con Jeff Teague.

Un Thomas diverso, più in palla ed efficace. Non che nei due episodi precedenti fosse rimasto a bocca asciutta, 27 e 16 punti, ma i bottini finali non raccontato le difficoltà incontrate. Soprattutto nelle percentuali dal campo.

Beh, tutto cancellato, almeno per ora. Il pubblico biancoverde ci crede, e così tutto l’ambiente. Atlanta rimane un osso durissimo, ma la “stella tascabile” dei Celtics è pronta a ribaltare ogni pronostico.

 

2. GENIO E SVOGLIATEZZA

Alla fine gli perdoni tutto. Le brutture difensive, le forzature, gli errori: tutto scompare davanti a giocate del genere.

James Harden decide gara-3 della serie tra Warriors e Rockets con una prodezza delle sue, a soli due secondi dalla sirena. Uno contro uno, Iguodala mandato per le terre (nel match è successo almeno un altro paio di volte) con il complicato arresto, giravolta e morbido piazzato che si spegne nella retina. Per il delirio del pubblico, meno della panchina, stranamente impassibile. Ma questa è un’altra storia.

Tiro vincente che conclude al meglio una serata da assoluto protagonista: 35 punti, 8 rimbalzi e 9 assist. Nonché una serie di saggi di ball-handling, penetrazioni inarrestabili e step-back da lacrime.

Se solo avesse la stessa voglia anche in difesa…

 

1. HIS KINGDOM

LeBron intimorisce sempre. Pure alla tombola di Natale. Figuriamoci ai playoff, quando i suoi occhi si fanno ancora più profondi, rossi, feroci.

Quasi avesse un interruttore, il #23 switcha sulla modalità “post-season”, mettendosi l’armatura delle grandi occasioni e dominando il parquet come nessuno. E non stiamo parlando di numeri, comunque eccellenti (23 punti, oltre 8 rimbalzi e 7 assist), ma di atteggiamento: famelico, sovraccaricato, vorace, combattivo all’inverosimile, determinato, focalizzato sull’obbiettivo. In queste condizioni, un giocatore semplicemente inarrestabile.

Detroit non sta trovando le contromosse. Anche perché LBJ vuole il titolo prima ancora della gloria personale (di cui è già stracolmo), e, quindi, legifera coinvolgendo i compagni, sbattendosi anche in difesa e sforzandosi di portare l’intera squadra al livello superiore. Non va in scena un one-man-show, ma lo spettacolo di un fenomeno che vuole raggiungere la vetta con l’aiuto di tutti.

Vuole dare quella benedetta gioia a Cleveland, la sua città. Vuole regalare un sogno alla sua gente. Lo vuole con tutto il cuore. Per questo non risparmia una sola goccia di sudore e, a ogni azione, si divora campo e avversari.

Di giocatori così, nei playoff (e non), se ne sono visti davvero pochi.