Sergio Tavcar

La prima domanda che sorge angosciosa per uno come me che di mestiere fa il giornalista e le cose le dovrebbe sapere è: quando hanno abolito la regola che nelle Final Four dell’ Eurolega due squadre della stessa nazione dovrebbero incontrarsi in semifinale? Ho visto sul sito ufficiale che sono confermate CSKA-Panathinaikos (finale anticipata) e Olympiacos-Barcellona, per cui la cosa mi lascia perplesso. Stando così le cose si starebbe veleggiando verso una finale russo-iberica, sempre che Pascual riesca a non perdere contro Ivković, cosa tutt’altro che da escludere perché la fantasia dell’uomo è infinita. Che il CSKA possa perdere contro il Pana, per quanto Obradović possa escogitare terribili marchingegni per mandare in confusione Kazlauskas, mi sembra onestamente altamente improbabile, in quanto il CSKA ha in campo cervelli, leggi Teodosić, Krstić e Kirilenko che possono da soli trovare via via le giuste contromisure. E, ripeto, solo il CSKA può perdere l’ Eurolega, in quanto gli altri possono solo sperare che grippi nella singola partita. Altrimenti non c’è storia.

Un po’ come solo Kentucky poteva perdere quest’anno le finali NCAA. Era troppo forte ed infatti devo confessare che mi sono sentito molto orgoglioso quando, dopo la semifinale vinta contro Louisville, mi sono chiesto come mai era riuscito a vincere avendo Pitino vinto la battaglia in panchina a mani basse. Poi ho scoperto che Calipari era arrivato alle Final Four varie volte perdendo anche in passato partite già vinte. Il che ha solo confermato la mia sensazione che sia un grandissimo allenatore in fatto di reclutamento ed assemblaggio della squadra, ma che poi mostra molti limiti in panchina. Un’altra dimostrazione che fare il coach vuol dire avere molte doti molto diverse fra loro che non tutti possiedono. Ci sono, appunto, i maghi nello scoprire talenti veri e metterli tutti assieme al servizio della squadra trovando la chimica giusta che però in panchina mostrano grossi limiti (Skansi, Ćosić, per limitarmi agli esempi che conosco), come dall’altro canto ci sono coach che valutano in modo almeno dubbio i giocatori che prendono, ma che poi in panchina sono degli strateghi, ma sopratutto tattici, sublimi. Il primo nome di questo tipo di coach che mi viene spontaneo alla mente è quello di Bob Knight. A proposito un altro motivo di autogratificazione personale è stato quando tempo fa, seguendo una partita dell’NCAA su ESPN, ascoltavo estasiato il commentatore tecnico che spiegava in modo piano, semplice ed essenziale le fasi cruciali del gioco e delle singole azioni focalizzandosi sulle stesse cose che vedevo anch’io, ma non sapevo spiegarmi, mentre lui me le chiariva una dopo l’altra con straordinaria lucidità e mi dicevo: “ma chi è ‘sto fenomeno?Era Bob Knight. E devo dire che la mia stima per questo incredibile personaggio è salita a livelli che non pensavo possibili.

Tornando a Calipari la cosa che sconvolge è che sia riuscito a mettere assieme una corazzata, ma che dico corazzata, portaerei, praticamente imbattibile pescando matricole dappertutto in giro negli Stati Uniti e mettendole vicino a dei fagioli (almeno noi chiamavamo così i secondo anno ai nostri tempi) per formare una squadra di bambini che però giocavano in modo incredibile di squadra in modo molto maturo e responsabile. Tanto di cappello dunque al coach da questo punto di vista. Non è certamente impresa da poco, con tutti i programmi ambiziosi che ci sono negli States con i talenti delle high school contesi a peso d’oro (credete veramente nel purissimo dilettantismo dei college? non fatemi ridere), riuscire dapprima a scovare quelli giusti e poi a farli venire a giocare per la propria Università. A monte devono esserci capacità enormi (comunque superiori a quelle degli altri) nonché una tradizione creata pazientemente nel passato. Poi sulla gestione in panchina sorvoliamo. Straordinario Anthony Davis che ha indovinato proprio in finale la temutissima partita da mano gelida, ma che se ne è reso conto subito mettendosi al servizio degli altri, e sono contento che poi sia stato premiato come MOP pur non avendo segnato praticamente niente. Bene in funzione NBA Kidd Gilchrist, anche se, lo avrete capito, non è veramente un giocatore di quelli che piacciono a me, ma non sarò certo io a negare che abbia doti fisiche tremende. Bravo Calipari anche a riuscire a cavare il massimo dalle due guardie molto sospette in fatto di fosforo ma che di loro tutto si può dire meno che abbiano uno sviluppatissimo senso dell’appartenenza ad una squadra. Per quanto riguarda Kansas nulla da dire sulle capacità di Thomas Robinson, forse come prospetto NBA, per l’andazzo che vi impera, addirittura superiore a Davis (ed infatti, per quanto reputi Davis infinitamente più bravo, se fosse in me a livello draft sceglierei prima Robinson proprio perché più adatto al gioco decerebrato e puramente fisico dell’NBA). L’unica cosa che mi chiedo è perché mai Kansas abbia sempre giocato primi tempi insipidi calando la saracinesca in difesa solamente nel finale. Contro gli altri (in primis Ohio State, dove, come sospettato, l’unico giocatore vero di basket è Craft, mentre Sullinger è un clamoroso Danny Ferry nero) è bastato, contro Davis e compagnia ovviamente no.

Poi ho guardato con interesse anche le Final Four femminili. Anzi devo dire, non senza un senso di auto-sorpresa, che ho guardato tutte e tre le partite per intero senza mai sentire l’impulso di premere il telecomando perché sinceramente affascinato da quanto vedevo. Per esempio, facendo un tifo sfegatato per la mia Skylar Diggins, ho sofferto come un cane in semifinale quando la disgraziata gestione della panchina di Notre Dame stava gettando nel cesso una vittoria già ampiamente acquisita contro una squadra palesemente inferiore come UConn. Per non parlare poi dell’altra semifinale nella quale mi sono esaltato per la prestazione di Nnekka (mi pare che si scriva proprio così) Ogwumike, centro tuttofare di straordinarie capacità di Stanford. Poi mi sono informato ed ho scoperto che è nata in Texas da una famiglia di immigrati nigeriani, come il nome stesso lascia capire, che a livello di high school era la capitana della squadra sia di basket che di volley e che quando serviva andare a fare una barca di punti per la sua scuola nelle gare di atletica, e che poi, arrivata all’Università che lascerà quest’anno avendo finito il ciclo di studi, è stata una studentessa modello (ed infatti in tribuna c’era la sua professoressa Condoleeza Rice – ricordate? ministro degli Esteri di George W. Bush) e che ora non è detto vada a giocare da pro perché dovrebbe avere un grosso futuro in politica. Come si fa a non amare una persona simile? Fra l’ altro ha altre sorelle di cui una, Chisey (chissà se poi è questo il nome giusto), è già in squadra e promette di essere anche lei un crack, avendo la stessa intelligenza della sorella, ma essendo un po’ più bassa e magra (tradotto, ma non voglio sembrare maschilista, ha un fisico da pantera che tramortisce) ha in campo un altro ruolo più da esterna. Purtroppo né Stanford né Notre Dame in finale nulla hanno potuto contro Baylor che schierava l’arma più totale mai vista sui campi di basket in versione femminile. Parlo ovviamente della 2 e 03 Brittney Griner, quella che schiaccia in partita e che ha un impatto sul gioco totalmente devastante, al limite se non oltre dell’illegale. Lo dico anche perché sulla sua femminilità ci sarebbe molto da discutere (l’avete sentita parlare? neanche le nuotatrici della DDR…). Vedendola giocare sembra di tornare ai tempi di Lew Alcindor di UCLA, quando le squadre avversarie potevano farsi solo la croce prima della partita e sperare che avesse la febbre, perché per il resto era totalmente infermabile. Solo che questa ha anche il tiro frontale che il futuro Kareem non aveva. Ed in più Baylor poteva contare su un play tipo botolo ringhiante di nome Odyssey (ma dove li trovano ‘sti nomi?) Sims, una che in difesa non molla mai l’osso (ne sa qualcosa la povera Skylar) e che in attacco ha fosforo da vendere nonché attributi di tipo maschile (a scanso di equivoci, per quanto non proprio da immortalare sulle pagine di Playboy, lei è una femmina vera in tutti i sensi) segnando sempre quando serviva e dando un ritmo indiavolato alla squadra. Insomma guardando le donne ho visto tantissimi giocatori (uso il maschile in senso ambisex per far capire il concetto che le capacità di giocare a basket prescindono dal sesso – un po’ come dire che il miglior giocatore di tennis di questi ultimi anni è stata Justine Henin) interessanti e soprattutto bravissimi e dunque valeva veramente la pena di guardare le partite.

Fra l’altro proprio questa ultima considerazione, che cioè Baylor poteva anche giocare con tre altre trovate per strada che avrebbe vinto lo stesso, in quanto aveva un ferreo asse play-pivot, mi fa tornare sul mio pallino fisso, che è quello, come certamente ormai saprete, dei ruoli nel basket. Nel senso che è mia ferrea convinzione che a basket si vinca solo se e quando i ruoli nella squadra sia tecnici che soprattutto gerarchici di conduzione di gioco e di assunzione di responsabilità precise ed immutabili sono stabiliti in modo inequivocabile. Attenzione! Non sono certamente tanto passatista da affermare che un giocatore debba fare sempre e solo quello per tutta la carriera. Ci sono e ci sono stati giocatori, caso lampante Toni Kukoč, tanto duttili e versatili da poter giocare in vari ruoli (Kukoč per esempio poteva giocare in tutti, dall’ 1 al 5). Del resto il sommo Magic vinse il suo primo titolo NBA giocando la partita decisiva per necessità da pivot. Anzi, dirò di più: solo chi ha dimestichezza in più ruoli può capire a fondo le necessità dei compagni di squadra sapendo benissimo per propria esperienza e conoscenza cosa loro serva, dunque è fondamentale che un giocatore sappia giocare dappertutto, o almeno abbia un’infarinatura di quello che ogni ruolo richiede, per poter rendere veramente in modo ottimale. Se un play ha giocato magari in allenamento o per divertimento da pivot saprà benissimo quando e come un pivot deve ricevere il pallone come di converso un pivot che ha giocato anche fuori sa benissimo dove mettersi per poter rendere più facile al compagno la linea di passaggio. Il problema e la linea assolutamente discriminante è che, calatosi in un ruolo, il giocatore deve giocare come quel preciso ruolo prevede, se cioè gioca in play deve giocare da play, se passa in ala deve giocare da ala e via dicendo. Secondo me proprio su questo punto si fa una straordinaria confusione, nel senso che si confondono i giocatori veramente duttili e versatili con i tutto- e niente-fare che giocano un po’ da tutte le parti (magari nella stessa azione! bestemmia inaccettabile nel nobile gioco del basket) facendo solo inenarrabile casino. Un po’, anzi tantissima, chiarezza andrebbe fatta proprio su questo punto per dividere il famoso grano dal loglio.

Non volendo essere troppo lungo per non abusare della vostra pazienza nel leggere queste righe rimando alla prossima volta la mia disamina, sperando con ciò di stimolare una successiva proficua discussione, di quello che ritengo un altro abbinamento cardine di ogni squadra di basket, e cioè quello sempre più dimenticato fra ala forte e centro, su cosa debba fare l’uno e l’altro, su quale dovrebbe essere la loro collaborazione, insomma come fare per essere, almeno dal mio punto di vista, produttivi sotto il canestro avversario. Alla prossima volta.