NBA Finals: Golden State Warriors – Cleveland Cavaliers 104-89 (serie 1-0)

No Iguodala, no party (Rocky Widner/Getty Images)

No Iguodala, no party (Rocky Widner/Getty Images)

Strenght in numbers.

E’ lo slogan che accompagna i Golden State Warriors in questa edizione dei Playoff.

Dopo quanto successo in gara 1 di finale NBA, però, l’ufficio marketing dei californiani potrebbe essere chiamato a fare gli straordinari e mutare improvvisamente il mantra della franchigia californiana: da strenght in numbers a strenght in second unit.

La nostra vuole essere solo una provocazione, d’accordo, ma se i Golden State Warriors fanno loro senza troppi patemi l’atto inaugurale della serie, un grazie speciale lo devono proprio alla second unit, al supporting cast, vera e propria arma letale in grado di anestetizzare le velleità di vittoria di LeBron James e compagni.

Nella serata in cui Curry e Thompson vivono una notte da comprimari, sono Livingston (MVP della partita), Iguodala, Barnes, Barbosa e Bogut ad ergersi a protagonisti assoluti di una gara dalla quale Cleveland, al contrario, non trae dovuto supporto proprio dai giocatori in uscita dalla panchina o comunque “marginali”.

Dopo un primo quarto interlocutorio, Golden State prova a spaccare la partita nel periodo successivo.

Leandrinho Barbosa sente il profumo di Copa America e con due-tre giocate di alta scuola brasileira dà la prima spallata alla sfida.

In un primo tempo nel quale gli Splash Brothers sembrano le controfigure di quelli ammirati nel finale della serie contro i Thunder, è proprio l’ex Suns insieme a Livingston e ad un Iguodala al solito esemplare soprattutto nella propria metà campo, a tracciare quel solco necessario per andare negli spogliatoi con un margine all’apparenza rassicurante (52-43).

Nel terzo periodo, la partita cambia. Cleveland comincia a difendere secondo gli standard richiesti ad una finalista NBA e, soprattutto, trova il canestro con maggiore continuità.

LeBron James non avrebbe potuto fare più di quello che ha fatto (Foto: sports.vice.com)

LeBron James non avrebbe potuto fare più di quello che ha fatto (Foto: sports.vice.com)

LeBron (il migliore dei suoi) predica per sé e per gli altri. Irving e Love provano a supportare il “Prescelto” ma al di là dei numeri (il primo chiuderà con 26 punti ma con un rivedibile 6/18 al tiro, il secondo con 17 punti, 12 rimbalzi ma con i consueti problemi difensivi) non hanno un impatto decisivo sulla partita, tutt’altro..

Proprio un canestro di Love, valido per il sorpasso Cavs (64-63 a meno di 4 minuti dalla sirena del terzo quarto), però, sembra dare il via ad un finale di gara emozionante.

Sembra, appunto, perché da lì in poi è il supporting cast di Kerr a marcare il territorio e a dare la spallata definitiva ad una partita indirizzata in favore degli Warriors da un parziale di 7-0 ispirato da un Livingston in serata di grazia e capace di fare male con i suoi canestri dalla sempre più importante “zona di nessuno”, quella tra la linea del tiro da tre e l’area pitturata.

Il quarto periodo è un monologo californiano. Dal 74-68 con cui si entra nell’ultimo parziale, si passa rapidamente al +20. LeBron ed i big three di Cleveland alzano progressivamente bandiera bianca. La panchina dei Cavs è incapace di competere con quella degli Warriors.

Si, perché sono proprio i gregari, i comprimari, i Livingston ed i Barbosa, gli Iguodala ed i Bogut, le pedine decisive a decretare lo scacco matto che mette a nudo il Re (LeBron) ed il suo regno apparso, per l’occasione, di carta.

Strenght in numbers? Certamente, ma dopo gara 1 sarebbe meglio parlare di strenght in second unit.

L’ufficio marketing dei californiani è avvisato.