LeBron James

Il record. Visto il valore della squadra a disposizione di Erik Spoelstra, il successo nella Southeast Division (46 vittorie e 20 sconfitte) era sembrato quasi un atto dovuto. Ma non erano sparite tutte le perplessità sulle possibilità di andare fino in fondo, dovute ad alcuni limiti tecnici, un’eccessiva dipendenza dai “Big Three”, una certa discontinuità e qualche segnale di fragilità soprattutto mentale. Invece gli Heat hanno dimostrato tutta la loro forza, crescendo lungo il percorso e raggiungendo l’apice nei playoffs. Nella post-season si sono sbarazzati senza problemi di New York, sono andati sotto ma poi hanno ribaltato la serie contro Indiana riuscendo a compensare l’infortunio di Bosh, hanno vinto una sfida lunghissima e durissima contro gli ammirevoli Celtics che hanno avuto realmente “sette vite”. E hanno offerto il loro meglio in Finale, lasciando realisticamente poco spazio ad una squadra giovane e talentuosa come OKC, ma ancora incompleta per vincere il titolo. Perché a livello di intensità in entrambe le metà campo, in termini di cattiveria agonistica, voglia di vincere e idee chiare, Miami ha semplicemente avuto qualcosa di più, tirando fuori un LeBron James dominante prima di tutto fisicamente nel duello con Durant, ma anche Wade e Bosh capaci di colpire all’occorrenza, e un cast di supporto finalmente incisivo quanto il livello richiedeva. Con Battier uomo chiave per la difesa e il tiro da fuori, Chalmers micidiale in gara4 e Miller semplicemente infallibile nella partita che ha portato il “Larry O’Brien Trophy” a South Beach, consegnato da David Stern al proprietario Micky Arison, al presidente Pat Riley, a coach Erik Spoelstra e a tutti i giocatori.

MVP. Questa parola ha accompagnato tutta la stagione di LeBron James, protagonista di un’annata sostanzialmente perfetta. Vittoria del titolo, miglior giocatore della regular season, miglior giocatore delle Finali e con cifre mostruose. Praticamente impossibile fare di più: 27.1 punti, 7.9 rimbalzi, 6.2 assist e un pazzesco 53.1% al tiro nella stagione accorciata dal lockout, diventati 30.3 punti conditi da 9.7 rimbalzi e 5.6 assist col 50% su azione nelle 23 partite di post-season, incorniciate dalla tripla-doppia nell’ultima sfida, che aveva pure rischiato di saltare per l’infortunio in chiusura di gara4. Si è attirato tantissime critiche e antipatie dal momento di “The Decision” e dell’approdo in Florida, ma quest’anno ha mostrato una maturazione importante, ha giocato con un obiettivo chiaro in testa, ha trascurato ogni possibile forma di distrazione, ha lavorato sulla concentrazione e durante i playoffs si è isolato da tutto e tutti, abbandonando pure i suoi profili sui social network. Ha avuto ragione lui, con l’intensità è stato d’esempio per gli altri, dimostrando di saper incidere anche quando conta di più, di saper guidare una squadra finita sotto in tre serie su quattro, di saper difendere e – se ce ne fosse stato ancora bisogno – di non avere un ruolo. Ma se questo per molti può essere un limite, per LBJ è un punto di forza perché li può giocare praticamente tutti (o almeno 4 su 5) sfruttando una miscela tecnica e fisica unica, con cui infierire all’occorrenza sui punti deboli degli avversari di turno. Lo ha dimostrato in Finale, quando Spoelstra lo ha usato quasi stabilmente da numero 4 e lui ha sfruttato le sue qualità per risultare immarcabile. Si è tolto un peso, ha conquistato il primo titolo da più giovane di Michael Jordan, e nei prossimi anni – anche se dai grandissimi sarà sempre visto con un pizzico di distacco per aver vinto alleandosi a Wade, anziché sfidandolo – potrebbero essere guai seri per tutti.

Shane Battier

La sorpresa. Difficile trovare sorprese in regular season, se si eccettua l’inizio particolarmente sfrontato di Norris Cole, allora guardando ai playoffs viene da pensare ad un Mario Chalmers che ancora fatica ad avere continuità a questo livello ma che ha la personalità per non tirarsi indietro ed ha regalato almeno una fiammata in ogni serie (25 in gara4 di Finale). O ancora a Shane Battier, anche lui al primo titolo in carriera, non perché sia uno sconosciuto sui principali palcoscenici NBA ma per i 17 punti di media sfiorando il 70% da tre nelle prime due partite contro OKC, e soprattutto nella seconda, quella in cui è girata la serie.

La delusione. Giocare una Finale col quintetto “piccolo” con Bosh da unico lungo è stata una scelta praticamente obbligata per Spoelstra, in virtù della totale mancanza di centri in grado di giocare tanti minuti a questo livello. Ridotto a cambio Haslem, che già più volte in carriera si è spinto oltre i propri limiti, sono progressivamente spariti col passare delle partite Joel Anthony e Ronny Turiaf, mentre sono sempre rimasti ai margini Juwan Howard e Dexter Pittman. Vincere un titolo con un contributo così modesto dei lunghi di ruolo è un segnale di come davvero sia cambiato il gioco, ma anche un merito ulteriore per James, Wade e soci per non averne pagato dazio.

Mario Chalmers ed Erik Spoelstra

Prospettive Future. Dopo un festeggiamento decisamente non al risparmio, dopo aver visto James apparire in diversi talk show americani (da solo o insieme a Bosh e Wade), per i giocatori è ancora il momento di tirare un attimo il fiato, ma Riley e Spoelstra hanno ripreso subito a lavorare. Il draft e l’inizio del mercato hanno imposto ritmi frenetici per cominciare a programmare la squadra della nuova stagione, che sarà ovviamente ancora incentrata sui “Big Three”. Si cercheranno rinforzi tra i veterani per sostituire chi tra James Jones e Mike Miller deciderà di ritirarsi. Piace Ray Allen, che vorrebbe un altro titolo prima di lasciare il basket giocato, e come lui altri giocatori esperti sarebbero disponibili a fare da comprimari a Miami pur di provare a vincere. La lista dovrà essere valutata e scremata, il fascino della squadra è notevole e può permettere di compensare uno spazio salariale virtualmente inesistente – escluse le eccezioni al salary cap (la mini mid-level da 3 milioni o il contratto minimo per i veterani) – per andare a prendere free agent a cifre di mercato. La panchina va allungata, serve almeno un rinforzo tra i lunghi, sarà reso garantito il contratto di Pittman, mentre il draft non ha portato novità di particolare rilievo.