Il lungo viaggio di Al Jefferson, 10 stagioni e 4 squadre NBA, lo ha portato fino ad un passo dall’All Star Game di New Orleans. Uno dei migliori centri dell’intera lega nel suo primo anno in North Carolina stava (e sta) mettendo insieme dei numeri di tutto riguardo che lo avrebbero portato dritto fra le stelle del firmamento NBA, se solo non si chiamasse Al Jefferson, pensano i più maliziosi. Invece, siamo di fronte a un caso evidente di “All Star snub”, snobbato da tifosi ed allenatori: un po’ la storia della sua carriera, sottotraccia e mai con le luci dei riflettori puntate su di se.

(Kent Smith/Getty Images)

(Kent Smith/Getty Images)

Non poteva andare diversamente per il ragazzo nato a Monticello, Mississipi e cresciuto nella vicina Prentiss, dove, a soli sei mesi, perde il padre Alvin, morto annegato, che gli lascia in eredità il soprannome, Big Al, ed una stazza che gli permetterà di dominare su qualsiasi campo avrebbe giocato. All’high school è, infatti, la stella indiscussa dello Stato e diventa uno dei giocatori migliori del paese a livello di liceo: i suoi 42.6 punti, 18 rimbalzi e 7 stoppate nell’anno da senior gli permettono di guadagnarsi le attenzioni degli scout dei college e della NBA. L’Università dell’Arkansas lo attende, ma lui decide di dichiararsi per il draft 2004, dove sarà scelta alla posizione numero 15 dai Boston Celtics.

Dicevamo snobbato, e difatti, anche a causa di alcuni infortuni, la sua permanenza ai Celtics passa davvero inosservata, con un picco di 32 punti contro i Nets e un premio di miglior giocatore settimanale. Per i Celtics sarà più decisivo nell’affare che porta Kevin Garnett in Massachussets, e con lui un titolo e tanti successi per la squadra di Doc Rivers. Inizia un periodo ancora più anonimo per il ragazzone del Sud degli Stati Uniti: a Minnesota firmerà subito un estensione di contratto che gli garantisce ben 65 milioni di dollari in 5 anni, ma questo non fa che aumentare le pretese nei suoi confronti e si rivelerà un fardello non da poco, viste le prestazioni sempre incolori della squadra. Nel 2009 i problemi fisici tornano a tormentarlo, con il ginocchio destro fuori uso dopo aver, per 50 partite, tenuto la migliore media in carriera (23 punti, 11 rimbalzi e quasi 2 stoppate). Viene scambiato con gli Utah Jazz, dove assaggia nuovamente, dopo tempo, i playoffs, nella stagione 2012: ma dopo tre anni di ottime statistiche ma pochi risultati (anche qui i Jazz avevano intrapreso la ricostruzione della squadra dopo l’addio di Deron Williams), Al Jefferson decide che, nella free agency del 2013, gli Charlotte Bobcats, la peggiore squadra degli ultimi anni, sono la franchigia perfetta dalla quale ripartire.

(Fernando Medina/Getty Images)

(Fernando Medina/Getty Images)

Ad oggi, nessuno può dargli torto, nonostante un contratto dai più criticato (41 milioni per 3 anni): Charlotte, nonostante un record negativo (35-37) è ad un passo dall’ottenere l’accesso ai playoffs e, con i suoi 21.6 punti e 10.5 rimbalzi a gara, Jefferson è il perno di una squadra dimostratasi, forse per la prima volta nella storia dei Bobcats, solida e difficile da affrontare. “Mi hanno fatto subito sentire parte della famiglia e sentivo il rispetto verso la mia persona e verso il mio tipo di gioco”.

Dall'area piccola,Jefferson tira con una percentuale migliore rispetto alla media della lega di 7,5

Dall’area piccola,Jefferson tira con una percentuale migliore rispetto alla media della lega di 7,5

Già, il suo tipo di gioco. Al Jefferson è un giocatore come ormai pochi ne nascono. Un “re” del post basso, un giocatore diverso da quasi tutti i centri della lega. Dotato di una tecnica da far abbacinare gli esteti del gioco, nella stagione in corso, Big Al ha dato lezioni di post basso un po’ a tutti con il mese di marzo (e subito dopo l’All Star Game) che è stato quello finora più produttivo, con ben 25 punti di media a partita con picchi di 38 e 19 contro i campioni in carica dei Miami Heat e i 35 contro i Brooklyn Nets di mercoledi sera. Nella stagione in corso segna il 58% dei tiri scoccati all’interno dell’area piccola. Il che, per una squadra che mai ha avuto una valida presenza sotto canestro, è un toccasana, l’antidoto contro il record di 28-120 delle ultime due stagioni. Inoltre, la presenza di un mostro sacro Patrick Ewing nello staff tecnico di coach Steve Clifford, lo ha aiutato e continuerò ad aiutarlo nella sua continua crescita individuale.

Nonostante sia un veterano da 10 stagioni NBA, Al Jefferson ha soltanto 29 anni ed è pronto a guidare gli Bobcats, anzi dal prossimo anno gli Hornets, alla rinascita. Michael Jordan, vessato da ogni parte per le sue scelte manageriali, può tirare un sospiro di sollievo, e per questo deve ringraziare anche e soprattutto il signor Al Ricardo Jefferson, che ha dato l’impressione di trovarsi come a casa propria e di non voler lasciare mai più Charlotte: “Il mio paese non è nemmeno più grande di una stanza, se ci fosse una squadra NBA a Prentiss, andrei li, non mi interessa la città. Quando una franchigia NBA ti vuole con se, lo fai e basta”.

Al Jefferson ha giocato nei Celtics delle 18 sconfitte consecutive, nei T’Wolves dei tre coach in tre anni e nei Jazz dell’era post Sloan-Williams. Alla fine, grazie anche al lavoro di “recruiting” di Kemba Walker, Jefferson approda a Charlotte, non la migliore, forse la peggiore delle destinazioni se vediamo la storia di questa franchigia. Ma tutto lascia pensare che, in fin dei conti, peggio di com’è andata fino alla stagione scorsa, non può davvero andare.