Andrea Beltrama

Andrea Beltrama

Marzo, arieccoci. E mentre ci divertiamo a fingerci esperti con giocatori e squadre che tanto quasi nessuno ha mai sentito, arriva anche il momento di tenere la testa alta e difendersi. Dallo scetticismo, dalla malafede, e, soprattutto, dall’ignoranza dei primi della classe di chi non riesce proprio a capire.

Spieghiamo meglio. A metterci così di cattivo umore è stata una conversazione avuta negli ultimi minuti di Bulls-Spurs, esattamente una settimana fa. Partita al recycle time – il garbage era finito da un bel pezzo – spalti semivuoti, atmosfera lugubre. Almeno fino a quando Thibodeau non si gira verso la panchina e lancia in campo Jimmer Fredette. Nell’arena che fu teatro delle imprese di Michael Jordan si scatena l’apoteosi, che diventa delirio quanto lo stesso Jimmer solca la metacampo con due palleggi, sfiora un blocco e spara una delle sue mine. Canestro, proprio come ai vecchi tempi. Ci vengono in mente i ricordi. Memorie imperiture di quando ci avventurammo in un incredibile viaggio in treno a New Orleans, apposta per vedere la sua ultima esibizione con la maglia di Brigham Young, nel South Regional del Torneo NCAA.  E finimmo inevitabilmente contagiati dalla Jimmer-mania, sotterrati dall’entusiasmo mormone che fece passare in secondo pieno persino le abbuffate di Po’Boy Sandwich in riva al Mississippi.

Ecco. Proprio in quel momento di abbandono alle emozioni, unico highlight di una serata funebre, irrompe il nostro stimatissimo collega europeo. Una persona a cui vogliamo bene, e con cui abbiano condiviso birre, pizze, partite.  Ma che quando si parla di college basket, riuscirebbe a far perdere la pazienza a un santo. “Non capisco tutto questo entusiasmo” dice, con classico fare scettico, inutilmente provocatorio. “Dove è andato al college Fredette”? Questa non è una provocazione. Non lo sa davvero. “Brigham Young” rispondiamo. “E dove è?”. “Nello Utah!” replichiamo pazientemente, mentre il nostro, tre anelli di spettatori più sotto, si lancia in una virata plastica con appoggio al tabellone, facendo scendere altre lacrime. “Ma come nello Utah! Ma pensavo fosse andato in Illinois. Ma perchè tutti si entusiasmano così?”.

E allora, a quel punto, parte la discussione. Quella che abbiamo sempre, in qualsiasi momento, in qualsiasi contesto. Noi proviamo a spiegare perchè la NCAA ci appassiona di più del 95% delle partite di regular season. Lui, fingendosi interessato, ascolta e deride. Un botta e risposta senza fine e speranza, destinato a finire nell’irrazionale. “Come fai a dire che Fredette è stato così forte? Non ha mai vinto”. E ancora: “te lo dico io perchè piace. Perchè è piccolo e bianco”.

E allora, ancora scossi da quella conversazione, eccoci qui. Sette giorni e una Selection Sunday dopo, a spiegare perchè questa follia ci fa impazzire così tanto. Ogni anno sempre di più. E’ un tentativo che facemmo anche due anni fa, con risultati che dovete giudicare voi. Nel dubbio, a distanza di tempo, ci riproviamo. Sforzandoci di essere obiettivi, precisi, meticolosi. Insomma, di non buttare tutto sul classico ci sono gli upset e Davide batte Golia che ci trasformerebbe in banali ruminatori di frasi fatte.  Dunque, perchè ci piace? E perchè, soprattutto, dovrebbe piacere?

1-      Perchè ci piace la pallacanestro

Dimentichiamoci di cheerleaders, cori, rivalità, folklore. Il college basket è anche, e soprattutto, basket. Ci sono le divinità dei fondamentali, che sembrano usciti da un clinic. Doug McDermott? Ok, ma si può anche dire Jabari Parker. I fondamentali li

Bo Ryan è uno dei motivi per cui amiamo il college basketball

Bo Ryan è uno dei motivi per cui amiamo il college basketball

insegnano anche nel West Side di Chicago. Poi ci sono quelli che saltano e schiacciano e vanno sempre sugli highlights. Aaron Gordon e Montrezl Harrell, anyone?  Ci sono i tiratori in serie che non sbagliano mai. Nik Stauskas? Ci sono i lunghi-che-stoppano, anche se sono un po’ claudicanti. Joel Embiid, per esempio. Ci sono i difensori arcigni, che scivolano, scivolano, scivolano sulle gambe e spesso portano anche via la palla. Aaron Craft, per dire. Ci sono i tuttofare, che per un certo periodo, ormai decaduto, si chiamavano all-around (o olraun, come diceva un mitico telecronista RAI che ha segnato, nel bene e nel male, la nostra infanzia). Marcus Smart domina tutti, ma date un’occhiata anche a DeAndre Kane e Terran Petteway, e trovere idoli per i vostri denti. Ci sono i prospetti, quelli che sono sulla bocca di tutti, e che vengono analizzati da tutti gli scout di questa Terra. Due nomi: Andrew Wiggins, Julius Randle. Ci sono i bianchi che non corrono, non saltano, non si piegano. Ma tirano piedi per terra e fanno roteare i gomiti, quasi a volerci ricordare che, prima che inventassero i famigerati “stretch 4” erano già in grado di bombardare da tutte le posizioni. Occhio a Frank Kaminsky, per fare un nome. Insomma, il giochino è chiaro. Inventatevi una tipologia di giocatore, e tra quelle 68 squadre, per non parlare di quelle che sono rimaste fuori, la troverete.  Ah, a questo giro ci sono anche gli Italiani, fieramente rappresentati dal nostro Amedeo Della Valle. Non più dodicesimo uomo, ma parte integrante delle rotazioni di Ohio State, e reduce da una grande serata nel torneo della propria conference. Insomma, il piatto è ricco, e va mangiato con gusto. Ad Amedeo, poi, va un in bocca al lupo particolare.

2-      Perchè i problemi si aggiustano in campo

Quando ci capitò l’occasione di incontrare Geno Auriemma, leggendario coach della squadra femminile di Connecticut, gli chiedemmo, con fare ingenuo, la classica domanda scontata. Ma cosa rende diverso allenare in NCAA dall’allenare i professionisti? La sua risposta, però, fu più originale di quel quesito sciatto. Non parlò di lezioni, di voti, di regole, di paccottiglia che riempie le media guide. Disse semplicemente “se sbagli a prendere un giocatore, te lo devi tenere”. Tradotto: il mercato non esiste. Gli innesti a metà stagione non sono possibili. E se un giocatore decide che è stufo, hai sbattuto via lui e una borsa di studio da 40-50mila dollari, senza ottenere nulla in campo. In verità, i mitici giocatori a gettone (si dice ancora?) sono più una specialità italico-europea che una cosa globale. Ma anche nella NBA, per quanto non si trovino sostituti a breve termine, il mercato esiste, e detta le sue regole. Si fa male qualcuno di forte, la stagione prende una brutta piega, i playoff sono lontani. Bene, si smobilita, o si ricostruisce, o si attende l’estate. Nel college, mai. Una stagione perdente serve solo a scoraggiare futuri liceali da scegliere quell’università. Un posto che si libera diventa un’occasione di emergere per qualcuno che, pazientemente, stava aspettando il proprio turno. Che dire di Casey Prather, senior di Florida? Tre stagioni rispettivamente a 1.2, 2.0 e 6.2 punti di media. E poi, grazie a infortuni, problemi disciplinari di altri, casini e circostanze, finalmente tanti minuti. Risultato? Una stagione da miglior realizzatore di quella che è, al momento, la netta favorita per la vittoria finale.

3-      Perchè gli allenatori sono più che allenatori

Corollario del punto di cui sopra. In un sistema del genere, gli allenatori hanno pieni poteri. Devono reclutare, allenare, consigliare, viaggiare, parlare ai donatori dell’università, controllare che i ragazzi vadano a lezione, vincere, insegnare. In poche parole: fare il fantoccio del GM o della dirigenza è impossibile. Non che i grandi allenatori manchino in NBA. Vediamo allenare Thibodeau da tre anni, e gli erigeremmo una statua or ora. E sappiamo che  ci sono i Popovich, i Phil Jackson (a cui, peraltro, della NCAA non gliene potrebbe fregare di meno), i Larry Brown (ah, ora allena al college però!). Il nostro punto è un altro. E’ che i coach, nella NCAA, hanno così tante responsabilità e potere, nel senso positivo e negativo, da essere protagonisti assoluti di ogni vittoria, e responsabili di ogni sconfitta. Il “eh, ma anche con mia nonna in panchina avrebbero vinto” non esiste proprio. Perché per allestire una squadra forte, devi andartela a cercare, devi costruirla, devi convincere i giocatori a venire da te invece che ad andare dai tuoi rivali. Devi trovare il modo di farli giocare assieme.  Il tutto, aggratis (per loro, non per i coach, che hanno infatti stipendi spesso milionari). Basta guardarsi attorno, e si vedono tanti allenatori che, a prescindere dal materiale umano a disposizione, riescono sempre a imprimere il proprio marchio. Ecco perché, a queste latitudini, parlare di sistema ha ancora senso. Non solo in senso tattico, ma come cultura, tradizione, modus operandi di un’università. Pensate a Bo Ryan a Wisconsin. Anti-personaggio, scorbutico, riservato, paladino di un basket che sembra uscito dagli anni ’60. Eppure, 13 anni da allenatore, 13 qualificazioni al torneo. In una delle conference più toste degli Stati Uniti. E sempre con lo stesso sistema di gioco, lo stesso stile, lo stesso tipo di giocatori, gli stessi tagli e le stesse difese. Che possono piacere o non piacere, ma sono parte di un’identità locale. Come avete visto, non ci siamo scomodati nemmeno a fare il nome di Duke. Perchè di fulgidi esempi di condottieri se ne trovano a bizzeffe. E senza bisogno di scomodare l’eccellente commissario tecnico della Nazionale più forte al mondo.

4-      Perchè gli One-and-done contano fino a un certo punto.

Argomentazione che si sente spesso. “Ah, ma con tutti questi one-and-done, il college basket ha perso identità”. Gli one-and-done, per chi non lo sapesse, sono i giocatori che, a  causa di una regola che impone loro di aspettare un anno prima di dichiararsi al draft, MarchMadness2011Logo2devono “svernare” per una stagione in NCAA, con la certezza quasi matematica di lasciare dopo il primo anno. Portati in auge dal tanto discusso coach John Calipari, sono visti da una buona fetta di tifosi come una rovina dello spirito del college basket, dei viziati professionisti in transito. Salvo, ovviamente, quando uno di loro gioca nella propria squadra. L’ultimo strale, in particolare, è arrivato dal commisioner della Pacific 12, insigne conference della costa occidentale, evidentemente dimentico di quando la stessa conference si fregiava di mandare una rappresentante (UCLA, per la precisione )alla Final Four per tre anni di fila, grazie anche e soprattutto allo sforzo di “one-and-done” per eccellenza come Kevin Love. Ma insomma, il punto non è discutere se avere questi giocatori sia bene o male (non abbiamo nemmeno un’opinione precisa al riguardo). Il punto è che la loro influenza è stata molto minore, numeri alla mano, di quanto si possa credere. Solo un anno, nel 2012, una squadra costruita interamente su giocatori del genere ha vinto il titolo: era la Kentucky di Anthony Davis (oh, yeah) e Marquis Teague (aaargh!), dominante dall’inizio alla fine del torneo. Nel 2007 e nel 2008 due squadre guidate da one-and-done – la Ohio State di Greg Oden e la Memphis di Derrick Rose – arrivarono a un passo dalla vittoria, arrendendosi in finale. Ma le altre vincitrici hanno sempre avuto tutte una robusta componente di giocatori “esperti”, al terzo o quarto anno. Florida nel 2007 aveva Joakim Noah, Al Horford, Corey Brewer.  Kansas, nel 2008, Brandon Rush, Darrell Arthur. North Carolina, nel 2009, Tyler Hansbrough, Danny Green, Ty Lawson. Duke, nel 2010, Kyle Singler, Nolan Smith, Jon Scheyer, la coppia di lunghi Zoubek-Thomas. Connecticut, nel 2011,  Kemba Walker e Alex Oriakhi. Louisville, nel 2013, Russ Smith, Peyton Siva, Gorgui Dieng. E quest’anno solo Arizona, tra i seed n.1, vanta un rappresentante della categoria (Aaron Gordon). Mettetela come volete: la presenza degli one-and-done è servita spesso a raggiungere la Final Four, o a fare strada nel torneo. Ma non è quasi mai stata garanzia di titolo. Segno che, a conti fatti, le cose non sono state destabilizzate così pesantemente da questi personaggi. Anzi, segno proprio che il sistema tiene, e che i freshmen di lusso, invece che snaturare il giochino, hanno alzato il livello della competizione, mostrandosi devastanti eppure vulnerabili. Come qualsiasi diciassettenne deve essere.

5 – Perchè c’è Doug McDermott

E basta e avanza. Il probabile MVP della stagione è uno dei giocatori più incredibili mai visti a questo livello. Non tanto perchè è un’inarrestabile macchina da canestri. E nemmeno perchè è figlio di un allenatore dispotico che non gli aveva nemmeno offerto una borsa di studio all’università che allenava prima (attenzione perchè, se vincerà un paio di partite, i media americani verseranno

Doug McDermott

Doug McDermott

inchiostro a fiumi su questa vicenda). No. Quello che rende McDermott speciale è che è un libro aperto di tecnica, capace di eseguire ogni dettaglio come vorrebbe un manuale. Il tiro da fuori, il piede perno, la virata, l’uso del corpo per farsi scudo, la mano sinistra, il modo di tagliare verso il centro dell’area. L’ortodossia cestistica fatta persona, incarnata da un manzo con la faccia da bambino e le movenze di un qualsiasi ragazzone di 2.05. Almeno fino a che non lo si vede maneggiare la palla. In molti lo hanno paragonato proprio a Fredette. Eppure, al di là del colore della pelle e del vizio di fare canestro, i due hanno in comune meno di quanto sembri. Tanto quanto il primo era creativo e avanguardista, il secondo è un esercizio di fondamentali vivente. Tifare per vedere lui e la sua Creighton fare strada è il minimo che un appassionato di pallacanestro possa fare.

6-      Perchè è una figata pazzesca

Avevamo detto che avremmo parlato di March Madness ignorando l’aspetto folkloristico. Ah, qualcuno ci aveva pure creduto? Per quanto ci sforziamo di essere analitici – pur senza sparare alcun numero, giacchè non li sappiamo – parlare di college senza parlare di ciò che ci sta attorno è impossibile. Bande, cori, genitori, studenti, parenti, ottantenni in tribuna con il dente avvelenato, invasioni di campo, bracket disegnati sulle vetrate delle birrerie. Non dobbiamo certo essere noi a dire che tutto questo costitutuisce un contorno irresistibile, piccante. La March Madness è un evento per cui davvero l’America si ferma, o quasi. Le famiglie si riuniscono. Le routine si riscrivono. Abbiamo sentito storie di classi delle medie interrotte nelle scuole del Kentucky. Abbiamo visto migliaia di mormoni per le goderecce strade di New Orleans. Ci siamo ritrovati nel bel mezzo di importanti convegni accademici con lo streaming in funzione, a fianco a professori egualmente indaffarati a non perdersi le partite. Scene da fare invidia al chi ha fatto palo?, che raccontano di un’America appassionata, autoironica, vogliosa di divertirsi. Ancora troppo poco note a chi, frettolosamente, tira fuori lo stereotipo dello spettatore obeso e interessato solo all’hamburger. Non che quello non esista, eh. Solo che in genere è il turista spagnolo o italiano che passa per Chicago o New York. E che non si è ancora fatto contagiare dalla follia.

Twitter @andreabeltrama

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