Gigi Datome viene dalla stagione più difficile della sua carriera. Tanti, troppi minuti in panchina a vivere il sogno americano a un metro dai parquet NBA senza poter dimostrare tutto il suo valore. Gigi non si è demoralizzato e sta lavorando sodo per farsi trovare pronto per la sua seconda stagione ai Detroit Pistons. Lo abbiamo incontrato a Roma, dove è venuto per aiutare l’NBA a formare i 45 giovani prospetti europei arrivati sul parquet della Stella Azzurra per Basketball Without Borders.
Gigi, sei tornato a Detroit per allenarti. Come ti senti?
Mi sento bene. Abbiamo finito la stagione a metà aprile e, aggiungerei purtroppo, non mi sentivo stanco non avendo giocato molto quest’anno. Il raduno della nazionale è a fine giugno e avevo un paio di mesi da poter investire su di me, sul mio corpo. Credo molto nel lavoro individuale. A Detroit hanno le attrezzature e le persone giuste per poter lavorare, per cui mi sembrava giusto occupare questo tempo nel modo migliore.
Volevi anche mandare un messaggio ai Pistons? In offseason, non sono tanti i giocatori disposti a chiudersi subito in palestra a lavorare.
Gli altri giocatori non hanno la nazionale e possono iniziare a lavorare sull’individuale più avanti. Io non avrò tempo a luglio e agosto perché sarò con gli azzurri per le qualificazioni agli europei. Il mio obiettivo era solo quello di trarre un beneficio personale da questo tipo di lavoro e non di mettermi in luce. Non ce n’è bisogno. In NBA le voci girano e lo scambio d’informazioni sui giocatori è una caratteristica imprescindibile del passaggio di testimone da un assetto a un altro. Sono sicuro che la nuova dirigenza e il nuovo coaching staff sanno bene che tipo di giocatore posso essere.
Parliamo un momento della stagione di Detroit. Una stagione difficile che è costata il posto al General Manager (Joe Dumars) e all’allenatore (Mo Cheeks). Come è andata?
E’ stata tosta. Una stagione che era partita con grande eccitazione nell’aria ma che passo dopo passo ha dimostrato che non eravamo in grado di fare qualcosa di buono. Siamo scivolati sempre più lontano dai playoffs della Eastern Conference, dove sicuramente quest’anno si poteva fare qualcosa di buono visto il livello generale della Conference. Mi dispiace che questa stagione sia costata il posto a Joe Dumars, che ha passato una vita ai Pistons. Adesso c’è questo nuovo assetto sia tecnico che societario e penso che sia la scelta giusta per la squadra.
Cosa è successo secondo te durante questa stagione? Qual è stato il problema principale?
Ero a Detroit quando Tom Gores, proprietario della franchigia, ha presentato Stan Van Gundy come nuovo allenatore della squadra. Sono andato a sentire la conferenza stampa e Gores ha detto che la lamentela dell’ambiente e della società era che il front office aveva difficoltà a comunicare con lo staff tecnico, rendendo così impossibile mettere in pratica sul campo i principi con cui la squadra era stata costruita. Adesso questo problema non ci sarà più perché Van Gundy non solo sarà head coach ma anche presidente.
La tua stagione personale è stata ancora più difficile di quella dei Pistons. Hai dovuto passare tantissimo in panchina. Com’è andata?
E’ stata durissima. E’ un sogno poter essere in NBA. E’ bellissimo volare in quegli aerei, dormire in quegli alberghi, poter vedere e vivere quella pallacanestro 24 ore su 24, avrò avuto al massimo cinque giorni liberi in tutta la stagione, ma io sono stato spettatore a un metro dal campo per la maggior parte della regular season. Se non giochi, tutto perde di significato. E’ quella la cosa bella. Io comunque ho cercato di non demotivarmi e di non lamentarmi. Ho lavorato sodo e ho cercato sempre di farmi trovare pronto per quelle poche occasioni che ho avuto. Ogni giorno ho lavorato in palestra per guadagnarmi più chances sul campo e mi reputo bravo per come ho affrontato questi momenti difficili. Non ho mai mollato.
Anche perché, Gigi, nella tua carriera tu hai sempre scelto il tuo percorso in relazione alla possibilità di migliorarti e di giocare da protagonista. Pure la scelta di Detroit era nata con questo pensiero. Un buon contratto ma, soprattutto, minuti. O no?
E’ vero al 100%. In tutta la mia carriera ho cercato il campo, non il conto in banca. E Detroit doveva essere la miglior soluzione per poter giocare minuti non tradendo le mie caratteristiche di giocatore. Durante la stagione le promesse che mi erano state fatte non sono state mantenute e questo mi è dispiaciuto davvero. Comunque questo mi era già capitato in Italia, figurati là dove sono l’ultimo degli arrivati.
Ora c’è il nuovo assetto tecnico e societario. Hai già parlato con Van Gundy: com’è andato il colloquio?
E’ andato bene. Ovviamente, non mi ha fatto alcuna promessa, anche perché non si sa ancora che squadra ci sarà l’anno prossimo in campo. Il draft e la free agency potrebbero stravolgere tutto. Lui mi ha detto che ha bisogno di tiratori e giocatori che giochino di squadra, che cerchino l’extra-pass e il movimento di palla, più che la soluzione solista, tutte caratteristiche che sento fortemente mie. Van Gundy mi ha detto di arrivare in forma al training camp, dove dovrò giocarmi le mie carte.
L’estate NBA sarà caratterizzata da una free agency tra le più importanti degli ultimi anni. Qual è lo scenario migliore per te e per i tuoi minuti in campo?
Sicuramente che non arrivino giocatori nel mio ruolo (ride ndr). Spesso si tratta di trovarsi nella situazione in cui la concorrenza di giocatori con le tue caratteristiche nel tuo ruolo è molto bassa.
Cambia lo staff tecnico e non ci sarà più Rasheed Wallace a Detroit. Come è andata la stagione con lui come assistente allenatore?
E’ stato molto bello essere allenati da un personaggio che ne ha viste tante nella sua carriera. Il suo ruolo è stato fondamentale dentro e fuori dal campo per noi. Fuori dal campo, Sheed è ancora un giocatore. Sa come si fa spogliatoio, ride, scherza: è uno di noi. Dentro al campo, invece, è il primo che sa che bisogna chiudere le distrazioni fuori dal parquet perché conosce i bioritmi NBA. Non c’è quasi mai tempo di allenarsi e se non si sfruttano al 100% quei pochi momenti a disposizione, si rischia di perdere l’opportunità di migliorarsi. In campo, Sheed cercava di aiutare tutti, di dare i consigli giusti di aiutare la gente a lavorare e a spingere. Faceva benissimo il suo lavoro perché era il tramite perfetto tra giocatori e coaching staff sapendo esattamente cosa e come pensano i giocatori. E’ stata un’altra di quelle esperienze che mi porterò dentro.
Qualche giorno fa, Steven Adams, centro rookie neozelandese degli Oklahoma City Thunder, ha tenuto la sua exit interview di fine stagione che è già diventata un cult. Ha detto che la cosa che più lo ha impressionato della sua prima stagione NBA sono i tavoli sugli aerei. Qual è la cosa che più ti ha impressionato della tua stagione NBA?
Ho letto dell’intervista di Adams. Le trasferte sono qualcosa di impressionante. Noi arriviamo in macchina all’aeroporto venti minuti prima che parta l’aereo e parcheggiamo a dieci metri dalla scaletta. Lasciamo la nostra borsa prima di salire sull’aereo e la ritroveremo dentro la camera dell’incredibile albergo che ci aspetta a destinazione. Quando atterriamo, sotto la scaletta ci aspetta il pullman che ci porta all’albergo. Niente formalità burocratiche, niente fila. L’organizzazione pensa a tutto. Le trasferte sono comodissime e si fa di tutto per fare in modo che il giocatore arrivi alla partita nella migliore forma possibile. Spettacolare.
Sono appena iniziate le Finals. Sei contento per Marco, il primo italiano della storia a giocarsi il titolo?
E’ una cosa bellissima ma soprattutto è una storia bella. Marco ha passato tanti anni a soffrire e a giocare poco, contro tutto e tutti. C’era tanta gente che diceva che non era adatto per l’NBA, che non era pronto. Tutte cose troppo facili da dire quando un giocatore non gioca. Lui però ci ha sempre creduto e ha lavorato sodo per essere dove è adesso. Si è tolto delle belle soddisfazioni e ha dimostrato a tutti di avere ragione. L’in bocca al lupo di tutta Italia è scontato e tutti si sentiranno un po’ più tifosi e partecipi di queste Finali.
La prossima domanda arriva quasi da sola. Dopo che hai detto che Marco ha saputo soffrire in panchina e non ha mai mollato, la sua storia può essere soddisfazione anche per te.
Si, però è diverso. Lui aveva vent’anni quando è arrivato in NBA, io ne ho 26. Non mi posso permettere di aspettare quattro e cinque anni per arrivare al “top”. Adesso non ci voglio pensare. L’anno scorso pensavo fosse l’anno giusto, adesso lo penso del prossimo. Non posso perdere energie mentali a deprimermi. Sono convinto che quest’anno avrò la capacità di dimostrare che sono all’altezza.
Queste Finals sono il manifesto ideologico della NBA del 2014. San Antonio Spurs, una dinastia che ha costruito la sua fortuna su un sistema che premia il lavoro di squadra, contro i Miami Heat, nati con il principio che basta mettere tre superstars nella stessa squadra per vincere. In più c’è la scuola Phil Jackson che, con i suoi discepoli, sta ritornando forte. Se Miami dovesse perdere, pensi che si ritornerebbe a una NBA di inizio 2000, quando Popovich e Jackson si spartivano questa lega?
La lega è cambiata tanto negli ultimi dieci anni ma quando una squadra come quella di Popovich ha giocatori di qualità che giocano una bella pallacanestro è difficilmente contrastabile. Dall’altra parte c’è sempre più atletismo, sempre più isolamenti e pick&roll di giocatori straordinari come LeBron. Credo che San Antonio sia l’unica squadra che abbia la capacità e le individualità per poter giocare una pallacanestro veramente corale. Però Miami ha delle individualità troppo forti e una fisicità che quando si sale di livello, e le Finals sono il punto più alto della stagione, è difficilmente contrastabile.
Rispetto a quando Belinelli e Bargnani sono entrati nella lega, i rookie europei arrivano con molta più esperienza. Tu sei arrivato in NBA a 26 anni ma non è strano trovare giocatori come Pero Antic e Pablo Prigioni che decidono di andare oltreoceano alla soglia dei 35 anni. Cosa è cambiato secondo te?
Credo che si tratti soprattutto della carriera del singolo giocatore. Per esempio, mi hanno chiesto tante volte di spiegare perché sono andato in NBA adesso. Ogni volta rispondevo che prima non mi ha cercato nessuno. Mi reputavo pronto e mi reputo pronto ma non c’era stata l’occasione. Può pure succedere che le squadre e gli scout si accorgano di un ragazzo super talentuoso e super futuribile che viene draftato per farlo crescere nella lega. Ogni carriera è diversa e ognuno deve fare le scelte che ritiene più giuste per il suo percorso personale. Ci sono molti giocatori in Europa, molto più forti di me, che in NBA non ci sono mai andati. Io però mi sento pronto e so di poter fare bene. Non mi sarei mai permesso di non prendere questo treno e tra qualche anno avere i rimpianti pensando a come sarebbe potuta andare. Io adesso penso solo a lavorare e spero di aver fatto la scelta giusta.