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Ci sono persone che semplicemente, per il fatto di essere esistite, “sono”. Intendo dire, che non pensi mai che possano morire. Nel senso che, nel mondo che hanno attraversato, il loro mondo, resteranno per sempre, per quello che hanno fatto e dato. Jim McGregor, lo “zingaro rosso”, è una di queste persone. Apparteneva, appartiene, a quella generazione di “apostoli americani” che a partire dagli anni ’50 percorrevano in lungo e in largo il mondo per diffondere il verbo di  Naismith.

Personalmente ci è capitato di incontralo parecchie volte, ahinoi,  che il ricordo inequivocabilmente rivela il peso dell’età, quando lui attraversava l’estate italiana del basket con le formazioni All Star, e, soprattutto, quando allenava a Gorizia, e giocarci contro era sempre una domenica di festa grande. Si, perché, anche se spesso, molto spesso o quasi sempre, si perdeva, tuttavia era assicurato il bottino grosso: si segnava a manetta. Infatti, nel basket dello “zingaro rosso” la difesa non era la priorità contemplata. Il suo motto era “segnare due punti in più degli avversari”, non certo quello di subirne due in meno. Il gioco spettacolare era il suo vangelo, tutta velocità e contropiede, un accenno di pressing a tutto campo, e l’unico che doveva impegnarsi un po’ era il playmaker avversario, ma superato quel primo sbarramento per i lunghi era prateria aperta di caccia grossa…

Sicuramente l’ascetica del basket moderno ha ribaltato l’ottica, e oggi, da parecchio tempo, è la difesa la spina dorsale dell’evoluzione del gioco. Ma permetteteci di dire che, nella stagione in cui da quella del pionierismo si passava a quella del proselitismo, quella era la formula magica, dell’incalzante sequenza di canestri, per promuovere uno sport “nuovo” da contrapporre alla staticità del calcio degli 0-0…

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