Geri De Rosa

Geri De Rosa

Mentre in Spagna succedevano cose “turche” (e non solo in riferimento alle due pazzesche triple di Preldzic contro l’Australia) l’Italia guardava, dopo essersi qualificata, bene, per i prossimi Europei. Quindi la Coppa del Mondo ce la siamo potuta godere con aria un po’ più distaccata, magari con il pensiero che a volte poteva vagare libero, più leggero del solito. Ad un certo punto è arrivata l’illuminazione: l’Italia al Mondiale non c’era ma ha perso lo stesso. Anzi, è uscita con le ossa proprio rotte da un confronto per molti versi assolutamente impietoso. Ovviamente non si parla di un confronto sul campo: lì, probabilmente, avremmo anche fatto una buona figura, magari non avremmo giocato per le medaglie ma saremmo usciti a testa alta. Il problema, anzi i problemi sono altri, fuori dal campo, e il confronto che il Mondiale ha suscitato è stato disarmante. Perché la Serbia, la Francia, la Lituania ma anche la Spagna e la Grecia sono così lontane dal nostro livello? Ormai siamo abituati, addirittura rassegnati, a considerarle fuori portata ma non dovrebbe essere così. La crisi, gli infortuni, la fantomatica concorrenza del calcio ci sono anche per loro (Lituania esclusa); eppure sono sempre lì a produrre giocatori e gioco, a divertire e a riempire i palazzetti, con o senza Parker, con o senza Gasol, con o senza Spanoulis. Ci sarà qualcuno che, guardando la Coppa del Mondo, si è posto questa domanda? Si è chiesto se, per caso, da ormai diversi anni, stiamo sbagliando qualcosa? La classica risposta “il nostro movimento ha prodotto quattro giocatori NBA” non può ingannare più nessuno: anzi è un modo perverso e sleale di svicolare dai problemi prendendosi, per di più, meriti altrui.

Marco Belinelli festeggia il titolo NBA

Marco Belinelli festeggia il titolo NBA

La verità è un’altra: Gallinari, Belinelli, Bargnani e Datome sono arrivati dove sono per caso, grazie sì ai loro meriti, alla loro passione e al loro impegno, ma trovando intorno a sé, per caso, persone illuminate che li hanno accompagnati verso l’alto. La Spagna avrà anche perso clamorosamente nei quarti di finale però, ragazzi, che razza di squadra aveva? Sei giocatori NBA, uno dei quali (Claver) non ha mai giocato, e sei stelle di Barcellona e Real: poi una partita si può perdere, forse anche qualcuno di questi assi è vicino al capolinea, però il concetto non cambia. La Spagna, dopo la generazione d’oro di Gasol e Navarro ha avuto Rudy, Llull, Sergio Rodriguez e poi ancora Marc Gasol e Rubio e ora Abrines. Significa che lì, crisi o non crisi, soldi o non soldi, hanno continuato a lavorare sul serio, costruendo un sistema che quando non produce spettacolo genera comunque passione, amore per questo sport, senso di identificazione del pubblico e dei giocatori stessi con il proprio club e la propria nazionale. Insomma tutti si sentono parte viva del sistema e i risultati si vedono: ci vuole però impegno, lavoro dietro le quinte, idee e capacità di realizzarle, c’è bisogno di progetti lunghi e non di sotterfugi che permettano solo di “sfangare” la stagione. Quello spagnolo sì che è “un movimento” perché è un sistema virtuoso che pensa alla sostanza e non alla facciata. Chi ha guidato il nostro basket negli ultimi quindici anni, raccogliendo in maniera sciagurata l’eredità di chi lo ha gestito in passato, ha sempre e solo predicato un concetto: dare alla pallacanestro “la visibilità che si merita”. Peccato che prima di cercare visibilità per il tuo prodotto devi pensare a cosa metterci dentro. Se non lo fai e non ti preoccupi di farlo, la scatola resta vuota e, alla fine, non ti guarda più nessuno.

GERI DE ROSA