Virtus BolognaCivolani, questione di cuore: “Lo sport è ciclico, torneremo grandi”

di Marco Tarozzi

“Decano” è un termine che non gli piace, e nemmeno gli rende merito. E’ segno di rispetto, certo, ma spesso si utilizza per indicare chi ha dato tanto a un mestiere e ora lo guarda da fuori, con distacco. Non è così, per Gianfranco Civolani. Lui non ha smarrito la passione, la lucidità di analisi e soprattutto quella curiosità che per un giornalista è la trave portante di una professione. A tutto questo aggiunge una memoria prodigiosa, un bagaglio di aneddoti unico e la capacità di raccontarli. E siccome è anche giusto esternare le proprie fedi, quando si è a posto con la coscienza, nel suo caso c’è un rapporto di lunga data con la pallacanestro e con i colori della Virtus. Mai rinnegato, ci mancherebbe.

“Iniziò con una partita giocata a porta D’Azeglio. Era il 1949, la Virtus reduce da quattro scudetti venne a fare un’amichevole con la squadra della sezione socialista Matteotti. Vinse con distacco, ovviamente, credo di ricordare 55-15, e mio padre che era tra gli organizzatori della sfida mi disse: “Abbiamo perso. Ma contro la grande Virtus”. Da quel giorno scattò qualcosa, cominciai a frequentare la Sala Borsa e sono diventato virtussino, per sempre. La cosa paradossale è che pur avendo frequentato, anche per lavoro, il mondo del basket per una vita, non ho mai avuto incarichi dirigenziali in Virtus, mentre invece sono stato per un anno e mezzo responsabile ufficio stampa e consigliere d’amministrazione della Fortitudo di Beppe Lamberti. Poco male, si era al piano di sotto e quando la società rilevò i diritti dell’Alcisa per la A io non ero d’accordo su alcune cose e me ne andai. Mai vissuto il derby sull’altra sponda…”

Le è passata davanti la storia biaconera. Immagini indelebili.

“Credo che a Bologna solo Romano Bertocchi abbia una militanza più lunga. Siamo io, lui e pochi altri a poter dire di aver visto in campo Canna, Alesini, Calebotta. Con Nino siamo diventati amici. Ricordo i primi tempi: io giocavo a calcio in un campetto in via Petrarca, all’Osservanza. C’era una ragazza carina che veniva a vederci. Un giorno arriva questo spilungone e capimmo che era lì per corteggiare lei. Il risultato è che la Laura, questo era il nome della ragazza, lo spilungone che poi era Nino se lo sposò, dandogli tre figlie splendide. Per ripicca lo ribattezammo “il pistolone”, e sbagliavamo: si rivelò un uomo intelligente, colto e simpaticissimo”.

Il suo rapporto con Gigi Porelli l’ha raccontato tante volte, con nostalgia. Chi era, per lei, l’Avvocato?

“Un uomo all’apparenza truce, certamente aspro, ma straordinariamente generoso. Io ci ho discusso mille volte, perché quando si incontrano due che vogliono avere ragione non è facile navigare in acque tranquille. E noi eravamo così. Ma alla fine siamo stati sempre grandi amici, anche quando mi querelò perché avevo coniato il soprannome “Duce truce”. Ma come, gli dissi, mi quereli? E lui: le querele si fanno agli amici, mica a chi non si conosce. Il pubblico ministero ci mandò a quel paese, dicendo che aveva cose più serie a cui pensare, ma intanto non ci parlammo per un anno. Fu Cipriano Gherardi a metterci uno di fronte all’altro. Due str…, ci disse, adesso state qui finché non fate pace. E ci fece un regalo”.

Un aneddoto: la famosa telefonata notturna per chiedere consiglio, si fa per dire, sull’arrivo di Bucci…

“Mi chiama e fa: senti, io ho Di Vincenzo allenatore, ma non mi dispiace Alberto Bucci. Che ne dici? Fammici pensare, rispondo. E lui: tu pensa, intanto io Bucci l’ho già preso. Gigi Porelli è stato uno dei più grandi dirigenti della storia dello sport bolognese, e del basket italiano. Mi ha anche aiutato molto a tenere a galla la Libertas, di cui sono stato presidente per una vita, senza mai chiedere nulla in cambio. E’ sempre nei miei ricordi”.

Domanda difficile: i migliori giocatori di tutte le Virtus che ha visto.

“In assoluto, per me se la giocano Danilovic e Cosic. Quanto a talento puro dico sicuramente Richardson. Sugar l’avevo visto giocare nella Nba, con la canotta dei Knicks. Non si può raccontare che giocatore era a quei tempi. Tra gli italiani, dico che se la giocano Brunamonti e Villalta. Per Gigi, ovviamente, Renato era un gradino sopra chiunque”.

Che idea si è fatto della Virtus di oggi?

“La seguo. Più che altro in tv, ma qualche puntata a palazzo la farò, come sempre. Che dire? Nello sport si va a cicli, e questo è un momento in cui bisogna stare sul pezzo… Girano pochi denari, e la gente per fortuna lo ha capito. Bisogna stringere i denti, spendere energie per mantenersi in Serie A per qualche anno perché prima o poi ci riprenderemo. Successe così anche quando spopolavano Ignis e Simmenthal. Alla Virtus erano rimaste le briciole, poi arrivarono Porelli e Dan Peterson e tornammo a guardare tutti dall’alto. Non da un giorno all’altro, ma ci arrivammo. E sono certo che succederà ancora”.