beltramaSera strana a Chicago. Aria frizzante, quasi di montagna, anche se è giugno e si dovrebbe già crepare dal caldo. E così, presi da un altrettanto strano senso di nostalgia, oltre che da una certa curiosità per certi status di Facebook, siamo andati a vederci su Youtube il secondo tempo di Siena-Varese (a proposito, grazie all’eroico utente Al Marik per averlo messo online praticamente in tempo reale. Chiunque tu sia, sei un grande). 51 minuti ricchi di spunti, al termine dei quali ci è salita un’enorme, confusionaria, ambigua rabbia. Sentimenti già provati, ma questa volta, vista la nostra condizione di esuli, ancora più intensi.

Alcune premesse, per chiarire subito le cose.

Primo, non siamo qui a fare prediche, nè saccenti lezioni di sportività dall’altare dorato dell’estero. Del tipo “in America queste cose non succederebbero perchè è un paese civile”. A quello ci pensano blogger e corrispondenti illuminati, pertanto ci asteniamo.

Secondo, delle due squadre non ce ne poteva – e non ce ne può – fregare di meno. Vivevamo a Bologna e tifavamo Treviso. Tanto basta.

Terzo, ai complotti arbitrali non abbiamo mai creduto, e anche se ci credessimo, non vogliamo parlarne qui. (E comunque a dirla tutta, più che malafede, ci è sembrato di vedere un misto di incompetenza, celodurismo e protagonismo. Bene, no?).

Quarto, era il primo spezzone di partita del campionato italiano che vedevamo quest’anno, e un paio di volte ci siamo trovati a dire: e questo qui chi è? Quindi, nessun giudizio tecnico, a parte l’ovvia constatazione che Daniel Hackett è diventato quattro volte più efficace rispetto all’ultima volta che l’avevamo visto giocare (con la maglia di Treviso, peraltro, ahinoi).

Detto questo, di nuovo al punto iniziale. Rabbia e sgomento, dicevamo. Sì, perchè gli ultimi tre minuti di diretta, dal tecnico di Sakota in poi, sono stati una contraddizione micidiale. Sono riusciti a farci vedere, negli stessi fotogrammi, il meglio e il peggio di una serie playoff in Italia. Hanno suscitato ribrezzo e nostalgia. E ci hanno in definitiva fatto incazzare come delle bisce: non tanto per gli episodi in sè, ma per il masochistico modo in cui, nel nostro paese, rimangano sempre delle porcherie sufficientemente schifose da offuscare le cose belle. Rovinando serate, facendosi venire il mal di stomaco, e consegnando alla storia episodi negativi. Quando ci sarebbe stato tutto per renderli indimenticabili.

Daniel Hackett (foto Alessia Bruchi)

Daniel Hackett (foto Alessia Bruchi)

Spieghiamoci meglio. Le porcherie sono talmente macroscopiche da non meritare commento: i sassi al pulman, gli oggetti, la squadra vincente che scappa in spogliatoio, l’aggressione a Dembinski (che peraltro ci sembra in grado di fare il suo lavoro). Ma pure i tweet isterici di vincitori e vinti,  le accuse e le (false) scuse, gli insulti, la ricerca della polemica da parte dei protagonisti (anche a suon di grotteschi comunicati). E altri comportamenti che, in un mondo normale, dovrebbero essere sanzionati con pene oscillanti tra il manicomio, lo scherno e la galera. Quella vera.

Poi, però, vedi anche le cose belle: quelle che di solito si danno per scontate, ma che, per chi vive lontano e non frequenta più questi ambienti, tornano a essere misteriosamente notate. Segno che proprio scontate non sono. Come il lunghissimo applauso dei tifosi a Varese, a fine partita. L’incitamento incessante. Il “siamo sempre con voi non ci lasceremo mai”. Il palazzo strapieno, alla palla a due e all’inizio del terzo quarto. Il misto di sudore, tensione, trepidazione.  L’intensità di ogni singolo istante di partita. E la partita stessa, combattuta e tosta, a dispetto dei limiti tecnici di entrambe le squadre. Come combattute e toste, a quanto abbiamo letto, sono state praticamente tutte le serie di questi playoff, al punto da disseminare emozioni che negli ultimi anni, con la supremazia di Siena, erano rimaste sott’aceto.

E l’incazzo, paradossalmente, viene proprio da queste cose belle. Che sono risorse,  aspetti su cui costruire, ricchezza. Un patrimonio di passione che altrove si sognano. A partire dall’America: credete che i tifosi dei Bulls, il tanto decantato pubblico caldo di Chicago, abbia accennato anche solo a un timido applauso dopo gara 4 con Miami? Era verosimilmente l’ultima partita in casa stagionale, con i Bulls reduci da una clamorosa e quanto mai emozionante corsa nei playoff.  Paragonabile, mutatis mutandis, a quella della Cimberio. Eppure, a metà dell’ultimo periodo, tre quarti del pubblico se ne era già andato per evitare il traffico. Non c’è stato nemmeno un accenno di ovazione. Non un grido, non un ringraziamento.

Anzi, il boato più fragoroso, come sempre, si era sentito nel terzo periodo, quando il tabellone dello United Center aveva mandato in scena la classica Dunkin Donut race: una simulazione di sprint a computer tra una ciambella, un bicchiere di caffè e un bagel, al termine della quale un terzo dei presenti al palasport – i fortunati con l’effige del vincitore sul proprio biglietto – vince un sontuoso buono da 1 dollaro da spendere nella catena. (qui una dimostrazione: httpv://www.youtube.com/watch?v=AipY310ZmS0).

Un’esultanza seconda sola alla vera esplosione di passione dei tifosi Bulls: il boato per il centesimo punto, che nelle vittorie consegna a tutti i presenti un Big Mac gratis da consumare nell’area urbana di Chicago.  Qui un’altra dimostrazione: httpv://www.youtube.com/watch?v=zyk3_7r3IGw

Tifosi di Varese a Milano (Foto Savino Paolella 2012)

Tifosi di Varese a Milano (Foto Savino Paolella 2012)

Ora, non siamo certo qui a condannare l’amore per il Big Mac e per i Dunkin Donuts, al punto che anche noi, quando la ruota è girata dalla parte giusta, ci siamo trovati a esultare per questi cimeli. E nemmeno vogliamo generalizzare: basta andare a una partita di NCAA e le cose cambiano, almeno su certi campi. Quello che vogliamo dire, però, è che tra un’ovazione sentita dopo una sconfitta, come quella di Varese, e un boato per il Big Mac gratis, come quello dopo il libero di Deng, preferiamo nettamente la prima. A livello estetico, a livello emotivo, a livello di spirito del gioco.

Proprio per questo, monta la rabbia. Perchè questi slanci di passione vera, che si trovano a Varese così come in altri cinquanta posti della nostra penisola, vengono sistematicamente sputtanatati dalle solita gesta folli. Che non sono isolate, ma pervasive. E ormai accettate come necessario rovescio della medaglia, secondo un meccanismo suicida che sembra sostanzialmente immutabile negli anni e nei luoghi. Come se ci fosse un legame necessario tra tifare in maniera accesa e tirare oggetti. Come se un perdonabile insulto agli arbitri o ai telecronisti – chi non l’ha mai fatto, come on! – debba necessariamente sfociare in una tentata aggressione. Come se fosse normale che tutti gli autori e i responsabili dei vari misfatti finiranno sostanzialmene impuniti, quando in un mondo civile, questa volta sì, dovrebbero subire una pena che li scoraggi anche solo a pensare di ripetere un’azione del genere.

Quello che fa incazzare, in buona sostanza (cit.), è questa disarmante, quasi infantile, incapacità di costruire sulle proprie risorse. La frustrazione di dover sempre buttare via bambino e acqua sporca, rimanendo a mani asciutte. Trasformando un playoff memorabile in un bollettino di cronaca nera. Che poi, alla fine, è lo stesso sentimento che ci assale quando pensiamo ad altri aspetti della vita italiana. Al fatalistico “eppure avremmo tutto per essere una potenza” che viene sputato fuori davanti ai panorama mozzafiato, ai colpi di genio, alla maledetta bellezza di certi angoli. Vedi Napoli (o Varese), e poi ti incazzi.

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