Pronti, via, si parte. Un altro torneo NCAA alle porte. Altre tre settimane di finali in volata e lacrime, ribaltoni e retorica. Per questa volta, però, ci guardiamo bene dal rifilare grandi guide e dettagliati pronostici: avendo visto sì e no 10 partite in tutto l’anno, sarebbe disonesto pontificare. E nemmeno vogliamo scrivere il pistolotto sui motivi per cui vale buttare un’occhiata distratta a questo evento. L’abbiamo già fatto l’anno scorso, non avremmo nulla di nuovo da dire (ma continuiamo a credere fermamente a tutte quelle cose, per la cronaca).

E allora, siccome non riusciamo proprio a stare zitti, diamo spazio ai ricordi. Forse di dubbio interesse, sicuramente non attuali. Ma se Marzo ci piace così tanto, è anche perchè abbiamo avuto lo sfacciato privilegio di vivere un po’ dei suoi momenti sulla nostra pelle. A partire dal pomeriggio in cui una delle storie più incredibili della storia del college basket toccò il culmine, salvo concludersi per sempre dopo pochi istanti. Eravamo a New Orleans, sulle rive del Mississippi.

Jimmer Fredette con la maglia di Brigham Young. Una leggenda del college basket.

Laddove finì, con dramma, adeguato alla statura del personaggio l’incredibile cavalcata di Jimmer Fredette.

Fu una trasferta di paradossi e ferrovie. A partire dal clima. Partenza serale dalla Union Station di Chicago, congelati dal vento. C’erano ancora ghiaccio e neve, rimasugli di un inverno estremo anche per i canoni del Midwest. Risveglio nel cuore del Tennessee, circondati da un verde che non vedevamo da mesi. Ma fu nella pausa sigaretta (per il controllore, più che per i passeggeri) di Jackson, Mississippi, che ci accorgemmo di essere finiti dentro a un universo parallelo, apprezzando nel contempo la lentezza d’altri tempi della ferrovia americana. Appena scesi dal treno, in compagnia di un veterano dell’esercito conosciuto sulla carrozza panoramica, ci colpì una folata di aria ribollente, piena di odori. L’umidità era tale che si faceva fatica a respirare. Era il nostro primo incontro con il Sud, e fu indimenticabile. Venimmo rapidi dallo squallore, dalle baracche, dai personaggi in canottiera seduti sulle scale ad ammazzare il tempo. O forse lo stereotipo dominante ce li fece percepire così. Di sicuro, furono istantanee che restarono. Pochi anni dopo, guardando le scende magistrali di True Detective (Miky Pettene, se per caso leggi, grazie!), sarebbero tornate tutte in mente

Dopo altre miglia di sferragliamento tra paludi e palafitte, arrivammo a New Orleans nel primo pomeriggio, 19 ore dopo la partenza. C’erano 29 gradi, non sudare era impossibile. Un macchinista della stazione si disse che sì, in effetti era un po’ troppo per marzo, anche da quelle parti. Eppure, nonostante il copioso materiale da esplorare, ci fiondammo subito dentro alla New Orleans Arena.

La New Orleans Arena

Il giorno dopo si giocava, e non sarebbe stata una partita qualunque. Il sabato prima, Jimmer Fredette aveva affossato a suon di triple Gonzaga, trascinando la sua Brigham Young alla qualificazione per la Sweet 16. E così, il fenomeno di culto dell’anno – e forse il pezzo di storia recente più saliente di tutto il college basket –  sarebbe passato dalla Louisiana.Davanti a noi. Per 40 miniuti. Il French Quarter e il tuffo nella cultura Cajun potevano tranquillamente attendere.

Difficile descrivere cosa fosse Jimmer, soprattutto in quei giorni. C’era il campo, certo. Una macchina da canestri. Una guardia dai tempi e dalla tecnica tutte sue, capace di segnare 40 punti in faccia a chiunque.  E poi c’era tutto il resto. L’idolatria. La simpatia incondizionata. La narrativa della fede mormone. E la dimensione pop, sublimata dalla canzone Teach me how to Jimmerdedicatagli dal fratello e da un’improbabile banda hip-hop. In poche parole, la fetta di popolazione americana che segue la NCAA – bianca, e senza troppa rabbia in corpo – aveva trovato l’idolo perfetto: un uomo pallido di 1.80 scarso, sorridente, religioso, e capace di fare con la palla cose mai viste prima.jimmer 5Sociologia un tanto al chilo a parte, non potevamo sperare di meglio. Anche perchè un giocatore con quel fisico, capace di segnare 30 punti a partita e disporre a piacimento delle difese era davvero merce rara, anche nell’orizzonte variegato del college basket.

Il risultato? New Orleans era invasa. Dallo Utah scesero oltre 3mila persone, più tutte quelle che rimasero fuori dalla partita Genitori, bambini, passeggini, nonne, famiglie sorridenti. Un’orda di bianchi morigerati e nemici delle tentazioni – dal bere caffè al tenere la barba – vagava  con allegria per i vicoli più lussuriosi, alcolici e goderecci degli Stati Uniti. Anzi, forse gli unici vicoli che esistono in tutta la nazione, eccezion fatta per un paio di angoli storici di Boston. E così – tra vodoo e collane, promesse di curve e sensazioni forti, whiskey e panini con il gambero fritto, oltre che le tigri di Louisiana State a cui i locali danno del tu  – la città era in mano ai più improbabili dei padroni. Un classico del formato del torneo NCAA, dove le destinazioni sono decise anni prima, ma le squadre solo a quattro giorni dall’inizio delle partite. jimmer 6E così, il culto di Jimmer era la narrativa dominante, la trama che teneva insieme tutti i cocci.

La partita era nel tardo pomeriggio. Brigham Young contro Florida. O meglio, Jimmer contro una delle squadre più esperte, fisiche e sottovalutate del torneo. Soprattutto se si considera che Brigham Young giocava senza Brandon Davies – visto recentemente negli opinabili Sixers in fase di ricostruzione spinta – il suo secondo miglior giocatore. Era stato sospeso dalla squadra per aver violato il codice a cui tutti gli studenti dell’università sono sottoposti all’accettazione della borsa di studio. Il crimine, nei fatti, era poca roba: un rapporto sessuale pre-matrimoniale con la fidanzata. Peccato veniale per alcuni, per la maggior parte non-peccato e basta. Ma rules are rules, e tanto era bastato. Fuori squadra, con la tortura aggiunta di dover seguire i compagni in tutti gli spostamenti, guardando le partite dalla panchina. Espiare il peccato, si direbbe. Eppure, c’era davvero la credenza diffusa che Jimmer, da solo, potese portare i suoi fino alla Final Four. Era un giocatore onnipotente, inarrestabile, chiaramente speciale. Vederlo senza il suo scudiero era, paradossalmente, quasi meglio. Avrebbe dovuto tirare fuori trucchi nuovi, magie inedite. Non si aspettava altro.

Dentro l’arena, i mormoni erano in schiacciante maggioranza, numerica e acustica, nonostante sulla carta fosse Florida a giocare “in casa”. E gli astenuti – appassionati neutrali o tifosi delle altre due squadre presenti (Wisconsin e Butler) – erano schierati senza pudore. Mentre documentavamo nei dettagli la scena, ci imbattemmo negli amici di Teach me How to Jimmer, quelli del rap.

i cantori di Jimmer, piu un intruso invadente

Quando ci spacciammo comeinternational media – che a livello di college viene spesso visto con un misto di meraviglia e timore reverenziale – spuntammo una foto, e pure una maglietta small, in cambio di contirubire a diffondere il verbo. Carichi a molla, andammo in postazione. Il tocco finale era stata una scorpacciata di po’boy sandwich fatta poche ore prima. Non sapendo se i gamberi fritti reintrassero o meno negli alimenti banditi dai cultori di Jimmer, avevamo fatto adeguata scorta.

Palla a due. Si parte. Siamo seduti a tre metri dal campo, appena dietro la panchina di Brigham Young. Visuale perfetta, dolby surround naturale incluso. E curva mormone appena alla nostra destra, in modalità incitamento costante. Se davvero doveva essere l’ultimo capitolo della sua carriera, ne avremmo osservato ogni secondo. Florida parte bene. E’ più fisica, più pronta. Sotto ha Vernon Macklin e Alex Tyus, lunghi di spessore e atletismo. Fuori il gioco è in mano al playmakerino Erving Walker. Non lucidissimo, ma con punti nelle mani. E poi, in ala piccola, c’è il biondo Chandler Parsons. Faccia da bravo ragazzo, niente cresta, e una versatilità che stava già attirando l’attenzione di diversi scout NBA, considerando che il ragazzo era all’ultimo anno. Dall’altra, invece, il vuoto. Al di là di Fredette, unico giocatore di nota era Kyle Collinsworth.

jimmer 2Ai tempi era un freshman, poi partì per la canonica missione di due anni, ritornando solo la scorsa stagione. Ma c’era la netta sensazione che gli altri quattro del quintetto fossero un rimpitivo, un necessario ossequio al regolamento.

La differenza fisica tra le due squadre è evidente. Florida si appoggia sotto, prova a controllare il ritmo. Brigham Young, come da copione, non difende e tira dopo 10 secondi di azione.  Jimmer sente la pressione. Il tiro da fuori non ne vuol sapere di entrare, e l’unico modo per smuovere il tabellino è avventurarsi in entrata. Cosa che, peraltro, gli riesce bene, seppur a modo suo. Il marchio di fabbrica sono degli strampalati terzi tempi/eurostep chiusi con scucchiaiate fuori tempo, preferibilmente di mano mancina. Ogni tanto sfodera anche dei passi d’incrocio in venti centimetri quadrati, che fanno saltare i difensori come tappi. Sono quei movimenti che non hanno logica, nè tecnica nè fisica, eppure funzionano. E così, in una partita quantomai gradevole e frizzante, si va avanti su questi binari fino a metà della ripresa.

Siamo agli ultimi cinque minuti. Jimmer c’è, anche se sbaglia molto. Ha un cerotto sul mento, e un polpaccio indurito. Da fuori non entra, ma il suo genio è operativo. Il profumo di gran finale si concretizza poco a poco. Florida non l’ha chiusa, pur giocando meglio. Brigham Young, contenta per essere ancora viva, prende fiducia. Fredette ha una sfuriata. Segna un paio di canestri di azione, incita la folla. E, miracolosamente, la difesa dei Cougars inizia a funzionare. E’ qui che, improvvisamente, l’impresa si sente nell’aria. BYU torna a un tiro di dustanza. Palla rubata da Jimmer, con arresto e sottomano ad alta parabola in contropiede, 60-63. E poi, ecco il momento che tutti aspettavano. Il culmine della storia, il fotogramma che potrebbe essere ricordato per sempre. Quello per cui noi avevamo fatto 19 ore di treno, e chissà quanto altri avrebbero voluto poterlo fare con noi.

Florida sbaglia in entrata. Rimbalzo Cougar, palla del potenziale pareggio. Ce l’ha Jimmer, ovviamente, che in questo momento copre tutti i ruoli possibili, più quelli impossibili. Trotterella verso la metacampo, vuole studiare la situazione. Scott Wilbekin, difensore delegato, decide di non pressarlo. Ha paura di farsi battere subito, o forse non è concentrato. La folla trattiene il respiro. Jimmer continua a trotterellare. Se uno non sapesse che i giochi offensivi di Brigham Young non esistono, sembrerebbe davvero che voglia chiamare uno schema. Giocarsela con calma. Ma per l’appunto no. Stiamo parlando della squadra più anarchica, e del giocatore più refrattario alla tattica che si sia mai visto nella storia recente del college basket. Qualcosa deve succedere.

Jimmer trotterella ancora. Siamo a nove metri dal canestro, Wilbekin è ancora lontano. Troppo lontano. C’è uno strano silenzio. Si aspettano tutti il colpo di scena. E il colpo di scena puntualmente arriva. Bum. Arresto e tiro. Da quei nove metri. Dal palleggio. Con il corpo che va leggermente in avanti. Quanto di più malconsigliato, sbagliato, controproducente, egoista un giocatore possa fare. La palla entra come entra su un banale tiro libero. La New Orleans Arena esplode. In tribuna stampa partono pacche e stropicciamenti di occhi. Florida chiama time-out, e per tutta la durata della sospensione la preoccupazione principale è capire se tutto questo fosse davvero successo. E’ stato lì, in quel momento, che si è capito che, comunque sarebbe finita, la storia era stata scritta. Un gesto di fiducia estrema nei propri mezzi, di strapotere tecnico difficilmente raggiungibile. Un colpo di genio, ignorante e sprezzante. Avevamo assistito a qualcosa di irripetibile.

stevens

Da lì in poi, sarebbe stata solo una rapida discesa verso la pedestre normalità. Stanco e mentalmente esausto, Jimmer prende due pessimi tiri sui possessi che decidono la partita. Pessimi come quello di cui sopra, intendiamoci, ma che purtroppo si infrangono sul ferro, differenza non da poco in questo sport. Si va al supplementare, i Cougars non ce la fanno più. Florida vince senza soffrire e si qualifica alla Elite Eight. La leggenda finisce nella maniera più prevedibile e logica possibile. Le nostre risorse mentali sono consumate allo sfinimento, al punto che quanto successo nell’altra semifinale, quella tra Butler e Wisconsin, è prigioniero di una nebbia solida. Persino la finale del Regional, in cui Butler vendicò Fredette infilzando Florida dopo un supplementare, deve passare in secondo piano. Nessun tuffo di Matt Howard, per quanto esaltante, potè arrivare anche solo vicino a quell’istantanea da brividi.

A quattro anni di distanza, quei momenti sembrano lontanissimi. Fredette continua a scaldare panchine in NBA. L’anno scorso, tra un allenamento e l’altro, lo beccammo per una breve intervista per presentare la March Madness ai tifosi italiani. Gli chiedemmo di quei tempi, di cosa portasse con sè ad anni di distanza. Sfornò la classica risposta da compitino, cordiale e gentile. Aveva un sorriso impostato, eppure a noi sembrava che gli brillassero gli occhi. Che fosse piccolo, grassottello e lento lo dicevano anche ai tempi, ma noi, alla sua carriera da professionista, ci avevamo creduto lo stesso.  E invece, per ora, si è arenato.  Chi ai tempi era scettico rinfaccia le sue ragioni. La storia del piccolo, bianco, e per questo piace a tutti è un argomento più valido che mai, soprattutto ora. E quelli che ai tempi ci avevano visto lungo, che non erano saltati sul carro dei vincitori, giustamente si compiacciono della loro competenza. Eppure noi, per quanto possa contare, quel treno verso sud lo riprenderemmo subito.

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