Cos’è Busts&Steals? Semplificando, all’interno del mondo del Draft NBA, un bust è un giocatore che, a dispetto delle alte aspettative su di lui nel momento in cui viene scelto, fallisce poi (più o meno) clamorosamente sul campo, scomparendo in tempi (più o meno) brevi dal panorama NBA. Uno steal invece è, per certi versi, l’esatto contrario: un giocatore su cui, al momento del draft, nessuno avrebbe puntato un centesimo e che poi, spesso sfruttando occasioni e situazioni propizie per mettere in mostra il suo talento, stupisce tutti costruendosi un ruolo (talvolta di primo piano) nella Lega. Insomma, il draft non è una scienza esatta, è risaputo, ma proprio qui sta il suo fascino.

Ripercorreremo quindi la storia di quindici draft recenti alla ricerca di busts e steals: che fine hanno fatto le prime scelte sparite quasi subito dai parquet NBA? E chi sono quei giocatori che invece, scelti al secondo giro ed entrati nella Lega in punta di piedi, ne sono poi diventati protagonisti? È questo lo scopo di questa rubrica, che, dopo il Draft 1998 pubblicato un mese fa, prosegue oggi con il 1999. Buon divertimento!

Draft 1999

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Draft strano, molto strano, quello del 1999, in cui al primo giro sono stati scelti alcuni ottimi giocatori (Elton Brand al n. 1, Steve Francis al n. 2, Baron Davis al n. 3, Lamar Odom al n. 4, Wally Szczerbiak al n. 6, Richard Hamilton al n. 7, Andre Miller al n. 8 Shawn Marion al n. 9, Jason Terry al n. 10, Corey Maggette al n. 13, Ron Artest aka Metta World Peace al n. 16, James Posey al n. 18, Andrei Kirilenko al n. 24), molti flop colossali e pochissimi “onesti mestieranti”; paradossalmente, questi ultimi sono stati molto più numerosi al secondo giro; non solo, sono stati ben più numerosi di giocatori scelti al primo giro che non hanno mai messo piede su un parquet NBA, o quasi. Ma andiamo con ordine.

1º giro

Flop totali: sono scomparsi dalla NBA

5. Jonathan Bender (F, 211 cm, Indiana Pacers)
Tanta, tanta sfortuna nella carriera di questa filiforme ala (“Kevin Durant prima di Kevin Durant”, secondo l’allora co-proprietario dei Pacers) approdata nella NBA direttamente dalla high school. Scelto dai Raptors ma immediatamente ceduto ai Pacers, i primi due anni sono di difficile assestamento, anche a causa di qualche primo acciacco. Il terzo anno va un po’ meglio, gioca 78 partite e segna 7,4 punti a gara, ma dal 2002, dopo la firma di un’estensione contrattuale da oltre 28 milioni in quattro anni, i problemi al ginocchio destro diventano cronici: in quattro stagioni scende in campo appena 76 volte, fino a venire tagliato. Sparisce quindi dalla circolazione fino alla stagione 2009/10, quando torna a sorpresa in campo per 25 partite con la maglia dei Knicks; a stupire, più che il suo ritorno, è il motivo: negli anni di inattività, infatti, Bender ha studiato per mettere a punto un congegno, chiamato JB Trainer Intensive, che aiuta a rinforzare i muscoli delle gambe senza gravare sui tendini; una volta realizzato e provato su se stesso, torna nella Lega per dimostrare che il suo metodo funziona. Dopo il ritiro definitivo è diventato milionario grazie a questa sua invenzione, oltre ad aver fondato la Jonathan Bender Enterprises, che lavora nel sociale. La sua carriera professionistica, chiusa con una media di 5,5 punti e 2,2 rimbalzi in 262 partite (in 8 stagioni), è ormai un lontano ricordo.

Trajan Langdon, MVP delle Final Four di Eurolega del 2008

Trajan Langdon, MVP delle Final Four di Eurolega del 2008

11. Trajan Langdon (SG, 192 cm, Cleveland Cavaliers)
Dopo una brillante carriera in un college del livello di Duke e una medaglia di bronzo conquistata con la maglia della Nazionale USA ai Mondiali del 1998, Langdon debutta in NBA con sole 10 partite nel suo anno da rookie; la stagione successiva fa un po’ meglio (6 punti di media in 65 gare), ma al terzo anno il suo minutaggio cala nuovamente. Così, l’“Assassino dell’Alaska” decide di provare in Europa, e ancora non sa che sarà destinato a entrare nella storia del basket del Vecchio Continente. La prima meta è l’Italia, a Treviso, dove vince campionato, Coppa Italia e Supercoppa italiana. L’anno dopo va in Turchia, all’Efes Pilsen, vincendo nuovamente il campionato. Al terzo anno in Europa si sposta in Russia, alla Dinamo Mosca, per poi passare, dopo una stagione, al CSKA, dove rimarrà per sei stagioni diventandone una delle bandiere e conquistando due titoli della VTB, tre coppe di Russia e, soprattutto, due Euroleghe (la seconda volta è anche MVP delle Final Four), agli ordini di Ettore Messina. Attualmente, dopo aver lavorato per qualche anno come scout per gli Spurs, è Director of Player Administration ai Cavaliers.

12. Aleksandar Radojević (C, 221 cm, Toronto Raptors)
Non ha avuto una carriera pari alla sua altezza questo gigante slavo scelto dai Raptors con una scelta tanto alta quanto rischiosa. Si sa, un giocatore oltre i 220 cm fa sempre gola, ma spesso si rivela un colossale flop. E in effetti, a causa di un infortunio, la sua prima stagione in NBA dura appena 3 partite, per 24 minuti, 7 punti e 8 rimbalzi in totale, mentre nella seconda nemmeno mette piede in campo, né a Toronto né a Denver, dove viene ceduto a gennaio, sempre a causa di problemi fisici. L’anno dopo viene spedito a Milwaukee, ma dopo due mesi viene tagliato e torna in Europa, prima all’Olimpija Ljubljana e poi a Livorno, con cifre non proprio esaltanti. Va un po’ meglio nei due anni successivi, in Germania e Grecia, tanto che nel 2004 prova a tornare in NBA, ai Jazz, con i quali gioca 12 partite in cui accumula appena 19 punti e 28 rimbalzi. Lì si chiude la sua esperienza oltreoceano, ma la sua mediocre carriera continua tra Polonia, Grecia e Cipro, fino al ritiro nel 2012.

14. William Avery (PG, 190 cm, Minnesota Timberwolves)
Playmaker uscito da Duke, quando si dichiara al draft fa notizia perché è il primo giocatore allenato da Mike Kryzewski, insieme a Elton Brand e Corey Maggette (scelti rispettivamente al n. 1 e al n. 13), ad abbandonare il college prima del quarto anno. Se ai suoi due ex compagni tutto sommato non è andata così male, la sua carriera NBA invece è durata appena tre disastrose stagioni in Minnesota, chiuse tutte con cifre simili: 2,7 punti, 1,4 assist e il 33% al tiro in 8,5 minuti. Dopodiché, Avery ha iniziato la sua carriera da giramondo, passando per Francia, Grecia (più volte), Israele, Ucraina, Germania, Turchia e Polonia, sempre in squadre di livello medio-basso, per poi ritirarsi nel 2012 e iniziare una carriera da allenatore e scopritore di talenti.

La famosa schiacciata di Vince Carter su Frédéric Weis alle Olimpiadi di Sydney 2000

La famosa schiacciata di Vince Carter su Frédéric Weis alle Olimpiadi di Sydney 2000 (Foto: nytimes.com)

15. Frédéric Weis (C, 218 cm, New York Knicks)
Quella di Frédéric Weis è una storia triste, la storia di un fallimento sportivo amplificato dai media e dal destino e che solo per un pelo non è finita in tragedia. La sua scelta al n. 15 da parte dei Knicks viene ancora oggi utilizzata come esempio di uno dei maggiori bust nella storia del draft. Nell’estate ’99, dopo una summer league tutt’altro che entusiasmante, coach Van Gundy, che probabilmente non aveva approvato la sua scelta al draft, fa capire che non avrà spazio e la franchigia decide di lasciarlo a Limoges per permettergli di crescere e migliorare; Weis non firmerà mai per i Knicks, ma diventerà suo malgrado famoso, anzi, famosissimo, durante le Olimpiadi del 2000, quando Vince Carter lo supererà in salto per andare a inchiodare una delle schiacciate più famose e incredibili della storia della pallacanestro. Da quel momento, Weis, oltre che come “il flop scelto dai Knicks”, sarà conosciuto anche come “quello posterizzato da Vince Carter”. Un paio di anni più tardi gli nasce il primo figlio, Enzo, ma presto si scopre che il piccolo è affetto da una grave forma di autismo; la tragedia lo porta alla separazione dalla moglie Celia e all’alcolismo. Nel frattempo, la sua carriera va avanti in Spagna, prima a Málaga e poi a Bilbao, comprensibilmente con molti più bassi che alti, finché la situazione diventa per lui ingestibile, insopportabile: nel gennaio del 2008, Frédéric raggiunge una piazzola di sosta a Biarritz e decide di farla finita ingoiando un’intera scatola di sonniferi. Dieci ore dopo, però, a sorpresa, si risveglia; paradossalmente, per lui si tratta dell’ennesimo fallimento, ma stavolta è un fallimento che fa sì che possa ripartire con la sua vita. Smette di bere, riallaccia a poco a poco i rapporti con Celia e riprende a giocare a basket, chiudendo la carriera, dopo una breve esperienza a Menorca, nel 2011 a Limoges, il club in cui aveva iniziato a giocare. Certo, non è una favola, e quindi il lieto fine è solo parziale: Frédéric ancora oggi fa i conti con la depressione, causata dalle condizioni del figlio più che dalla sua fallimentare carriera cestistica; è proprietario di un bar-tabaccheria a Limoges e prova tirare avanti, giorno dopo giorno.

17. Cal Bowdler (PF-C, 208 cm, Atlanta Hawks)
La carriera di questa ala forte naturalizzata irlandese (ha anche vestito la maglia della Nazionale, finché è esistita) è durata davvero poco: nella NBA ha disputato solo tre stagioni ad Atlanta con cifre a dir poco ridicole (3 punti e 1,9 rimbalzi in 9,7 minuti), anche se rimarrà comunque nella storia della Lega per essere stato l’unico giocatore ad aver commesso 7 falli in una partita (arbitri e addetti al tavolo si sono accorti solo a fine partita che il giocatore non era uscito una volta commesso il sesto fallo). Nel 2002 approda in Italia, prima a Bologna sponda Virtus (dove però non gioca nemmeno una partita), poi a Siena, Roma e Varese, con statistiche simili a quelle dei suoi anni tra i pro, ritirandosi nel 2004 a soli 27 anni. Non c’è solo una carriera ben al di sotto delle aspettative tra i motivi del suo precoce ritiro: durante i suoi anni in Italia, la sua compagna Brooke decise di tornare negli USA con la figlia, andando a vivere a Hollywood, entrando nel mondo dello spettacolo e iniziando presto ad abusare di droghe. Posto davanti alla scelta di continuare la sua carriera oltreoceano o dedicarsi a Brooke prima che fosse troppo tardi, Cal ha scelto la famiglia, e la scelta ha pagato, dato che Brooke è faticosamente uscita dai suoi problemi di dipendenza; i due si sono sposati, hanno avuto un’altra figlia e vivono felicemente in Virginia.

19. Quincy Lewis (SG-SF, 201 cm, Utah Jazz)
Carriera poco esaltante anche per Quincy Lewis, guardia/ala che non ha brillato né in NBA, né in Europa: scelto dai Jazz, trascorre nello Utah tre stagioni, giocando poco (74 partite da rookie, 71 in totale nei due anni successivi) e male (3,8 punti in 12,3 minuti di media). Prova quindi a rilanciarsi in Israele con la maglia del Maccabi, vincendo il campionato e la Coppa d’Israele, e la stagione dopo prova a tentare nuovamente la carta della NBA, ma la sua esperienza ai Timberwolves va anche peggio di quella con i Jazz, scendendo in campo in sole 14 partite per 65 minuti e 16 punti in totale. Si mette quindi il cuore in pace e riparte dall’Europa, prima ad Alicante, poi all’Olympiacos, poi di nuovo ad Alicante e infine a Bilbao, dove disputa le ultime due stagioni della sua carriera. Oggi è commentatore delle gare dei Timberwolves per Fox Sports North.

20. Dion Glover (SG-SF, 196 cm, Atlanta Hawks)
Se la scelta di Bowdler, per gli Hawks, è stata disastrosa, con Glover è andata un po’ meglio, ma non di molto: la guardia da Georgia Tech, infatti, ha giocato agli Hawks per quattro stagioni e mezzo, con cifre di sicuro non esaltanti, ma nemmeno terribili, toccando anche la doppia cifra di media nell’ultima mezza stagione, prima di venire più o meno inspiegabilmente tagliato. Chiude la stagione a Toronto, segnando però la metà di quanto faceva ad Atlanta, mentre l’anno dopo scende in campo appena sette volte con la maglia degli Spurs, chiudendo la stagione in Turchia con il Fenerbahçe. Inizia quindi la sua esperienza nelle minors, prima in D-League, con i Bakersfield Jam, poi tra Libano, Repubblica Dominicana e Venezuela, ritirandosi nel 2008. Oggi è assistente per i Grand Rapids Drive, nella NBDL.

Tim James con la divisa dell'esercito americano in Iraq (Foto: miamiherald.com)

Tim James con la divisa dell’esercito americano in Iraq (Foto: miamiherald.com)

25. Tim James (SF, 201 cm, Miami Heat)
A livello di cifre nella NBA, questa ala piccola è stata una delle maggiori delusioni del primo giro: nato a Miami, dopo esserne stato l’idolo locale sia a livello di high school che di college con gli Hurricanes viene scelto proprio dagli Heat, con cui però gioca solo 4 partite nella sua prima stagione. L’anno dopo va a Charlotte, la sua stagione “migliore” (30 partite), mentre la sua ultima annata tra i pro è a Philadelphia, dove mette piede in campo solo 9 volte. In totale fanno 43 partite in tre anni, con 1,6 punti e 1,1 rimbalzi di media in 6,1 minuti. Nel 2003 inizia la sua carriera oltreoceano, tra Turchia, Venezuela, Giappone e Israele, ma senza mai lasciare davvero il segno. Oggi è assistant coach al Vance-Granville Community College, ma tra il suo ritiro e la nuova esperienza cestistica c’è stata la guerra in Iraq nel 2007, a cui James ha scelto di partecipare entrando nell’esercito, senza però rivelare il suo passato da giocatore professionista per evitare eventuali trattamenti di favore.

26. Vonteego Cummings (PG, 191 cm, Golden State Warriors)
Anche questa guardia da Pittsburgh ha disputato solo tre stagioni in NBA, seppur con cifre di gran lunga migliori di molti altri giocatori scelti al primo giro del 1999. Scelto dai Pacers ma subito mandato ai Warriors, a Oakland Cummings disputa due ottime stagioni, soprattutto per un giocatore scelto al n. 26: sempre abbondantemente oltre i 20 minuti di impiego medio, con 9,4 punti di media da rookie e 7,3 al secondo anno. Ceduto ai Sixers, a Philadelphia gioca poco, anzi, pochissimo: 8,6 minuti a gara, per 3,3 punti. Nell’estate del 2002 firma per i Cavs, ma viene tagliato prima dell’inizio della stagione: un po’ a sorpresa, finisce qui la sua carriera in NBA, chiusa con 6,9 punti, 1,9 rimbalzi e 2,7 assist in 19 minuti di media, ma si apre la sua lunga esperienza tra minors e basket europeo. Inizia con i Westchester Wildfire, nella USBL, ma nel 2003 è in Italia, con la casacca della Carisbo Castelmaggiore. Dopodiché, Serbia (Vršac e poi Partizan Belgrado, con cui vince campionato e Lega Adriatica, e Vojvodina Srbijagas), NBDL (Fort Worth Flyers), Israele (Maccabi), Spagna (Estudiantes), Croazia (Cedevita), Grecia (Ilysiakos), Cipro (Keravnos) e Polonia (Trefl Sopot, con cui vince la Coppa di Polonia). Dopo tre anni di inattività, nel gennaio 2015, a 39 anni, torna in campo con la maglia degli Atenienses de Manatí, nella lega portoricana.

29. Leon Smith (PF, 208 cm, San Antonio Spurs)
Col senno di poi, la scelta di Leon Smith da parte degli Spurs fa abbastanza sorridere, soprattutto se si pensa che alla fine del secondo giro hanno scelto tale Manu Ginóbili (vedi oltre). Viene comunque girato immediatamente ai Mavs, ma seri problemi psicologici (è cresciuto in un orfanotrofio a causa dell’abbandono dei genitori) non gli permettono di scendere in campo e anzi lo costringono al ricovero in un istituto psichiatrico per diverse settimane. Tagliato a febbraio, vaga per le minors americane finché, nel 2002, gli Hawks non gli danno una seconda possibilità; gioca 14 partite (2,2 punti e altrettanti rimbalzi) e viene poi ceduto ai Bucks, che lo tagliano senza farlo giocare. Torna quindi a girare per le minors e per la lega portoricana, mettendo in mostra le sue doti di rimbalzista e stoppatore, fino al 2004, quando ha l’ultima chance nella Lega, con i compianti Seattle Supersonics, con i quali però scende in campo solo una volta. Riprende quindi la sua esperienza nei campionati di bassa lega, tra Giordania, Argentina, Messico, Cile e i Fury della ABA, nella natia Chicago, dove gioca fino al 2014.

Mezze delusioni: hanno reso molto meno del previsto

Steve Francis in una recente apparizione in pubblico

Steve Francis in una recente apparizione in pubblico

2. Steve Francis (G, 191 cm, Vancouver Grizzlies)
La presenza di Steve Francis in questa sezione non dipende tanto dal fatto che ha avuto una carriera al di sotto delle aspettative in generale, ma che, a partire da un certo momento in poi, la sua carriera e di conseguenza la sua vita hanno iniziato a disgregarsi gradualmente. Seconda scelta assoluta (e Rookie of the Year insieme a Elton Brand), atleta pazzesco scelto da Vancouver ma mandato a Houston pochi giorni dopo le sue dichiarazioni sul fatto che mai avrebbe giocato ai Grizzlies, le prime sei stagioni (facciamo anche sei e mezzo) di “Steve Franchise” sono state davvero stellari: tre volte All-Star e una media di 19,3 punti, 5,9 rimbalzi (è un playmaker, ricordiamolo) e 6,4 assist tra Rockets e Magic. Il declino inizia durante la seconda stagione ai Magic, quando viene sospeso per condotta deleteria per la squadra; poi, nonostante le precedenti smentite del GM dei Magic, il 22 febbraio 2006 viene ceduto ai New York Knicks. Quella, idealmente, può essere considerata la data in cui ha inizio la fine: a New York, Francis dimezza il suo fatturato in campo, anche a causa di qualche acciacco; a fine stagione, nella notte del draft, i Knicks lo spediscono ai Blazers, che però lo tagliano, rendendolo unrestricted free agent. Francis sceglie di tornare a Houston, rifiutando offerte economicamente più allettanti, ma problemi fisici sempre più seri e ricorrenti gli permettono di scendere in campo solo per 10 partite (5,5 punti e 3 assist) prima di sottoporsi a un intervento chirurgico che mette fine alla sua stagione e, di fatto, anche alla sua carriera NBA. Nel dicembre 2008 i Rockets, per motivi puramente economici, lo cedono ai Grizzlies, la squadra che l’aveva scelto al draft (anche se ora giocano a Memphis) e che lo taglia un mese dopo, senza farlo scendere in campo: ormai è chiaro a tutti che la carriera di Francis è al capolinea. Proverà a scendere in campo di nuovo, nel 2010, in Cina, con la maglia dei Beijing Ducks, ma in 4 partite riesce a giocare solo 14 minuti, per 2 punti totali. Dopo il ritiro ha provato ad avviare diverse attività, ma l’opinione comune è che fatichi ad accettare la fine della sua vita cestistica, sia per alcune dichiarazioni subito dopo la cessione da parte dei Rockets e del taglio da parte dei Grizzlies («A questo punto della mia carriera non ho più niente da dimostrare… A Houston ero il cambio di uno che nemmeno era stato scelto al draft [Rafer Alston, ndr]… A Memphis partivo alle spalle di Mike Conley e Kyle Lowry, due giocatori che non avevano dimostrato di essere al mio livello. Per fortuna il mio agente ha risolto il contratto per portarmi via da lì…»), sia per alcune sue foto recenti, che lo ritraggono come un uomo molto più vecchio dei suoi 38 anni e con evidenti problemi di salute.

4. Lamar Odom (F, 208 cm, Los Angeles Clippers)
Anche Lamar Odom è un bust sui generis, molto sui generis, ma ci viene da dire che forse la sua pur ottima carriera non è comunque stata all’altezza di ciò che ci si poteva legittimamente aspettare da un giocatore con il suo talento (lo ammettiamo, siamo sempre stati fan sfegatati di Lamarvelous). Forse troppo presto etichettato come “il nuovo Magic”, Odom ha messo in mostra la sua classe fin dalla sua prima partita tra i pro, chiusa con 30 punti e 12 rimbalzi. In campo sa fare tutto, davvero tutto, e lo dimostra sia nei primi quattro anni ai Clippers, sia a Miami, dove rimane una sola stagione prima di tornare a Los Angeles, sponda Lakers questa volta. Come detto, gioca bene, anche benissimo, ma tutti si aspettano un salto di qualità definitivo che è nelle sue corde ma che non avverrà mai. Ai Lakers vince, e non poco (due titoli e un premio come Sixth Man of the Year), ma sempre da comprimario, sia per la presenza di campioni del calibro di Kobe Bryant e Pau Gasol, sia perché accetta che il suo ruolo in campo sia quello di “equilibratore”, quello che fa la cosa giusta al momento giusto ma senza prendersi troppe responsabilità, pienamente al servizio della squadra; o almeno questa è l’impressione. Nel 2011 passa a Dallas, e qui iniziano i problemi: non solo in campo, ma anche, anzi soprattutto, fuori. Con i Mavericks gioca la peggior stagione della sua carriera, distratto da troppe attività extra-cestistiche (tipo il discusso reality familiare con l’ancora più discussa moglie, Khloé Kardashian); finisce addirittura brevemente in D-League prima di risolvere il contratto in aprile. In estate torna ai Clippers, per l’ultima esperienza NBA della sua carriera; gioca tutte le partite della stagione, ma con medie ancora più basse che a Dallas. Nel febbraio 2014 firma per due mesi per il Laboral Kutxa, in Spagna, ma gioca solo due gare; in aprile firma con i Knicks, ma viene tagliato a luglio senza aver mai messo piede in campo. Nel frattempo gli episodi inquietanti fuori dal campo si susseguono: Odom, che già aveva avuto qualche problema a inizio carriera (sospeso per due volte per droga ai tempi dei Clippers), viene arrestato per guida in stato d’ebbrezza nell’agosto 2013, e quattro mesi dopo si separa dalla moglie; finché si arriva alla storia recente: nell’ottobre 2015, Odom viene ricoverato d’urgenza dopo essere stato trovato in un bordello di Las Vegas privo di sensi per un’overdose; si risveglia dopo tre giorni di coma, e da quel momento non si hanno per ora altre notizie.

2º Giro

Stelle a sorpresa: chi li ha scelti al secondo giro ha avuto davvero un colpo di genio (o di fortuna…)

57. Emanuel Ginóbili (SG-SF, 198 cm, San Antonio Spurs)
Come descrivere Manu Ginóbili in poche righe? Cresciuto, cestisticamente e non, in Argentina, a 21 anni approda in Italia, prima alla Viola Reggio Calabria e poi alla Virtus Bologna; in breve tempo diventa la stella assoluta di una squadra che vince campionato, Eurolega e, l’anno successivo, la Coppa Italia. Nel 2002 avviene il passaggio in NBA; dopo un primo anno di assestamento (7,6 punti in 20,7 minuti) e un secondo anno in cui dimostra che può fare sul serio (12,8 punti), entra a far parte delle stelle della Lega (anche due convocazioni all’All-Star Game), con sette stagioni di fila con almeno 15 punti di media (e un massimo di 19,5 nel 2007/08), il tutto condito da circa 4 rimbalzi e 4 assist a gara, che dimostrano quanto sia completo come giocatore. Manu però non ha mai fatto del basket una questione di cifre, ma di vittorie; e presto iniziano ad arrivare anche quelle, tanto che in 13 stagioni in maglia Spurs vince quattro titoli NBA (oltre a un oro e un bronzo olimpici e a un argento mondiale con la maglia dell’Argentina). Oggi, a 38 anni, è ancora in campo, ancora in doppia cifra, ancora decisivo, ancora pronto per lottare per l’anello: non male per uno scelto con la penultima chiamata al draft…

Onesti mestieranti: scelti al secondo giro, si sono costruiti una (più o meno) solida carriera NBA.

32. Michael Ruffin (PF-C, 206 cm, Chicago Bulls)
La carriera di questo lungo con tanto fisico e poco talento non è stata certo strepitosa, e nemmeno mediocre in realtà, ma è vero che è riuscito a rimanere nella Lega per nove stagioni, ritagliandosi un ruolo ben definito nei Bulls, Sixers, Jazz, Wizards, Bucks e Blazers. Ovvero quello del lungo che, in uscita dalla panchina, deve entrare per prendere rimbalzi, fare falli, prendere a sportellate il più talentuoso lungo avversario e non tirare mai (o quasi) a canestro. Ruffin ha interpretato alla lettera questo compito, tanto che le sue medie in carriera parlano di soli 1,7 punti segnati, ma di 3,9 rimbalzi in 14,4 minuti a partita. Oltre alla NBA, ha avuto esperienze anche in Spagna, con il Caprabo Lleida (2002/03) e con l’Obradoiro, l’ultima sua squadra prima del ritiro nel 2011 e la successiva carriera come allenatore.

Ruffin ha raggiunto una certa fama “grazie” a questo video, ripreso anche da Shaquille O’Neal nel suo celebre Shaqtin’ a Fool, in cui nel tentativo di buttare via un pallone prima della sirena lo passa nelle mani dell’avversario Morris Peterson, che infila la tripla che vale l’overtime.

35. Calvin Booth (PF-C, 211 cm, Washington Wizards)
Un ruolo simile l’ha avuto Calvin Booth, anche se con risultati leggermente migliori: nelle sue dieci stagioni in NBA tra Washington, Dallas, Seattle, ancora Dallas, Milwaukee, ancora Washington, Philadelphia, Minnesota e Sacramento ha tenuto medie tutto sommato dignitose di 3,3 punti, 2,8 rimbalzi e 1 stoppata in 12,2 minuti di impiego, con il picco dei 6,2 punti della sua prima stagione a Seattle e dei 4,5 rimbalzi dell’annata divisa tra Washington e Dallas. Il suo momento di gloria rimarrà gara 5 contro i Jazz al primo turno dei Playoffs 2001 (al meglio delle 5 partite, quindi decisiva), quando a 9,8 secondi dal termine segna il canestro della vittoria per i suoi Mavs. Dopo il ritiro ha fatto lo scout prima per gli Hornets e poi per i Timberwolves, di cui è anche Director of Player Programs.

Gordan Giriček ai tempi degli Orlando Magic (Foto: orlandomagicgreek.blogspot.com)

Gordan Giriček ai tempi degli Orlando Magic (Foto: orlandomagicgreek.blogspot.com)

40. Gordan Giriček (SG-SF, 201 cm, Dallas Mavericks)
Questa talentuosa guardia croata approda in NBA solo nel 2002, dopo la lunga esperienza in patria al Cibona Zagabria e una stagione stellare al CSKA. Scelto tre anni prima dai Mavs, viene successivamente ceduto agli Spurs, che a loro volta lo mandano ai Grizzlies, squadra in cui debutta segnando 29 punti alla sua prima partita tra i pro. A metà stagione viene ceduto ai Magic, e l’anno dopo, ancora una volta a stagione in corso, finisce agli Utah Jazz. Rimane a Salt Lake City per tre stagioni piene più due metà; nel suo ultimo anno, infatti, cambia addirittura tre squadre, passando dai Jazz ai Sixers (in seguito a un violento diverbio con coach Jerry Sloan) e dai Sixers (dove gioca appena 12 partite) ai Suns. Qui finisce la sua esperienza oltreoceano, con medie carriera di 9,6 punti e 2,5 rimbalzi, con il massimo dei 12,3 punti della sua annata da rookie e il minimo dei 5,8 punti della sua ultima, travagliata stagione. Visto il calo delle cifre e del minutaggio a sua disposizione, decide di tornare in Europa, prima al Fenerbahçe, dove rimane due stagioni, e poi per un’ultima annata nel Cibona Zagabria, prima di ritirarsi a 34 anni. Da sempre appassionato di chitarra, oggi è proprietario di una scuola di musica e di danza in Croazia.

41. Francisco Elson (C, 213 cm, Denver Nuggets)
Altro lungo di quantità che è riuscito a ritagliarsi uno spazio come specialista nella NBA. Di origine surinamese e di nazionalità olandese, mai in doppia cifra nemmeno nelle sue stagioni spagnole (due a Barcelona, dove ha vinto campionato e Copa del Rey, una Valencia e una a Siviglia), ha iniziato la sua carriera nella Lega a Denver, dove è rimasto per tre stagioni. Poi, una stagione e mezza agli Spurs (con un titolo NBA in bacheca), mezza ai Sonics, una e mezza ai Bucks e una ai Jazz, per poi finire la carriera in maglia Sixers, scendendo in campo per cinque partite nel 2011/12. Le sue cifre sono le classiche dei giocatori di questo tipo: 15,3 minuti di media, 3,7 punti, 3,5 rimbalzi, con il picco dei 5 punti e 4,8 rimbalzi nell’anno a San Antonio. Si ritira nel 2013 dopo una breve esperienza in Iran.

43. Lee Nailon (F, 206 cm, Charlotte Hornets)
Classico esempio di giocatore troppo lento e senza nemmeno una parvenza di tiro da fuori per fare l’ala piccola e troppo poco fisico per fare l’ala forte, questa vecchia conoscenza dei tifosi dell’Olimpia Milano, dopo l’esperienza in Italia nella stagione successiva al draft, è riuscita comunque a costruirsi una discreta carriera in NBA, seppur non per molte stagioni. Due anni a Charlotte (il secondo a 10,8 punti di media), uno a New York, una stagione divisa tra Atlanta, Orlando a Cleveland prima di arrivare alla migliore della sua carriera, a New Orleans nel 2004/05, quando fa registrare 14,2 punti e 4,4 rimbalzi di media in quasi 30 minuti a partita. Dopodiché, una mediocre stagione a Philadelphia e il ritorno in Europa, tra Israele, Russia e Ungheria, e in giro per il mondo, tra Libano, Puerto Rico, Messico, Corea del Sud e Argentina.

Todd MacCulloch e la sua nuova disciplina sportiva (Foto: cbssports.com)

Todd MacCulloch e la sua nuova disciplina sportiva (Foto: cbssports.com)

47. Todd MacCulloch (C, 213 cm, Philadelphia 76ers)
Grande e grosso, anzi, tendente al sovrappeso (130 kg sono tanti anche per un 213 cm), per questo centro canadese scelto dai Sixers a metà del secondo giro potrebbe valere lo stesso discorso già fatto per i vari Ruffin, Booth ed Elson, se non fosse che, dopo due stagioni di assestamento nella Lega, al terzo anno le sue cifre sono più che raddoppiate. Nel 2001, infatti, il suo passaggio ai Nets coincide con un aumento considerevole del minutaggio, che supera i 24 minuti di media, e di conseguenza cresce anche il fatturato, che sfiora la doppia cifra per i punti (9,7) e aggiunge 6,1 rimbalzi, 1,3 assist e 1,4 stoppate di media. L’anno dopo torna a Philadelphia, stavolta con un ruolo da membro fisso della rotazione (7,1 punti e 4,7 rimbalzi in quasi 20 minuti), ma la sfortuna si accanisce su di lui: un disturbo genetico neuromuscolare ai piedi chiamato malattia di Charcot-Marie-Tooth lo costringe al ritiro dopo appena quattro stagioni. La sua carriera “sportiva” non finisce però qui: da sempre appassionato di flipper (sì, avete letto bene, proprio flipper), da quando si è ritirato dal basket è diventato un giocatore di livello mondiale, partecipando ai campionati europei nel 2007 e vincendo il titolo mondiale al Pinball Expo di Chicago nel 2011.

Curiosità

Sono nove i giocatori scelti al draft del 1999 ad aver vinto almeno un titolo NBA; pochi, però, l’hanno fatto da protagonisti (Lamar Odom, Richard Hamilton, Manu Ginóbili), la maggior parte da solidi comprimari (Shawn Marion, Jason Terry, Ron Artest, James Posey), altri ancora come membri più o meno utilizzati della rotazione (Devean George, Francisco Elson).