Un altro figlio dell’Arkansas è il protagonista di questa puntata di NBA Focus. Una persona, prima che un giocatore, che ha lasciato un segno indelebile negli ultimi 17 anni di professionismo, in tutti i sensi: dal contributo vitale dato ai Los Angeles Lakers fino al titolo del 2010, a quello altrettanto fondamentale dato all’associazione giocatori durante i bui mesi del lockout, in veste di presidente dell’associazione stessa.

Stiamo parlando dell’unico compagno di squadra di Kobe Bryant (forse insieme a Robert Horry) in grado di fronteggiare la personalità dell’ex numero 8 e di comportarsi da vero leader carismatico nella squadra del Black Mamba. Non è un caso che tutti i 5 titoli conquistati dai Lakers nell’era di Kobe Bryant siano venuti anche grazie alla guida “spirituale” del venerabile maestro.

8.6 punti e 4.6 assist di media, con il 43% da tre punti (il suo fondamentale preferito, meglio se “in the clutch”) in 9 gare, sono le sue ultime cifre registrate per una squadra NBA prima di chiedere ai Dallas Mavericks di rescindere il contratto a causa di un grave problema al tendine rotuleo sofferto contro i Philadelphia 76ers e ad ancora non precisati problemi familiari. Infortunio comunque importante, che a meno di clamorose sorprese gli impedirà di calcare di nuovo un parquet nel basket che conta. Derek Fisher è insomma un giocatore ritirato, ma a 38 anni è giunto per lui il momento di fare un bilancio di una carriera che pochi possono vantare.

Un laureato in comunicazione prima di essere point guard per l’Università di Arkansas-Little Rock, Derek Fisher, per 4 anni al college, ha evidentemente riscosso successi in entrambi i campi di pertinenza. E’ infatti secondo nella storia dei Trojans in punti, assist e palle rubate con le rispettive medie di 12.4, 4.4 e 2.4, guidando la sua squadra in assist e punti durante gli anni di permanenza al college.

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Il draft del 1996 è famoso per aver ospitato la classe di rookie più forte degli ultimi venti anni (a eccezione, forse, di quello del 2003). Allen Iverson, Stephon Marbury, Ray Allen, Kobe Bryant e Steve Nash (in rigoroso ordine di scelta) hanno tutti preceduto la point guard uscente da Arkansas-Little Rock. Ma non lo hanno preceduto nel numero di soddisfazioni raggiunte in carriera. La scelta numero 24 di quel draft apparteneva ai Los Angeles Lakers che avevano appena scambiato Vlade Divac con la 13esima scelta degli Charlotte Hornets: pochi immaginavano che quelle scelte avrebbero rappresentato uno dei backcourt più vincenti della gloriosa storia gialloviola.

Gli “highlights” della sua carriera possono essere raccolti in una categoria: “decisivo quando conta”. E’ forse tutto ciò che un giocatore di basket vorrebbe essere, e non è affatto un caso che lui e il già citato Robert Horry facciano parte di questa piccola schiera e abbiano vinto tutto quello che c’era da vincere con Shaquille O’Neal e Kobe Bryant (nel caso di Horry con molti altri). Derek Fisher ha sempre vissuto come l’uomo inutile per 43 minuti, perchè cosi è sempre stato etichettato: l’uomo inutile che alla fine risultava sempre quello decisivo. Le domande del tipo “fa male alla difesa?”, “non dovrebbe giocare meno e partire dalla panchina?”, hanno sempre lasciato spazio alle sue gesta in campo e alla sua capacità di essere leader in due edizioni vincenti dei Lakers, formata da giocatori (in primis Kobe) che avevano bisogno come il pane di una personalità così. Una personalità in grado di segnare il tiro decisivo in tantissime occasioni: dalla famosissima volta di San Antonio (0.4 secondi rimasti sul cronometro in una gara4 di playoff), a quando vinse con le sue due triple di capitale importanza, gara4 a Orlando (nella finale NBA del 2009), fino ad arrivare in quel di Boston nel 2010, dove ci mostrò come un “anziano giocatore” (citazione di numerosi giornalisti) possa ribaltare una serie di finale come fece D-Fish in occasione di gara3.

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Non solo Lakers nella sua gran carriera. Dopo esser diventato free agent nel 2004, Fisher giocò per due stagioni con i Warriors, infelicemente, e un’altra con gli Utah Jazz. E’ proprio a Salt Lake City che ha forse vissuto il momento più drammatico e straordinario della sua carriera: con la figlia Tatum in ospedale a New York, la gara di playoff dei suoi Jazz contro i Warriors di Baron Davis era l’ultimo dei suoi pensieri. Ma quella gara dimostrò ancora una volta la sua grande professionalità: dopo l’intervento subito dalla figlia a causa di una forma di cancro che colpisce l’occhio (retinoblastoma), Fisher atterò a Salt Lake City durante il terzo quarto di gara2. Sloan era stato avvertito di lasciarlo nella lista degli attivi per la gara e infatti, con Deron Williams costretto a star fuori per problemi di falli, l’ex gialloviola diventò protagonista assoluto, rubando una palla decisiva a Davis nel finale di gara e segnando la tripla decisiva nell’overtime. In lacrime, Derek rivelò il malore della figlia e conseguentemente, nel successivo mese di luglio, chiese di lasciare i Jazz per ritornare a Los Angeles.

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Cosi come la settimana scorsa, quando Fisher rescindendo il contratto ha perso all’incirca un milione di dollari con i Mavs, anche nel 2007 chiese di essere rilasciato dagli Utah Jazz per motivi familiari. Nonostante il nuovo contratto lo legasse per 3 anni e per 14 milioni di dollari, così facendo avrebbe perso gli 8 milioni rimanenti nel contratto con la squadra di Jerry Sloan. Ha dimostrato di essere superiore a ogni speculazione monetaria e di essere “vero”, quando lo abbiamo visto più volte arringare i compagni durante un timeout o ancora più volte fare la stessa cosa con la stampa e, immaginiamo noi, con i proprietari durante le trattative per cessare la serrata del 2011.

Non poteva fare ritorno migliore a Los Angeles, dove è stato amato e apprezzato non solo per i titoli vinti. E’ stato ammirato quando ha rifiutato l’offerta dei Miami Heat per rientrare alla corte di Phil Jackson per l’ultimo vano assalto al titolo e quando ha segnato il suo ultimo tiro allo scadere contro i Mavs nel gennaio del 2012. E, infine, si è comportato da professionista, ancora una volta senza polemiche, quando è stato mandato agli Houston Rockets (che lo hanno subito tagliato) insieme a una futura scelta in cambio di Jordan Hill, lasciando un’eredità difficile da gestire.

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Il fratello minore di Duane Washington (ex Nets e Clippers) può dire di aver avuto la migliore carriera possibile, grazie al suo talento non tanto tecnico, ma fatto di testa e di leadership, come hanno sempre testimoniato tutti i suoi compagni di squadra più importante, a partire da Shaq e Kobe, fino ad arrivare all’allenatore più vincente della storia, Phil Jackson: “E’ senza dubbio il nostro portavoce, il leader della squadra. Ne abbiamo vitale bisogno”. Oklahoma City e Dallas possono essere considerate esperienze marginali, oltre che di pochi mesi (anche se l’aver disputato un altra finale NBA lo ha avvicinato al sesto titolo in carriera). Derek Fisher ha probabilmente lasciato la lega di basket più bella del mondo, e lo ha fatto da signore con concise parole lasciate a Twitter.

 

Twitter: @multarimarco