La follia di marzo e
quella strada a senso unico

Sapete qual è stata la più folle follia di marzo nella storia del basket universitario americano? Quella che scosse gli States nell’ormai lontano 1966, poi raccontata – con qualche inevitabile licenza cinematografica – nella pellicola “Glory Road”, prodotta giusto 40 anni dopo dalla Disney. È la storia di Don Haskins e dei suoi ragazzi di Texas Western: se già la conoscete, potete scegliere se fare un rapido ripasso oppure cliccare altrove; in caso contrario, oltre a invitarvi a vedere il film (il cui dvd ho infilato di recente nel lettore per l’ennesima volta, come faccio negli ultimi anni ogni volta che la stagione volge alle Final Four), mi fa solo piacere se avrete la bontà di continuare a leggere…

Dunque: El Paso, Texas, 1961. Don Haskins, un passato da giocatore e un presente da allenatore di una squadra femminile, viene chiamato come capo-allenatore al Texas Western College, che non brilla certo per disponibilità finanziaria. Così come l’America non brilla certo in diritti civili: mancano infatti ancora un po’ di anni al “Civil Rights Act” (con cui il 2 giugno 1964 il senato americano abolirà la segregazione razziale), tanti locali pubblici vietano ancora l’ingresso ai neri e sulle pagine sportive dei quotidiani si possono leggere fini disquisizioni tecnico-tattiche del tipo “i giocatori neri non sono abbastanza intelligenti per il basket, non sono abbastanza capaci di gestire le situazioni di gioco”. E ci sono anche coach che chiedono ai loro assistenti di apporre un asterisco sulle schede degli studenti di colore neo-iscritti alla facoltà, così da non perdere tempo nel visionarli…

Il nostro Don non è però tra questi coach. Forse all’inizio lo fa solo per necessità (visti i ridotti fondi del suo ateneo), forse ha già in testa dove vuole arrivare… fatto sta che Haskins inizia un recruiting a 360°, passando anche per tanti playground dove giocano solo “coloured” (esilaranti al proposito diverse scene del film, con gli assistenti terrorizzati all’idea di infilarsi in quartieri “all black” e i futuri giocatori di Texas Western convinti di essere pedinati dalla polizia), e pezzo dopo pezzo costruisce la sua squadra vincente senza guardare il colore della pelle. Per Haskins creare l’amalgama significa anche e soprattutto creare l’integrazione in un Paese che ancora non ce l’ha (e dove peraltro, in Mississipi, ancora oggi il 46% dei cittadini vorrebbe una legge per vietare i matrimoni interrazziali…): un lavoro duro, ma anche una sfida che lo sprona ad andare avanti con tanta più energia quanto più l’ambiente intorno si dimostra ostile. Andare avanti sino alla stagione 1965-1966, in cui Texas Western (oggi University of Texas at El Paso) inanella un eccezionale 23-1 in regular season, preludio appunto alla “Glory Road” che sarà anche il titolo dell’autobiografia di Haskins.

Nel primo turno del cartellone i “Miners” (come vengono chiamati i ragazzi di Haskins) iniziano a scavare il tunnel che li porterà al trionfo superando Oklahoma City per 89-74; dopo di che sconfiggono all’overtime Cincinnati 78-76 e quindi – segno del destino? – hanno ragione per 81-80 di Kansas dopo ben due tempi supplementari. Relativamente più facile invece il successo in semifinale contro Utah: 85-78 è il biglietto che vale la finale contro la fortissima University of Kentucky allenata dal leggendario Adolph Rupp. E contro di lui, il più noto dei coach che chiedevano ai loro assistenti di apporre il famoso asterisco, ma soprattutto davanti ai milioni di americani incollati a radio e Tv quel 20 marzo 1966, Don Haskins mette in atto la sua lucida follia: uno “starting five” interamente di colore, mai visto prima in una finale del basket universitario. E anche gli altri due uomini impiegati quella sera dal rivoluzionario coach sono neri: finisce 72-65 per Texas Western e quel titolo ha ancora oggi un valore che va oltre lo sport.

Interrogato spesso al proposito, Don Haskins (che ha allenato fino al 1999 a El Paso, dov’è spirato a 78 anni nel 2008) ha sempre risposto: “Non ho mai pensato al fatto che fossero 5 giocatori di colore, semplicemente pensavo che fossero i 5 migliori giocatori che potevo schierare nello starting-five”. Nel film, anche facendo la tara alle già citate licenze cinematografiche (incluso il fatto che non ci furono episodi di intolleranza razziale nella partita contro la East Texas State University, oggi Texas A&M University, che ha per questo a suo tempo avviato un’azione legale contro la Disney), è però raccontato con grande efficacia il percorso non solo sportivo fatto compiere da Haskins alla sua squadra, oltre che ai tifosi, agli studenti e ai docenti della Facoltà di El Paso. E un’altra leggenda del basket d’oltreoceano come Pat Riley, che per l’ennesimo gioco del destino affrontò in finale Texas Western con la maglia di Kentucky, non esitò a dichiarare nel 2006 in occasione dell’uscita del film: “Fu la Proclamazione di Emancipazione del 1966. Quando penso ai vari Wade, Kobe e Shaq (non aveva ancora avuto LeBron alle sue dipendenze, ndr), il mio pensiero va a quella notte, a quanto è stata importante per questo sport”.

Ah, dimenticavo: il sottotitolo di “Glory Road”, diretto da James Gartner e con Josh Lucas nei panni di Don Haskins, è “Vincere cambia tutto”. Chissà perché, ma quando – pochi giorni dopo averlo rivisto – ho letto le recenti polemiche innescate da un noto coach italiano (che il nostro basket s’è peraltro subito premurato di disinnescare tra un curioso silenzio istituzionale e un’archiviazione federale…), mi è venuto in mente proprio quel “vincere cambia tutto”: la strada per la gloria e per il cambiamento ha una sola direzione. E siamo certi che il primo a saperlo è proprio quel coach.

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