Andrea Beltrama

Andrea Beltrama

Da intenditori sopraffini, o più semplicemente da portatori di evidenti problematiche sociali, non siamo mai stati appassionati delle partite visionate in luoghi pubblici. O meglio: se dal vivo proprio è impossibile, tanto vale accendere la tele e guardarsela comodamente dal letto. Senza caciara, spifferi di freddo, fauna attorno. E con il cuscino pronto ad arrivare in soccorso.

Sabato sera, però, era diverso. Non per chissà quale voglia di cambiare abitudini incrostate nei secoli, ma perchè ci sentivamo uno strano debito dentro. Qualcosa che andava saldato, almeno per finta. E così, lontani anni luce da Arlington e memori dalle emozioni regalateci dai Badgers di Wisconsin due settimane prima – in una serata in cui ci siamo ritrovati senza sapere bene come a cantare l’inno dell’università abbracciati ad altri 20mila tifosi sugli spalti del Bradley Center – abbiamo preso la grande decisione. Pomeriggio trascorso a downtown Chicago. Florida-Connecticut vista dal computer in uno Starbucks, dove la connessione ballerina ha perlomeno offuscato le oscenità fatte vedere dai Gators. E poi via verso Wills Northwood Inn, bar incastonato nel North Side di Chicago, da tutti considerato il miglior covo di tifosi dei Badgers della città. Uno sbattimento notevole, tra la lentissima Brown Line che passa in mezzo ai grattacieli e gli spostamenti a piedi. Wisconsin-Kentucky l’avremmo guardata da lì.

Siamo in compagnia, di quelle importanti. C’è la sorella in visita e c’è la significant other, che c’era anche sulle tribune del Bradley Center, e vuole vedere che fine faranno quei personaggi sghangherati con la maglia biancorossa. Entrambe sono state trascinate senza troppi complimenti in questa brutale immersione di March Madness. Scesi dalla metropolitana, ci vogliono cinque minuti a piedi, prima che il posto appaia in tutto il suo splendore, troneggiante in una via dove si vedono solo case residenziali. E’ un parallelepipedo illuminato di blu elettrico, con la mascotte Bucky sulla porta, un tasso gigante vestito di biancorosso, e bandiere di Wisconsin su ogni angolo. Si diffondono nell’aria vibrazioni grandiose. Non sembra molto pieno dice la sorella, che peraltro ha dimenticato gli occhiali in Italia. Guarda quei pirla che guardano la partita dalla strada replichiamo noi, sorpesi nel vedere una decina di persone che fissano la tv attraverso i vetri del locale. Visibilmente esaltati, stiamo per entrare, quando proprio uno di quei pirla ci ferma. There’s a line. C’è la fila. I pirla, che ora sembrano molto meno tali, stanno aspettando il proprio turno per entrare. E siccome il locale è pieno all’inverosimile, dalla direzione hanno deciso che si entra solo quando qualcuno abbandona. Una politica che sa di beffa, mentre dalla palla a due sono già passati almeno cinque minuti.

kamisky stoppa (credit Tom Pennington Getty Images)

kamisky stoppa (credit Tom Pennington Getty Images)

Ma le cose potrebbero andare molto peggio. Il clima, per essere a Chicago, è generoso. Dal vetro, la partita si vede bene. E il casino che c’è all’interno è tale per cui a ogni rimbalzo difensivo si sentono le pareti tremare, anche se noi siamo in strada. Dopo pochi minuti Ben Brust imbuca una tripla, Wisconsin scappa a più otto. Il pirla in coda dopo di noi, impegnato a seguire la partita dal suo I-Phone, si lascia andare a un urlo. Dall’interno del locale, un tifoso Badger ci irride. Mette la sua giacca sul davanzale, ostruendo la visuale. Ma è uno scherzo, di quelli fini, che solo gli americani di ancestrali radici tedesche possono concepire. Dopo pochi secondi la toglie con un ghigno. Il tempo di vedere Juius Randle che prende un raro – si fa per dire – rimbalzo offensivo e banchetta in testa ai lunghi dei Badgers. Si va avanti così per svariati minuti, nella vana speranza che il tipo alla porta si distragga e ci faccia entrare. Ma l’Inn è più protetto di Fort Knox.

Ci vuole pazienza. Poi, improvvisamente, il nostro momento arriva. Penultimo media time out del primo tempo. Appena compare la pubblicità sullo schermo, una coppia, in evidente crisi coniugale – e neppure troppo sobria – lascia incautamente il locale. Via libera. Entriamo, senza nascondere l’emozione.

C’è un clima strano, di allegria mista a paura. Durante i possessi difensivi si canta defense  e si urla don’t foul. Ogni tanto, per non farsi mancare niente, piove qualche F-word all’indirizzo di Calipari, come sempre adorato da tutti gli appassionati di NCAA. Quando Kaminsky e Dakari Johnson si allacciano sotto il canestro, la folla si scalda. Partono mani a mimare grandi falli tecnici. L’inquadratura di Randle zoppicante lascia adito a qualche speranza. I liberi di Sam Dekker mantengono il vantaggio, prima che arrivi l’ennesimo timeout. E allora, staccati gli occhi dalla partita, riusciamo anche a notare il resto. L’odore di birra è nauseabondo. Riesuma ricordi di frat parties, partite di beer pong, serate ignoranti. Tutta roba che noi, nella nostra impeccabile adolescenza seriosa, abbiamo visto solo in cartolina. Il pavimento è ricoperto da un tenace strato appiccicaticcio, frutto del deposito secolare di Miller Lite e polveri sottili. Ma anche l’occhio, in quel vortice di stimoli sensoriali, vuole la sua parte. Il locale è stipato. Alle pareti, tra uno schermo televisivo e l’altro, pendono animali imbalsamati di ogni tipo. Ci sono alci, cervi, lucci, pesci persici. E ovviamente tassi, la mascotte dell’università, macabramente infilzati tra cartelli che inneggiano alla caccia e alla pace dei sensi. Il Midwest rurale emerge in tutta la sua commovente pacchianaggine. E noi, senza vergognarci a dirlo, si sentiamo davvero a casa.

Intervallo. Il tempo di raccogliere la giacca, e partire per un’esplorazione più attenta. La sorella sostiene che, nella sala accanto, ci siano voragini di spazio. E invece, dopo aver attraversato a fatica la nostra zona, ci troviamo schiacciati in un’enorme massa vestita di rosso. E’ uno scenario apocalittico. Tutti, ma proprio tutti, durante quei venti minuti vogliono bere e mangiare. Girano barili di rancida Budweiser. Chiunque abbia un bicchiere in mano, ne rovescia metà a ogni passo. Ci buttiamo sul cibo. La sorella chiede qualcosa di non eccessivamente calorico. Il barista, vestito di gadget di Wisconsin da cima a fondo, ci ride in faccia. Consiglia le cheese curds. Un tifoso al bancone, visibilmente alticcio, si unisce al consiglio, scongiurandoci di ordinarle. Non ve ne pentirete. Prendiamo coraggio. Ci decidiamo. Ordiniamo quelle, oltre a un paio di burger. L’uomo alticcio ci abbraccia. Yeah, cheese curds!. Vi chiederete, cosa saranno mai queste cheese curds?  Per i valtellinesi: immaginatevi degli sciatt scoloriti, con il formaggio sintetico al posto del casera. Per gli alri: immaginate del caglio di Filallegro Coop a pasta filata fritto in un olio di quarta mano, con una spruzzatina di birra. Risultato: un vassoio di bocconcini unti e sublimi, perfetti per ingannare l’attesa. La punta gastronomica di uno stato – il Wisconsin – dove i latticini costituiscono il 75% della dieta quotidiana. E il restante 25% sono birra e patate.

Wisconsin Badgers - Jamie Squire Getty Images

Wisconsin Badgers – Jamie Squire Getty Images

Si riparte. Tripla Wisconsin. Di nuovo avanti di 7. C’è un clima di fervente attesa. L’impresa è nell’aria, la finale sembra ogni minuto più vicina. Ma la Kentucky di Calipari ha chili, talento, e il destino dalla sua parte. Quando sembrano in ginocchio, il Wildcats piazzano un micidiale parziale. Piazzano un 15-0 di parziale nell’arco di due minuti – mentre in tutto il locale cala il panico. L’unico che parla è un tipo muscoloso, maglia rossa e cappellino con la W bene intagliata. Si incazza per ogni rimbalzo offensivo concesso. Purtroppo per lui, capita spesso. Poi, quando i Wildcats confezionano l’ennesimo canestro con passaggio-nel-mucchio-e-qualcuno-la-prende-e-schiaccia, perde definitvamente le staffe. Stop making fucking alley hoops. In a fucking Final Four! grida, ai limiti dello sfinimento. La sua frustrazione è ai massimi termini. Nelle retrovie, la Budwesier è l’unico rimedio alla disperazione. Dalle nostre donne, intanto, arrivano profondi commenti tecnici. Ma sono tutti bianchi contro tutti neri. Mai vista una cosa così! Per fortuna il muscoloso in maglietta non capisce l’italiano.

Mai dire mai, però. Perchè Wisconsin è Wisconsin. Quest’anno ha dentro qualcosa di magico. Non si arrende, non fa una piega. 5 punti di Dukan, improbabile protagonista. Poi Brust riprende a sforacchiare il canestro. Contro parziale di 10-2, e punteggio in parità, a metà ripresa. Il bar rischia seriamente di saltare per aria. C’è tutto l’entusiasmo che c’era prima, più il sollievo di avere ancora una partita da giocare. Dalle retrovie si ricomincia con defense, defense, come se poi avesse davvero qualche effetto. Al secondo media time-out, con 12 minuti da giocare, sembra davvero di essere sugli spalti di qualche palazzetto. Passa un tipo che suona la tromba. Nessuno lo guarda. L’unica cosa ammessa, durante i timeout, è una tracannata di birra. Tiene lontana la tensione. Il tipo in maglietta, invece, è andato ben oltre. Aspettando che riprenda la partita, si è tirato la maglietta in faccia, scoprendo la pancia. I can’t handle this ripete. Non ce la posso fare. L’alce imbalsamato lo incenerisce con lo sguardo.

Volata finale. Prodezze ed errori, da una parte e dall’altra. Kentucky va avanti, torna la paura. Qualcuno ce l’ha a morte con Traevon Jackson, playmaker di Wisconsin, che pure sta giocando una buona partita. Tiralo fuori, non lo voglio vedere. Ma nella tensione nessuno lo ascolta. Di sicuro non lo può sentire coach Bo Ryan, che è a 2000 km di distanza da lì, e conduce la partita con la stessa faccia di sempre. Frank Kaminsky, sin lì deleterio, ha un guizzo, e riporta la partita in parità. Da lì in poi, c’è solo da trattenere il respiro. Qualcuno prova a intonare un Badgers Badgers, ma funziona poco. Persino la Budweiser non viene più servita. Si aspetta solo il responso del destino.

bowl01p115 secondi alla fine. Wisconsin attacca malissimo, ma lo stesso Jackson, furbescamente, guadagna fallo sul tiro da tre punti. He traveled ammette qualcuno dalle retrovie. Ha ragione, visto che il replay mostra chiaramente il piede perno che viene cambiato mentre fa la finta. Ma non è una buona scusa per non festeggiare. Ci sono i liberi, c’è la possibilità di riprendersi il vantaggio. Poi, toccherà a Kentucky rispondere. Per la prima volta nella serata, si diffonde una cauta sensazione di ottimismo. Se Wisconsin è ancora viva, dopo tutto quello che è successo, allora può veramente farcela. I pochi secondi che separano il fallo dall’esecuzione dei liberi, paradossalmente, sono quelli più sereni. Come in ogni quiete che precede la tempesta.

Il resto è storia. Jackson fa 2/3, Kentucky si presenta dall’altra parte. 2 punti di svantaggio, pochi secondi per recuperarli. Come suo costume, Calipari non chiama timeout. Vuole che i suoi se la sbrighino da soli. Ne esce fuori un attacco raffazzonato, con vari rischi di palla persa. Per qualche strano gioco del destino il pallone schizza in mano a Aaron Harrison. L’angolo del campo è esattamente lo stesso da quale aveva purgato Michigan. Una finta, un passettino all’indietro, e poi la tripla da fermo. Tiro orrendo, mal costruito, a bassissima percentuale. E poi ha già usato due jolly, non può mettere anche questa. Non può proprio. Sì, certo. Non può. E infatti va dentro. Sorpasso, gelo, silenzio. Solo i pesci persici appesi alla parete sembrano avere una parvenza di vita. L’uomo con la maglietta è in ginocchio. Qualcuno inizia a piangere. Mancherebbero 5 secondi, ma nessuno ci crede più. Dopo due time-out, Jackson fa tutto il campo e sbaglia il tiro finale. Rimbalzo Kentucky, tanto per cambiare. L’audio si spegne. Qualcuno, dal bancone, mette la musica. Ma nessuno si accorge. Increduli, tutti si avviano verso l’uscita. La finale era lì, a portata di mano. E adesso è improvvisamente sparita.

Seguono scene toccanti, sportivamente parlando. Chi è rimasto dentro al bar prova a intonare l’inno, come quello di due settimane prima. I ragazzi meritano un ringraziamento, accidenti se lo meritano, ma nessuno è del morale giusto per elargirlo a dovere. Fuori, mentre i più si dileguano nella Chicago bianca e ordinata del North Side,  qualcuno è rimasto a elaborare il lutto. Un ragazzo fissa il vuoto. Fucking college basketball! continua a ripetere. L’amico, sigaretta in bocca, prova a consolarlo. Pensa che almeno abbiamo segnato più di 41 punti, gli dice, con chiaro riferimento all’ultima semifinale nazionale persa dai Badgers, nel 2000, quando Michigan State si impose per 53-41. Interviene un terzo, il più filosofico di tutti. Coraggio. Tra dieci anni toglieranno anche questa Final Four a Calipari, e questa serata non sarà mai esistita.

Ci allontaniamo, scossi a nostra volta. Avevamo simpatia per i Badgers, erano un’idealizzazione un po’ romantica del college basket che ci piace. A misura d’uomo, senza strilli, con classe in campo e fuori. E seguendoli ci eravamo affezionati. Per questo, non abbiamo voglia di dire niente. Vogliamo solo tornare a casa. Ma mentre torniamo verso la fermata, in mezzo al marciapiede c’è un personaggio allo stremo delle forze. E’ lo stesso che voleva la sostituzione di Traevon Jackson pochi minuti prima. Ora sta fermo, come un cane che punta i piedi. Un amico prova a convincerlo a spostarsi di lì, dove intralcia tutti. Ma lui non ne vuole sapere. Continua a parlare, la voce rotta dalle lacrime e dalle birre di troppo. Fucking Traevon Jackson. Ha dato il tiro della vittoria a fucking Traevon Jackson. Il suo ululato disperato è l’ultimo suono di una serata che difficilmente scorderemo.

Di lì a poco, per i Badgers giustizia sarebbe stata fatta. Nella finale di lunedì ci ha pensato Shabazz Napier, piccolo grande leader di University of Connecticut – anzi un misto tra Stephen Curry e Damian Lillard, come ci hanno gentilmente spiegato gli scout italiani che seguono in profondità la NCAA – a punire Kentucky, privando i Wildcats di un titolo che sembravano avere in mano. Ma non basta una gufata andata a buon fine a cancellare una serata così. Ci vorrà tempo, pazienza, fortuna. E allora tornerà l’irresistibile fascino della madness. Lo stesso che, tra pessima birra e pesci imbalsamati, si respirava in quel bar.  

Blog di Andrea Beltrama: www.ilsamoneeilgrattacielo.wordpress.com

Twitter @andreabeltrama