Dwyane Wade, LeBron James e Chris Bosh (Photo Reuters-Mike Segar)

Dwyane Wade, LeBron James e Chris Bosh (Photo Reuters-Mike Segar)

Sono stati assemblati nel 2010 per fare strage di titoli. In tre anni, sono sempre arrivati a giocare l’ultimo atto. E ora l’hanno vinto per il secondo anno consecutivo, superando in finale l’ostacolo più difficile e alcuni momenti in cui sembrava che il Larry O’Brien Trophy fosse praticamente sfuggito. Invece i Miami Heat sono di nuovo lì, davanti a tutti, a festeggiare un altro trionfo, arrivato in gara7 di una serie finale che, anche per grande merito degli Spurs, ha regalato alternanza di situazioni, emozioni, colpi di scena ripetuti e uno spettacolo complessivamente di altissimo livello. E’ il terzo titolo nella storia della franchigia. Hanno vinto perché hanno più talento, perché sono più atletici, perché sono arrivati con la spia della riserva non ancora accesa, ma soprattutto hanno vinto perché hanno in squadra il più forte di tutti adesso. LeBron James, quattro volte Mvp della regular season, ha messo al dito il secondo anello con allegato il premio di miglior giocatore delle Finali. Meritato, grazie a numeri da paura, 25.3 punti, 10.9 rimbalzi e 7.9 assist di media. Anche se non sono mancati i momenti difficili, con un inizio lento da 18, 17 e 15 punti nelle prime tre partite accompagnate da importanti dosi di critiche, che si sono rivelate premature perché poi non è più rimasto sotto i 25 ed ha dominato gara6 con una tripla-doppia da urlo e soprattutto la settima, con i 37 punti e 12 rimbalzi, ispirati anche da una non continua ma migliorata efficacia al tiro da fuori, che gli Spurs hanno scelto di concedergli ma su cui hanno pagato dazio incassando ben 5 triple.

Ma è il titolo anche di Dwyane Wade che, pur spesso relegato in secondo piano dalla luminosità del “Prescelto”, ha saputo venire fuori alla distanza, scalando le montagne rese ancora più impervie dalle condizioni imperfette del ginocchio. Due doppie-doppie nelle ultime tre partite e soprattutto una gara7 da 23 punti e 10 rimbalzi, qualche forzatura ma soprattutto diversi canestri derivati da quei tiri in sospensione che, non entrando, diverse volte lo avevano condizionato. La sua presenza, soprattutto nel 1° tempo, è stata fondamentale – in un certo senso – anche per preparare il terreno al finale di James e soprattutto per compensare l’inusuale gara7 senza punti a referto di Allen, Miller e Bosh. Il terzo dei “Big Three” è stato il meno convincente nell’arco delle 7 partite: ben consapevole di avere meno talento e di essere destinato a vedere meno palloni, si è ritagliato un ruolo da specialista difensivo e a rimbalzo, da cui è emerso con decisione in attacco solo nella vittoria di gara4. Il suo spazio, di fatto, nell’ultima sfida è stato preso da Shane Battier, capace di tirare un sontuoso 6/8 da tre (9/12 nelle ultime due gare) mettendo triple di importanza capitale nei momenti in cui Miami aveva bisogno di uno sbocco diverso da James e Wade.

Grande merito del prodotto di Duke l’aver saputo essere pronto alla chiamata di Spoelstra, che gli ha concesso 29 minuti in gara7 dopo averlo messo di fatto ai margini della rotazione nelle prime 4 uscite (7’ di media). Invece da gara4 il coach degli Heat – che ha già ricevuto le congratulazioni telefoniche di Barack Obama – sempre costretto ad inseguire, ha provato a cambiare le carte in tavola e dare una svolta alla serie. Capita la maggior efficacia della squadra con James da numero 4, il campo aperto e il quintetto riempito di gente pericolosa sul perimetro, ha lanciato tra i primi cinque Mike Miller, reduce dal 5/5 dall’arco di gara3 (9/10 nelle prime tre sfide). Dopo aver “panchinato” Battier all’inizio, ha rinunciato ad Haslem e in due occasioni anche ad un “Birdman” Andersen pur efficace in difesa su Duncan, dopo avergli concesso 6’30” in gara5 ha sacrificato Norris Cole preferendo un secondo quintetto con l’alternanza James-Wade come portatore di palla, ha usato LBJ in difesa su Parker in particolari momenti con ottimi risultati. Insomma, nel complesso, non si è tirato indietro dalla partita a scacchi contro un maestro come Popovich e si può dire che ne sia uscito vincitore.

Il tecnico degli Spurs, avanti tre volte nella serie e capaci di vincere tutte le partite dispari tranne quella più importante, è stato costretto ad adeguarsi al rivale togliendo Splitter in gara4 dopo meno di un minuto di gioco per riequilibrare il quintetto con Gary Neal, ha cercato di cavalcare i suoi “Big Three” finché hanno avuto la freschezza e la lucidità. Suscitando le perplessità di molti osservatori, a cui non ha voluto dare spiegazioni in conferenza stampa dopo la fine dell’ultima sfida, ha rinunciato a Parker nei finali di gara6 e 7, affidando la palla ad un Ginobili che tanti cuori cestistici ha infranto sulle due sponde dell’Atlantico ma che ha mostrato più volte la corda. Il fisico non risponde più come prima alle idee sempre brillanti di Manu, che ha giocato naturalmente al massimo – assumendosi anche troppe responsabilità dopo le sconfitte – ma è stato protagonista solo di una grande gara5, su cui ha messo la firma con 24 punti e 10 assist, premiando la scelta di Popovich di puntare su di lui tra i primi cinque. Per il resto, invece, ha vissuto di qualche fiammata e in una gara7 positiva ma un po’ alterna ha mostrato il fianco al nemico chiamato stanchezza con 4 perse nel solo ultimo quarto, l’ultima con un’entrata mal consigliata che ha spento le residue speranze già attenuate dal tiro ravvicinato sbagliato da Duncan all’ingresso nell’ultimo minuto. Il caraibico, dopo l’errore, ha insolitamente mostrato l’emozione sotto forma di rabbia, sfogata con una manata sul parquet in difesa, segno della consapevolezza dell’occasione che stava sfumando. Niente quinto titolo per TD e non si sa se ci sarà un’altra possibilità per il 37enne a cui comunque va riconosciuto di aver disputato una serie grandiosa per incorniciare una stagione fenomenale. 18.5 punti e 12.1 rimbalzi sono cifre di livello assoluto, ma che non descrivono in pieno un giocatore impossibile da clonare: era in condizione fisiche eccellenti, ha giocato alla pari con gente più atletica e più giovane, ha mantenuto la freddezza e la lucidità tecnica che lo contraddistinguono finché ha potuto e non ha avuto neppure il calo che ha colpito Parker e Green. Difficile pretendere di più.

Tony Parker segna il canestro della vittoria in gara1

Tony Parker segna il canestro della vittoria in gara1

Il francese, decisivo ad inizio serie, ha avuto in seguito una flessione anche causata dal fastidio muscolare che l’ha tormentato, è riuscito a riscattarsi solo con i 26 punti di gara5, ma dopo ha fornito due prove da 9/35 complessivo, pure perché le “cure difensive” di LeBron James hanno lasciato il segno. L’aggressività di LBJ ha spinto anche gli altri Heat a salire di livello nella propria metà campo, arrivando a mettere la museruola anche ad un Danny Green che ha sì stabilito il nuovo record di triple in una serie finale (27), ma, dopo aver viaggiato nelle prime cinque a 18 di media col 65.8% da tre sulla strada persino di un tanto impronosticabile quanto non assurdo titolo di Mvp, ha fatto un’intensa conoscenza dei ferri della American Airlines Arena con un inguardabile 2/19 dal campo nelle ultime due, dimostrando quanto si è rivelata corta la coperta degli Spurs. Nonostante un grandioso Kawhi Leonard, da cui si ripartirà: a 21 anni ha affrontato le Finali con una maturità insospettabile e una tranquillità, quantomeno apparente vista l’espressività “duncaniana” del viso, davvero importante per un giocatore che ha margine per essere ancora più efficace dalla prossima stagione. 19 punti e 16 rimbalzi in gara7 di una serie finale di questo livello, dopo averne segnati 22 e 11 in gara6, sono biglietti da visita prestigiosi per un giocatore di 1.98 capace di andare 5 volte in doppia cifra a rimbalzo e segnare anche nei momenti più caldi.

San Antonio, organizzazione sempre di livello stratosferico, rimpiangerà il finale di gara6, con un vantaggio sprecato in chiusura dei regolamentari e vanificato dalle triple di James e di Ray Allen. Lì ha buttato via l’occasione di chiudere un ciclo con un successo. Adesso il futuro diventa nebuloso, Leonard ci sarà, ma il terzetto dei 4 titoli, sempre ad alto livello per oltre un decennio, potrebbe avere scritto l’ultimo capitolo della corsa insieme.