The Fearless Falcon

Where time is lost and truth begins,

the chains are finally broken.

All without you find within,

once scarred and tangled, now silken.

The wordly lust that pained once so,

seems now just an ancient token.

The Fearless Falcon flies so high,

True love can never be broken.

John Fultz

(Tr. Quando il tempo è sprecato e la verità incombe/ le catene finalmente si spezzano./ Tutto ciò che senti dentro di te,/ ciò che era ferito e confuso, ora è appianato.// Il desiderio che un tempo addolorava/ ora sembra solo un ricordo lontano./ Il Falcone impavido vola così alto,/ L’amore vero non può essere infranto)
figlioliaSapore di Lee Hazelwood & Nancy Sinatra o dei Vanilla Fudge: ricordate Some Velvet Morning? O Easy Rider, On the Road… Memorie di Beat Generation e sapienzialità. I versi di John Fultz sono splendidi denotando abilità poetica e raffinata sensibilità di spirito. Ben lo rappresentano.
John Fultz… Gli appassionati di una certa età hanno scolpita negli occhi e nella corteccia sentimentale una celeberrima copertina di Giganti del Basket con la sua sagoma implacabilmente avanzante a detrimento di ogni difesa e ricordano la mano torrida di un giocatore con il vizio di far canestro ovunque e comunque. Un tiro letale, se non mortifero, il suo.
John Fultz (Leslie il secondo nome)… Una fascia bianca a cingergli il capo, i capelli lunghissimi, un vero figlio dei fiori. Un ragazzo della Hippy Generation era, e convinto, questo cestista di formidabile eleganza e classe, che da universitario con Rhode Island, nei nativi States (Framingham, Massachusetts) aveva sfidato niente di meno che un certo Julius Erving, colui che sarebbe assurto a notorietà planetaria come Doctor J, allora nella University of Massachusetts. Tre le sfide fra i due assi: nella prima John ne fece 26 e il Dottore 20, poi il computo fu 33-38 e 31-35. Non disprezzabile dal punto di vista del nostro.

Classe 1948, 199 cm (o 2 metri, a seconda delle fonti), capocannoniere del campionato italiano, una Coppa Italia con la Virtus Bologna nel 1974, e prima, come straniero di coppa, una Intercontinentale con Varese (e una finale di Coppa dei Campioni perduta nonostante i suoi 22 punti, con 9/11 dal campo, e 11 rimbalzi contro l’Armata Rossa del divino Sergej Belov). Con i felsinei della V nera il secondo, dietro Tom McMillen, all-time per media punti: 26,89. Ne segnò 50 contro Pesaro nel 1971 e 42 contro la Brill Cagliari nel ’72, 46 in Coppa Italia contro la Partenope Napoli nel ’72. Post Bologna, nel suo destino di giramondo del parquet, e soprattutto esistenziale, Viganello Basket (una Coppa nazionale e nella sua ultima stagione in Elvezia 36,2 punti e 11,5 rimbalzi a partita, con il 62,5% da 2 e l’89% ai liberi), quando nel Paese rossocrociato e nel Canton Ticino la pallacanestro sembrava conoscere un momento di grande sviluppo, Austria Vienna, ancora Italia e vagonate di punti con la Pallacanestro Pordenone, Sporting Lisbona infine (tuttavia fino ai cinquant’anni si è dilettato a scendere sul parquet), prima di iniziare la carriera di allenatore nella quale avrebbe meritato di più.

In mezzo ai suoi ruggenti anni di fromboliere anche un sogno sfumato. Un sogno che aveva da sempre coltivato: quello di giocare coi Lakers nello scintillante pianeta NBA. Per colpa di un po’ di cocaina. Maledetta polvere bianca… “portai con me la coca incartata nella stagnola. Ce n’era più di qualche grammo. Tirai su un paio di strisce in bagno, la lasciai sul ripiano superiore del mio armadietto e mi sentii pronto per l’allenamento. Ero dappertutto nel campo e giocavo da Dio”. Ma quelli dei Lakers avevano capito tutto. Nell’ufficio del general manager, dopo l’allenamento, gli diedero il ben servito. Senza acrimonia né urla né tensione. Con garbo, ma, altresì, con estrema decisione.
Il libro di John Fultz, mi chiamavano Kociss (144 pagine, euro 15, Minerva Edizioni), oltre a essere ben scritto – paragonabile ai migliori esempi di letteratura orale per quanto trasferita a un ambito in cui lo sport è il nucleo, il cuore pulsante –, è sorprendentemente onesto. Non nasconde nulla John Fultz, raccontando tutte le sue avventure e disavventure cestistiche e di vita, vicende e vicissitudini, aspirazioni, cadute e risalite, tormenti, idee e ideali, speranze e scoperte.
Un viaggio negli anni Settanta che coinvolge e affascina. Uno spaccato di quotidianità di quella generazione di giovani che fra psichedelia, rock e libertarismo osava mettere in discussione ogni autorità, che si ribellava allo status quo e alla colpevole inerzia, che voleva contrastare istituzioni violente e ipocrite, che voleva opporsi alla guerra. Una generazione pacifista, attenta all’ambiente, per la quale l’armonia e la fratellanza umana non erano vuote parole, ma princìpi da perseguire. Anche la questione dell’uso delle sostanze psicotrope va contestualizzata, e non per fornire comodi alibi (neppure John ne cerca, semplicemente si confessa a cuore aperto). Si cercava di aprire nuove porte, si ambiva a esplorare altre dimensioni, stati di coscienza superiori (per John sarebbero poi arrivati, con una nuova consapevolezza, lo yoga, il Tai Chi e le tecniche di meditazione), si tentava di andare oltre esperienze banali e comuni. Succedeva a musicisti e artisti d’ogni sorta e, evidentemente, anche a sportivi. D’altra parte non si può comprendere, ripetiamo, se non si contestualizza, se non s’inquadrano modi e abitudini in quello che era il periodo storico e le sue specifiche esigenze e caratteristiche.
John Fultz è stato molto più che una macchina da canestri, più che un atleta perfetto e capace di sottoporsi a ogni più duro allenamento (non era uno scherzo essere alle dipendenze di Coach Aza Nikolić), più che un’icona o il manifesto di un’epoca. Come individuo ha vissuto appieno: non si è mai chiamato fuori, ha fatto i suoi errori, ma, nel caso, non ha mai incolpato alcuno e si è assunto ogni responsabilità; è stato coerente con le proprie vedute e visioni. Un itinerario a tratti tortuoso, ma originale, non menzognero, idealistico, generoso. In lui l’utopia aveva possente forza.
È rimasto in Italia John Fultz: vive insegnando inglese a Napoli. Il figlio Robert, si sa, è nato a Lisbona, ma è italiano: è un playmaker di carattere e buona tecnica, una colonna di Brindisi, e ha pure giocato in Nazionale. I capelli di John sono ora meno lunghi, ma sempre un po’ di più che la norma, si sono incanutiti e una barba bianca gli orla il bel volto. Di certo John era/è un creativo: il suo basket aveva una qualità artistica, musicale, e così è per la sua scrittura, sia quando parla di cose cestistiche sia quando si spinge nei più impervi o deliziosi sentieri del mondo extrasportivo.

Si trascorre dalle gesta della Valanga Gialloblù – “Il capitano Ottorino Flaborea, in un velleitario ma simpatico tentativo di parlare inglese disse: “Sfrutta my pick, I help you a liberarti”. Era anche lui un armadio di due metri, con due spalle larghe, e doveva pesare almeno 115 chili. Lo chiamavano “Capitan Uncino” perché era capitano della Ignis Varese e della nazionale. Uncino stava ad indicare il suo gancio per il quale, a buon diritto, era famoso. Un po’ come lo era il tiro in sospensione di Raga, e anche il mio”– alla Bologna del destino e alle Colonne d’Ercole dei giorni – “Mentre viaggiavamo, il volume della musica sembrò aumentare, eravamo completamente assorti dalle melodie. Cantammo sulle note di “Riders on the Storm”, poi sulle canzoni dei Rolling Stones e dei Grateful Dead. Lo stereo stava già suonando forte da più di un’ora quando misi una cassetta dei Temptations e abbassai il volume per fare quattro chiacchiere. “Fottuta guerra, questa in Vietnam, eh?” chiesi.” Intanto nasceva anche il soprannome di Gionmitraglia, dato l’incessante crivellamento e bombardamento ai danni delle difese avversarie, uno strano ossimoro, che in tal caso però magnificamente conciliava gli opposti, pur per un pacifista dichiarato quale lui era.

Impagabile il capitolo Martha’s Vineyard (così come quello del viaggio ad Amsterdam, dove John d’impulso si comprò un ristorante) nel quale si fa la conoscenza di John Belushi. Da un dialogo fra i due: “Sai una cosa? Ci deve essere qualcos’altro, oltre a quello che riusciamo a vedere con i nostri occhi. Credo ci siano altre dimensioni, in realtà non moriamo per poi sparire semplicemente. È come sostiene Carlos Castaneda nel suo libro. Riesci a sentire che c’è molto più di questo? Si mi sembra logico. Penso sia come Yogananda spiega nella sua autobiografia: noi fondamentalmente abbiamo tante vite. Passiamo dal mondo astrale nel quale non abbiamo bisogno di macchine perché usiamo il trasporto astrale, e non abbiamo bisogno di comunicare perché abbiamo la telepatia, non c’è necessità di essere avidi, perché c’è grande abbondanza attorno a noi, e prendiamo solo ciò di cui abbiamo bisogno”. Stavo esprimendo liberamente tutto quello che mi passava per la testa.
“Già, amico. Sono in questo mondo per stare bene e godermi tutti i piaceri. Semplicemente amo aiutare gli altri a fare la stessa cosa. Credo di essere fortunato a essere uno dei Blues Brothers e a far divertire gli altri” disse John”.

Ingenue fantasie? Forse, se usiamo la cifra, talora arida, della razionalità pura e del pragmatismo più spinto. Ma c’era tensione ideale, una spinta positiva, verso il mutamento nel segno dell’armonia. Il lascito più importante di quegli anni, che tanto andrebbe recuperato in questi tempi e in questa società governata dalla più cinica idea di profitto.

Per tornare al basket, toni epici assume la descrizione del primo derby contro la Fortitudo targata Eldorado e contro il Barone Gary Schull, trasmigrato direttamente nella leggenda per un’esultanza post partita con il volto imbrattato di sangue: “Ogni volta che uscivo da un blocco, giungeva in aiuto della difesa e spesso mi faceva assaggiare il suo gomito o il ginocchio, e ogni volta che cercavamo di fermare i suoi assalti o penetrazioni verso il canestro, lavorava molto di gomito, o di ginocchio o con la spalla, allontanando chiunque cercasse di contrastarlo. Dove ti colpiva non aveva importanza per lui, se si trovava nel traffico sotto canestro; in collisione con il mio ginocchio, la mia gamba o i gioielli di famiglia per guadagnarsi una posizione vantaggiosa, poco importava!”.

Fra canestri e Roxy Bar, incontri (Lucio Dalla e Vasco Rossi, fra gli altri) e scontri di gioco, sfide ormai nell’immaginario collettivo, si dipanano i giorni del giovane campione. All’ombra delle due Torri arrivava Coach Peterson, sotto la guida del quale migliorerà ulteriormente il gioco di Fultz, divenuto più attento allo stesso gioco di squadra e più disciplinato senza con ciò perdere le proprie superbe proprietà offensive e balistiche. La vittoria in Coppa Italia, da protagonista assoluto con caterve di punti e rimbalzi, fu il culmine del Fultz virtussino, l’ondeggiante e plastico numero 11 e, nel contempo, il suo dono d’addio alla platea dei tifosi Virtus della Grassa e Dotta, alle fanciulle dal cuore infranto bononiensi e agli esteti petroniani della palla a spicchi.

Scrive Marco Tarozzi in una delle prefazioni al libro (l’altra è di Dan Peterson): “La sua non è solo una storia di sport. Parla di smarrimento e rinascita interiore. Come chiunque, scrivendo, trova la forza di raccontare di sé, John si è messo a nudo. Ha raccontato i suoi errori giovanili ma anche la sua determinazione, la volontà con la quale (potenza dei vent’anni) riusciva sempre a raddrizzare le sue nottate esagerate, sudando e lottando sul parquet. Ha messo nero su bianco il viaggio di un campione che ha inseguito i suoi sogni, spesso ingenui, e ha saputo ritrovare la sua strada. “Mi chiamavano Kociss” è una storia intensa, movimentata, palpitante. Ed è pura, sincera, onesta come l’uomo che ha deciso di scriverla è sempre stato, nei giorni felici e in quelli difficili. Un gran bel messaggio a beneficio delle nuove generazioni. Non solo quelle che vivono di basket”.

Where time is lost and truth begins,

the chains are finally broken.

All without you find within,

once scarred and tangled, now silken.

The wordly lust that pained once so,

seems now just an ancient token.

The Fearless Falcon flies so high,

True love can never be broken.

(Quando il tempo è sprecato e la verità incombe/ le catene finalmente si spezzano./ Tutto ciò che senti dentro di te,/ ciò che era ferito e confuso, ora è appianato.// Il desiderio che un tempo addolorava/ ora sembra solo un ricordo lontano./ Il Falcone impavido vola così alto,/ L’amore vero non può essere infranto).

Immenso e sempre giovane, appassionato, John. Noi ti chiamiamo ancora Kociss!

ALBERTO FIGLIOLIA