CHICCOVentitrè punti, in quell’ultima partita. Ventitré anni, un’età in cui pensi soltanto alla vita, al presente e al futuro. Ventitrè dicembre, la mattina in cui ci svegliammo prendendo quel pugno nello stomaco, scoprendo attoniti che Chicco Ravaglia se ne era andato per sempre.
Numero dannato, come lo è nella memoria quella notte in cui stava tornando a Bologna, felice come il ragazzino che ancora sapeva essere, con le sue passioni ed emozioni. E tornava dopo aver dimostrato al Pianella di Cantù, una manciata di ore prima, di essere ancora un giocatore di basket. E che giocatore.
Quella notte in cui tutto si è spento dopo le luci e gli applausi. La vita, a volte, è un libro scritto male.

Fa effetto, pensare che oggi Enrico Ravaglia avrebbe quasi trentanove anni, una bella carriera alle spalle e certamente ancora la voglia di pallacanestro che aveva ereditato da papà Bob, supereroe di mille battaglie su campi meno illuminati ma pieni di passione. Il talento veniva da lì, era roba di famiglia. Così come l’educazione, la sportività, quel suo essere sincero e solare che lo aveva fatto amare da tutti, perché era impossibile non volergli bene, che ti parlasse seriamente o ti prendesse allegramente in giro.

Un predestinato, che da bambino stava sempre attaccato a papà Bob, ovunque ci fosse basket da giocare, da vedere, da vivere; che nelle giovanili andava in campo con gente più grande di lui; che a diciannove anni si muoveva già sui parquet di Serie A, in prestito a Varese, e a ventuno dava alla Virtus il suo contributo, fondamentale, per conquistare la Coppa Italia sotto la guida di Roberto Brunamonti. Uno che, così giovane, era cresciuto alla scuola di maestri di pallacanestro come Piero Bucchi e Giorgio Valli, Ettore Messina e Dodo Rusconi. Uno che era entrato nel cuore di Sasha Danilovic, che ne amava la spontaneità e il talento, a tal punto da prenderlo sotto la propria ala protettrice.

Non si scaricava mai, Chicco. Aveva una vitalità incredibile, e si portava addosso quella caratteristica che fa di un giocatore un campione: la voglia di lasciare il segno, sempre e comunque. Su una partita, sulla vita.
Sono questi gli uomini che entrano nell’immaginario collettivo. Hanno tecnica, volontà e cuore. Chicco è stato uno di loro, per questo non è mai diventato un ricordo lontano, per chi l’ha conosciuto. Per questo è ancora una presenza concreta, per chi ha avuto l’onore e la fortuna di incorciarne il sorriso, e di volergli bene.

Marco Tarozzi