A inizio carriera lo chiamavano Agonia. Facile capire il perché. Eppure Claudio Baglioni merita tutta la nostra attenzione e non solo quella, perché è stato (forse) il primo a dedicare una canzone allo sport più bello del mondo. “Il pivot” uscì nel 1977 ed era contenuto nell’album “Solo”. Ripercorriamone i passi principali.
Un grande interprete della canzone italiana. Anzi, no: uno stracciamaroni di dimensioni cosmiche. Con Claudio Baglioni funziona così, inutile tentare di convergere in una ipotetica via di mezzo. E allora manicheismo a manetta, tifosi del bel canto vs. difensori della purezza del rock’n’roll: una lotta senza fine. Eppure, al di là di come la si pensi, noi che tiriamo avanti a forza di pane, palla a spicchi e poco altro, il grande interprete/stracciamaroni di cui sopra dovremmo come minimo ringraziarlo. Perché Baglioni è stato il primo in Italia (al netto di disattenzioni e/o dimenticanze) a dedicare una canzone al basket. Nel lontano 1977.
Il ’77 e le P38, gli opposti estremismi a minare un Paese devastato dalla violenza. Anno di gran confusione sotto il cielo con una colonna sonora dominata, almeno fino all’esplosione della disco-music, da cantautori tristi e soprattutto impegnati. Eugenio Finardi, Francesco Guccini, Claudio Lolli, consapevolmente o meno, erano i feticci del movimento extraparlamentare di sinistra e quando Claudio Baglioni se ne uscì con “Solo” sembrava si fosse attentato all’ortodossia rivoluzionaria dell’epoca.
L’album, peraltro di buon successo (oltre 700000 copie vendute), conteneva dieci pezzi: sul lato B (c’era ancora il vinile), posizione numero tre, ecco irrompere “Il pivot”. Ode a una pallacanestro che non era più la stessa di prima, quando il centro (il pivot, appunto) si limitava e prendere e dare legnate dall’alto dei suoi due metri e passa. Il tempo avrebbe riservato ai lunghi un ruolo meno statico, Chuck Jura e John Sutter, con la loro pallacanestro all-around, rappresentavano il futuro. Ma Claudio Baglioni da cosa aveva attinto per scrivere “Il pivot”? Non lo sapremo mai, ma il sospetto che la sua fosse una visione ristretta ai playground di periferia è forte. I dubbi sono tanti, a partire dal problematico attacco: “Il pallone mi colpì, d’un tratto mi svegliai dai miei pensieri vuoti” sembra la descrizione di una partitella giocata in parrocchia, con un fesso che pensa agli affaracci suoi mentre compagni e avversari sputano sangue, fino a quando qualcuno pensa di tirargli una risolutoria pallonata in testa. A quel punto salta fuori un omone di due metri (già, il pivot), un po’ imbolsito (ha 38 anni) ma ancora efficace. Il testo prosegue descrivendo l’abbigliamento del poverino e la sua camicia a quadri, il che va a rafforzare l’ipotesi di una partita tra amici, probabilmente tra scapoli e ammogliati, oppure tra neomelodici e anticipatori del movimento grunge. Il pivot e il bell’addormentato nel campetto (si presume un play) giocano nella stessa squadra, si stimano e si cercano ma più che altro finiscono per somigliare ai protagonisti di un film di Ingmar Bergman: “andammo avanti per un po’ senza dirci una parola” è frase di una tristezza unica, evocatrice di mancanza di collaborazione o del fatto che i due si conoscono talmente bene da non aver bisogno di parole. Intanto il pivot segna a tutto spiano (“tre in fila ne azzeccò”) anche se a un certo punto ha bisogno di riposo e quel “poi ci fermammo un poco nel cortile, odor di cena e di tv” indica forse un time-out oppure, più semplicemente, che qualcuno si è rotto di starsela lì a menare e non vede l’ora di mettere qualcosa sotto i denti. Non prima di aver salutato con un’azione da manuale: “con una finta si smarcò, io svelto gli passai (licenza poetica, ndr) e lui schiacciò di forza”. È l’apoteosi. I due archiviano la gara e immaginano, con un’indubbia punta di frustrazione, che sia il pubblico sia lì ad applaudirli: “sotto il cerchio parve quasi di sentir le gradinate che tremavano e gridavano per lui e anch’io battei le mani per quell’ultimo canestro”. Il pivot se ne va, porta via il pallone, che è suo (“il pallone sotto il braccio e se ne andò”) e, chissà, la partita potrebbe essere finita non per sopraggiunta stanchezza ma per colpa di quel lungaccione antipatico scappato via con la palla: figurarsi se poteva lasciarla a qualcuno. Ma vai un po’ a discutere con uno alto due metri! Si tratta comunque un finale degno che però lascia spazio a più di un interrogativo. Tipo: perché non dire qualcosa anche degli avversari? Era un cinque contro cinque o un due contro due a metà campo? Il pivot giocava con la camicia a scacchi per un vezzo o le sue canotte erano sporche?
E la musica? Beh, diciamo che è un po’ lenta, “Il pivot” non è certo un pezzo di quelli tirati, almeno non quanto la pelle dello stesso Baglioni. Che, almeno in questo caso, si rivela uno stracciamaroni di dimensioni cosmiche. Già, la seconda che ho detto.