Coach Luca Bechi( foto di E.Zito 2013)

Coach Luca Bechi (foto di E. Zito 2013)


DailyBasket
arricchisce ancora una volta il proprio bouquet di firme di prestigio con l’ingresso di Luca Bechi, coach tra gli altri di Biella, Brindisi e Virtus Bologna. L’allenatore toscano ci presenta il primo appuntamento della sua nuova rubrica “Diario di bordo“, una sorta di viaggio tra le mille esperienze di un coach di basket fatta ovviamente non solo di schemi ed allenamenti ma anche di viaggi, scouting, crescita professionale ma anche umana. E nella prima puntata ci racconta della sua esperienza al torneo di Portsmouth per valutare nuovi giovani prospetti, senza farsi mancare anche un assaggio di NBA.

I SOGNATORI DI PORTSMOUTH

Buongiorno a tutti.
A bordo di questa nave diretta negli States il seguente equipaggio: coach Cavina con una valigia (vuota) in più per i regali alla famiglia e il sottoscritto con una valigia sola (piena) per non essere tentato dallo shopping a stelle e strisce…
Il nostro viaggio nella settimana prima di Pasqua inizia con un tuffo del pianeta NBA. Il Martedì sera infatti c’è in programma il derby tra Brooklyn Nets ed i New York Knicks.
Il Barclays Center, la casa dei Nets, è un gioiello dentro e fuori. All’interno uno spettacolo di luci e colori. Il cosiddetto entertainment di contorno è di primo livello. Lo spettacolo in campo un po’ meno. I Knicks si presentano senza Carmelo Anthony ed in più il risultato sportivo non conta ormai più; il pathos (che già normalmente si alza solo per i playoffs) e’ davvero basso anche perché NY ha voglia di finire bene una stagione negativa e Brooklyn è già con la testa ai playoffs. Ne viene fuori un monologo in tinte bluarancio con i Knicks che prendono subito un vantaggio di 20/25 punti in una partita soporifera. Ciò ci induce ad avvicinarci all’uscita prima della sirena finale dove troviamo una (poco) simpatica sorpresa. Una vera e propria bufera di neve dopo che avevamo passato le ore precedenti girando per Manhattan a maniche corte. Come dire tutto fa spettacolo davvero!
Il giorno dopo con un pallido sole ma un bel -3 di prima mattina ci rechiamo all’aeroporto dove da lì voliamo verso Norfolk, cittadina della Virginia famosa per la sua base navale. Il mercoledì è l’inizio del torneo dei rookies, quello che tecnicamente viene chiamato PIT (Portsmouth Invitational Tournament). In questa manifestazione infatti nella settimana che precede la Pasqua un gruppo di 64 giovani matricole giocano per mettersi in mostra verso il panorama professionistico. Scouts, manager, allenatori ed “esperti” di basket in generale provenienti dal mondo NBA e non, compaiono a bordo campo per selezionare, catalogare (scoutizzare) questi ragazzi poco più che ventenni che, lontani dai fasti (e dai contratti garantiti) del primo giro cercano uno spot nei magnifici “secondi trenta“.
La storia di questa manifestazione a sentire i più esperti (il sottoscritto era una matricola) parla di qualche sorpresa che sia in positivo che in negativo che solitamente si verifica grazie alla volontà di questi giovanotti e turba le previsioni (mock draft in gergo) della vigilia. Oltre il dorato mondo dell’NBA ci sono poi gli altri. Il “resto del mondo” cestistico – spagnoli, tedeschi, italiani, qualche slavo, molti del basket nuova frontiera (paesi del medio e estremo oriente) – confluisce qui a pre-scoutizzare quello che sarà poi visto di nuovo nei video e nelle Summer League post draft di Orlando e Las Vegas. Il format è molto snello e semplice: 8 squadre composte da 8 giocatori che si affrontano per tre giorni. Il quarto è il giorno delle finali.

I ragazzi sono vivi, attivi, carichi, pimpanti. Ci tengono, ci credono. Sognano.

Ma anche combattono.

Con le armi che hanno a disposizione. Grande energia e atletismo. Abnegazione e volontà. Pochi fondamentali individuali e una minima traccia di gioco di squadra che esalta i più sfacciati (Dawkins su tutti) e nasconde i giocatori di sistema. Ne escono partite poco utili dal punto di vista della comprensione di un giocatore di squadra, emergono gli atleti, i combattenti e giocatori da palla in mano.
Alla fine del sabato le squadre hanno giocato dal primo all’ottavo posto, i ragazzi hanno dato tutto quello che potevano per destare l’attenzione degli addetti ai lavori e il giorno di Pasqua ognuno torna a casa propria.
Noi torniamo con buone sensazioni, un tablet (il taccuino del terzo millennio) pieno di note sulle quali lavoreremo e modelleremo i profili di questi baldi giovani che tenteranno di rincorrere i propri sogni e (sempre) troppo tardi capiranno che la loro NBA è oltreoceano.
Impossibile raccontare di ognuno di loro in questo contesto. Ci siamo divertiti però a eleggere i nostri “fab five” con menzione d’onore per l’mvp della manifestazione.
Come direbbero loro, enjoy.

PG – Markel Starks (Georgetown Hoyas)
Ha goduto di molta più libertà in campo rispetto al college, dimostrandosi a suo agio con la palla in mano e solido nelle decisioni; soprattutto soddisfacente da un punto di vista realizzativo (15, 23 e 19 i punti messi a referto), ha messo in mostra capacità di battere l’uomo e un tiro di alto livello. Ha anche deciso la finale con una giocata di grande leadership: con i suoi sotto di un punto e una manciata di secondi sul cronometro, si è preso la responsabilità di fermarsi e palleggiare in punta, aspettando la sirena per mandare a bersaglio una tripla dalla distanza NBA.

SG – Davion Berry (Weber State Wildcats)
A Weber State per raggiungere un altro ragazzo di Oakland, l’amico Damian Lillard, per alcuni problemi di voti in uscita dalla high school ha passato i primi due anni di college in Division II. Di certo uno dei migliori realizzatori presenti al PIT, tiratore eccezionale dal palleggio ma ha anche confermato di poter arrivare al ferro con facilità; risposte molto interessanti anche sul lato difensivo del campo nonostante dovesse marcare a volte anche le ali, è stato possibile metterlo senza problemi sui tre ruoli esterni. Per la composizione del roster della sua squadra non ha avuto grossi compiti in termini di costruzione del gioco, ma potrebbe giocare anche da playmaker nella sua carriera da professionista.

SF – Taylor Braun (North Dakota State Bison)
E’ strano pensare che fosse a un passo dal giocare in Division II prima che gli arrivasse l’offerta di North Dakota State, l’unica da un college di Division I. Ha portato per la seconda volta la squadra che fu di Ben Woodside all’NCAA Tournament, ma a Portsmouth erano attese risposte proprio a quelle ultime due partite collegiali non scintillanti: non ha deluso le attese comportandosi bene tanto in attacco quanto in difesa, giocando però allo stesso tempo in modo intelligente e controllato anche a discapito delle cifre personali, senza tirare a canestro qualunque pallone gli capitasse tra le mani (come ad esempio ha fatto invece Andre Dawkins). Non è facile trovare un giocatore con il suo fisico e allo stesso tempo quella capacità di battere l’uomo, attaccare il ferro e giocare con naturalezza dal palleggio, una combinazione che ha portato qualche fan del North Dakota un po’ troppo esaltato a chiamarlo con il soprannome di LeBraun.

PF – Jerrelle Benimon (Towson Tigers)
Al PIT ha giocato solo le prime due partite, poi come anche qualcun altro ha deciso di non prendere parte all’ultima partita del tabellone di consolazione, ma è bastato per lasciare l’impressione di essere di un altro livello rispetto agli altri partecipanti. Entusiasmanti la sua abilità nel passaggio, la sua naturalezza nel creare dal palleggio e la sua versatilità, ha doppia dimensione in attacco anche se a Portsmouth ha segnato soprattutto vicino a canestro. Si è anche confermato come uno dei migliori collegiali a rimbalzo, riproponendo la doppia cifra di media che aveva già tenuto nelle ultime due stagioni.

C – Ronald Roberts Jr. (Saint Joseph’s Hawks)
E’ l’unico ad aver giocato quattro partite al PIT: dopo le prime due con la sua squadra d’origine (K&D Rounds Landscaping), è stato spostato nella semifinalista Norfolk Sports Club per sopperire all’infortunio occorso a Juvonte Reddic. Ha giocato in continuo crescendo fino a sfoderare la miglior prestazione in finale (chiusa con 24 punti e 9 rimbalzi offensivi), che stava per decidere con una schiacciata su rimbalzo offensivo prima della prodezza di Starks a fil di sirena. Di sicuro ciò che più impressiona nel suo gioco sono l’intensità e l’energia che mette costantemente in campo, è un atleta eccezionale e sempre il primo a correre per il campo o andare a rimbalzo, oltre a difendere entrambi i ruoli sotto canestro; il range di tiro non è molto esteso ma a Portsmouth ha mostrato una buona mano vicino a canestro, e ha segnato a volte dalla media distanza. Il passaporto dominicano lo rende tesserabile come cotonou, una caratteristica che in alcuni campionati europei (tra cui ovviamente il nostro) rappresenta un valore aggiunto.

Sesto uomo: C – Davante Gardner (Marquette Golden Eagles)
Menzione particolare per l’MVP del torneo, al college già Sixth Man of the Year della sua conference nelle ultime due stagioni; un ragazzo cresciuto a due passi da Portsmouth e per questo uno dei più apprezzati dai (pochi) “tifosi” presenti. Non passa di certo inosservato visti i 130 Kg che si porta dietro, un peso che lo porta forzatamente a non avere un’autonomia elevata in campo, ma quel corpaccione ha creato molti problemi ai giocatori avversari, che si trattasse di un “piccolo” portato a infrangersi su un suo blocco o di un “lungo” che provasse invano a spostarlo sotto canestro. Facile immaginare che non sia un campione di salto, ma resta sorprendente la rapidità con cui muove i piedi nonostante la stazza: un’arma non convenzionale in post dato che si sposa con una mano educata e un fisico che assorbe qualunque contatto. Un punto a suo favore anche il tiro dalla media distanza, a Portsmouth sempre affidabile.

LUCA BECHI