Vorrei per prima cosa chiarire un malinteso che mi sembra sia maturato in chi mi legge: non ho assolutamente nulla in contrario nei confronti del pick and roll. Sta scrivendo uno che all’età di 20 anni, quando andò (da giocatore!) con la sua squadra in collegiale a Rovigno, si fece una settimana esclusiva di solo pick and roll agli ordini del coach della femminile dell’Olimpija di Lubiana (buonissima Serie A jugoslava, ai tempi). Fra l’altro vedi caso il suddetto coach era il compagno di vita della mia seconda miglior amica dell’infanzia e compagna di classe alle elementari che poi, trasferitasi a Lubiana, si diede al basket arrivando addirittura a giocare una partita in nazionale. Si vede che il basket era nel mio destino. Ci facemmo un mazzo enorme, in quanto l’uomo, pignolo fino all’inverosimile, stava ore e ore a correggere la posizione dei piedi del bloccante (blocchi dorsali obbligatori! – quelli che se li fai oggigiorno pensano che sei sbarcato da Marte) e a insistere sul timing giusto, che doveva essere preciso al decimo di secondo, del passaggio del portatore di palla sul blocco, ma soprattutto del momento in cui il bloccante doveva completare il giro col tagliafuori sul difensore e scattare a canestro. Per cui, ritornato a casa, stavolta nelle vesti di coach, forte delle nuove nozioni apprese, a mia volta torturai i miei giovani virgulti per settimane e settimane tentando di far fare loro quello che era toccato di fare a me. Il pick and roll dunque lo conosco e lo pratico da oltre 40 anni, per cui dire che mi sta antipatico è totalmente errato. Il problema col pick and roll moderno è che è tutto fuor che un pick and roll: è un pick and pop, pick and something of your choice, fuor che roll. Nel senso che continuo a meravigliarmi che ci siano così pochi bloccanti che, una volta che il loro marcatore effettua la classica uscita a farfalle a metà campo per spaventare il palleggiatore (normalmente facendo anche quello che considero il fallo più idiota di tutti che un giocatore possa commettere), taglino forte a canestro per ricevere un comodo passaggio. Lo fa quasi sempre Mason Rocca, uno a caso parlando di gente intelligente, ed infatti guarda caso ne nasce sempre qualcosa di pericoloso. Nella mia semplicistica visione del nostro gioco infatti dovrebbe essere il taglio a canestro del bloccante (normalmente un lungo) a creare il gioco, nel senso che in caso di rotazione e chiusura difensiva sul tagliante il palleggiatore (normalmente il play) dovrebbe essere in grado di scegliere l’opzione giusta trovando l’uomo lasciato momentaneamente libero (che però dovrebbe muoversi e rendersi pericoloso – e qui di solito cascano tutti gli asini! – nel senso che il resto della squadra rimane a guardare, a parte uno che per contratto scappa in un angolo per tirare eventualmente da tre). Il pick and roll rimane dunque uno dei movimenti fondamentali in attacco, su questo non può pioverci: la prova che sia efficace deriva proprio dal fatto che in fase di preparazione pre-partita i vari coach fra le cose più importanti sulle quali devono decidere una è proprio la strategia difensiva da adottare contro i pick and roll avversari, cosa che sottintende il fatto che una difesa perfetta non può esistere e si deve scegliere da che parte tirare la coperta che sarà sempre troppo corta. Deve essere però fatto bene: la posizione del bloccante, il timing del passaggio sul blocco (“sul” blocco, non accanto) e del taglio rimangono fondamentali e di sfuggita dirò anche che mi sembra che oggigiorno si dedichi troppo poco tempo con i giovani proprio alla corretta esecuzione di questo importantissimo fondamentale di squadra, per cui quando i virgulti crescono vanno a piazzare blocchi approssimativi, provano a passare sul blocco dalla parte sbagliata, il bloccante taglia a capocchia eccetera. Il tutto senza nessuno che li corregga. E si sa che una cosa o è fatta bene, o non vale neanche la pena di farla. Quello che contesto è, come per ogni altra cosa, l’uso scriteriato che se ne fa. Come sempre in tutte le cose in medio stat virtus: per esempio iniziare l’attacco alla zona con un pick and roll mi sembra la stupidaggine più galattica che si possa concepire. Eppure ci sono allenatori di straordinario grido che lo fanno, per cui deve sfuggirmi qualcosa. Io pensavo infatti che contro le zone debba muoversi la palla più che i giocatori che devono semplicemente andare a riempire i vuoti che una zona sempre concede creando triangoli o soprannumeri e via dicendo. Insomma tutto deve essere fatto a tempo debito mischiando vari tipi di soluzioni possibili, preferibilmente usando di più quelle che possono costituire tatticamente una sorpresa o strategicamente possano creare, per la struttura della squadra avversaria, vantaggi per noi nel senso di creare mismatch o situazioni di 1 contro 1 nelle quali il nostro giocatore è nettamente più forte di quello loro e così via.

Detto questo (volevo essere breve!) passerei subito al tema del giorno che secondo me potrebbe essere molto meno folcloristico di quanto sembri e di come viene trattato praticamente da tutti i media mondiali: parlo ovviamente della “Lin-sanity” e della favola del brutto anatroccolo che di colpo rivitalizza un’importante squadra dell’NBA salvando addirittura il posto al suo coach. Io, da buon antipatizzante dell’ NBA, di questo Jeremy Lin non sapevo niente (e chi lo sapeva?), ma soprattutto continuo a non saperne ancora niente se non quello che si legge: che era stato tagliato da Golden State e Houston (sbaglio?) trovando alla fine per caso un posto nel roster di New York alle prese con vari infortuni (Stoudemire e Anthony, fra gli altri, risbaglio?). Ovviamente non potevo non interessarmi della cosa ed ho visto una serie di highlights, ma soprattutto seguo le gesta del taiwan-americano attraverso il TG sportivo di ESPN che un giorno sì e l’altro pure apre con il resoconto delle sue ultime prodezze. Senza Anthony e con Stoudemire appena rientrato i Knicks hanno vinto 8 partite di fila (sbaglio? – correggetemi pure, sull’NBA confesso tutta la mia ignoranza), e tutto, pare, per merito del piccolo play trattato fino a qualche settimana fa da inguaribile brocco. Ora che fare il play “normale” e non decerebrato sia nell’NBA molto facile lo dimostra platealmente il successo di Rubio (nell’NBA giocano anche Udrih e Dragić e, permettetemi, so quello che valgono) che in Europa sembrava essere sulla via della broccaggine, ma ciò nondimeno penso che la storia di Lin sia comunque estremamente significativa e che possa essere foriera di una ventata di fenomenale aria fresca, che dico, addirittura di rivoluzione che possa finalmente riportare l’NBA sulla retta via. Si tratta in breve del fatto che improvvisamente l’opinione pubblica americana è stata messa di fronte all‘ovvia verità che continuiamo a ribadire su questo sito, che cioè per prima cosa il basket è questione di testa, di capacità di creare, di visione di gioco, insomma di intelligenza. Lin è da questo punto di vista la persona perfetta: aria da scolaretto imbelle, laureato a Harvard, cioè cranio sicuro, nel senso che a Harvard non danno lauree a caso per meriti sportivi o di altro genere (ne va della loro fama di essere “la” Università per antonomasia in America, con tutto quel che ne consegue, prestigio, retta per studiarci eccetera…fra l’altro Rocca si è diplomato a Princeton, o sbaglio pure qui?), cestista improbabile, entra per caso e la sua squadra comincia a vincere. Sceneggiatura perfetta per uno di quei film di ambiente sportivo che tanto piacciono agli Americani e che sanno fare tanto bene, insomma il suo impatto sull’opinione pubblica e’ stato devastante. Non solo, ma tutti i messaggi che questa vicenda manda sono di segno altamente positivo e la gente forse potrebbe finalmente capire che non occorre essere Tarzan volanti da liana a liana per essere bravi giocatori di basket, ma che servono altre qualità che sono in definitiva anche molto più simpatiche perché più accessibili alle persone normali che non siano superman. So di essere troppo ottimista, ma lasciatemi almeno l’illusione che si possa essere di fronte ad un cambiamento di rotta e che chi regge le sorti dell’NBA, visto anche utilitaristicamente l’impatto mediatico della cosa che ha portato il basket su tutte le prime pagine dei giornali, dirotti almeno parti della sua strategia di propaganda verso il classico messaggio che dovrebbe essere insito nel basket “sano”: a volte non occorre essere fenomeni fisici, basta essere intelligenti e tecnicamente capaci per avere successo. E, lo dico fra i denti, si può essere anche giallo-bianchi senza neanche una goccia di sangue nero. E per essere forti non occorre neanche andare in giro con i cuffioni, ascoltare musica rap e vestirsi in modo sgargiante circondandosi di sventole a tanto a notte (con successiva causa milionaria).

Ricordo sempre quando sentii per la prima volta lo spot di Shaq: “Do you want me to shoot? No! Do you want me to pass? No! Do you want me to slam? Yeeeeea…!” Mi vennero i brividi alla schiena e mi chiesi subito dove sarebbe andato a finire il basket prendendo questa piega. La risposta ce l’abbiamo sotto gli occhi, purtroppo. Sogno uno spot di Lin che vada circa così: “Do you want me to shoot? Yes, please (siamo fra laureati, dunque educati)! Do you want me to shoot? Yes, please! Do you want me to pass? Yes, very please! Do you want me to slam? (pernacchione gigantesco) Who damn cares!!!