LeBron James

LeBron James

La stagione. E’ finita male. Con una sconfitta netta per mano degli Spurs, un 4-1 apparso più simile ad un 4-0 che ad un’eventuale 4-2. Vero, è stata la quarta Finale consecutiva per gli uomini di Spoelstra, una storica impresa riuscita per l’ultima volta ai Celtics dal 1984 al 1987, ma per una squadra che può contare su LeBron James, Chris Bosh e Dwyane Wade il risultato non può essere del tutto soddisfacente. Era difficile ripetersi dopo due titoli consecutivi, l’andamento è stato non casualmente troppo oscillatorio, alla ricerca di motivazioni non semplici da ritrovare e con la convinzione che sarebbe bastato inserire le marce alte per tornare ad essere la squadra schiacciasassi del recente passato. Non è andata così. Soprattutto a gennaio e marzo la squadra ha fatto fatica, per finire con un aprile dal bilancio negativo per la prima volta dopo 27 mesi positivi consecutivi (nuovo primato di franchigia). Eppure l’harakiri tentato in tutti i modi dai Pacers aveva riaperto le porte del primo posto ad est, un risultato rimasto lontano per buona parte della regular season, perché la squadra, seppur molto forte, a tratti fortissima, ha sì avuto il miglior attacco per qualità di esecuzione (unica sopra al 50% su azione in regular season), ma ha ceduto qualcosa in termini di efficacia difensiva rispetto agli altissimi standard offerti nelle stagioni precedenti. La percezione si è avuta sin dalle prime partite, dove la fiducia nei propri mezzi sembrava contare di più dell’effettiva applicazione, per un gruppo che ha avuto in James il solito trascinatore, Bosh più convincente di un Wade a tratti travolgente ma talvolta ai margini per gestire le malandate ginocchia, ma ha pagato a caro prezzo i limiti della panchina – ancora tenuti sottotraccia nel 12-3 dei primi tre turni di playoffs – emersi in tutta la loro gravità contro gli Spurs.

MVP. E’ realistico affermare che se non ci fosse stato LeBron James, gli Heat in Finale avrebbero probabilmente perso 4-0. E con risultati ancora più umilianti di quelli incassati nelle ultime tre sfide. Giocatore del mese a dicembre e febbraio, secondo dietro a Durant nella corsa all’MVP, primo quintetto NBA e secondo quintetto difensivo, James sembra cresciuto ancora in termini di convinzione, consistenza su entrambi i lati del campo ed ha archiviato 27.1 punti di media con 6.9 rimbalzi, 6.3 assist, il 56.7% su azione (career-high), il 37.9% da tre e il 75% ai liberi in regular season. Nelle 20 partite di playoffs, il suo fatturato è salito a 27.4 punti e 7.1 rimbalzi col 56.5% dal campo, il 40.7% dall’arco e l’80.6% dalla linea della carità. E’ calato invece il numero degli assist, fermatosi a 4.8, il suo minimo in 9 edizioni di post-season.

La sorpresa. In una squadra piena di veterani, arrivata, dopo due titoli vinti, alla quarta finale consecutiva, è difficile individuare una vera sorpresa. Si può celebrare quantomeno il ritorno al basket giocato di Greg Oden o un’altra stagione tutt’altro che marginale di Ray Allen che, pur a 38 anni, ha dimostrato di averne ancora, archiviando, nonostante la prima regular season sotto la doppia cifra media in carriera (9.6 punti, 2.8 rimbalzi e 2.0 assist col 37.5% da tre), un’annata tutt’altro che marginale (9.3 punti col 38.8% dall’arco nei playoffs). Un calo era inevitabile e naturale, ma il crollo temuto da molti non c’è stato. Lo stesso “He got game” lo ha capito e sembra deciso a continuare a giocare ancora.

La delusione. Miami ha mancato il bersaglio grosso, dopo aver mostrato segnali di cedimento già lungo il percorso, per un supporting cast che ha reso meno del previsto e del dovuto. Veterani come James Jones, Rashard Lewis, Udonis Haslem hanno offerto pochino e si sono dimostrati non (più) all’altezza di certi obiettivi, in Finale poi è sparito anche Mario Chalmers, annichilito da Parker e Mills. Una stagione da minimi in carriera è stata anche quella di Shane Battier, 4.1 punti col 38.2% al tiro, professionista esemplare, giocatore ammirevole e che con grande onestà ha comunicato l’intenzione di ritirarsi.

Prospettive future. Tutto ruota attorno a LeBron James, che ha fatto la prima mossa, diventando free agent grazie alla “early termination option” e inducendo Wade e Bosh a fare altrettanto. Hanno capito che per continuare insieme e frenare la fuga di LBJ  dovranno essere i primi ad abbassare le pretese economiche e scendere un gradino sotto al “Prescelto” – che, contando sullo status di miglior giocatore in attività, continua a puntare al massimo salariale (Miami gli può dare fino a 130 milioni in 5 anni) – per consentire alla dirigenza di firmare maggiori rinforzi rispetto all’estate scorsa. “King” James ha grande rispetto per Pat Riley – che intanto al draft ha preso Shabazz Napier, ovvero la point-guard del college preferita da LBJ, toh… – ed è soprattutto per la sua presenza e la sua capacità di trovare la quadratura del cerchio anche in una situazione non semplice che tiene ancora in grande considerazione la permanenza a Miami, che comunque non è scontata. La caccia al free agent più ambito è già partita, ci sono almeno 8 squadre che sognano uno storico “scippo”, gli Heat dovranno difendere il territorio conquistato nell’ultimo quadriennio se vorranno continuare ad inseguire altri titoli. Il roster di Miami, con Cole ancora a libro paga (però sacrificabile via trade) e Haslem in uscita dal contratto – ma pronto ad essere ricompensato – per ridiscuterne uno nuovo, è interamente da costruire. Il cielo sopra gli Heat può cambiare aspetto anche in maniera molto radicale. Dipende da Riley, ma soprattutto dal numero 6.