5. NOMEN OMEN

Se avessi in squadra uno che si chiama Goodwin, non potrei che affidargli il tiro della possibile vittoria. Senza esitazione. Pur sapendo che non si sta parlando di un fenomeno della palla a spicchi.

E così ha fatto Phoenix, giustamente. Contro gli Hawks ha messo nelle mani del buon Archie l’ultimo possesso, all’ultimo secondo. Sul 95 pari, isolamento in punta contro Sefolosha, che è ottimo difensore e infatti non si fa battere. E allora non rimane che tentare da lontano: mezzo step back e tripla risolutrice.

Vittoria Suns (che di sti tempi è una rarità) e giocatore sommerso da compagni e staff.

Really a Good win.

 

4. LOSING EFFORTS

In tutta franchezza: Houston è quello che è. Non è bella da vedere, non diverte, vince poco e tatticamente non è un gioiello. Nel roster, però, qualche giocatorino niente male c’è. Su tutti, James Harden e, tutto sommato (tanti dissentiranno ma è così), anche Dwight Howard.

Le due stelle (una stella e mezzo?) dei Rockets sono state protagoniste, anche se in match differenti, di due prestazioni degne di nota.

In ordine cronologico, precedenza a Superman. Nella sfida con i Clippers, l’ex Orlando e Lakers ha rispolverato le “vecchie maniere” di una volta: 36 punti e 26 rimbalzi. Devastante e dominante. Soprattutto se si pensa che duellava con un certo DeAndre Jordan, uno abituato a dettare legge nei pitturati.

Peccato per Dwight che le sue cifre siano servite a poco: dopo un overtime, vittoria Los Angeles 140-132.

Così come “inutile” è stata la pazzesca tripla doppia di Harden contro i Pistons. Detroit, infatti, ha sbancato il Toyota Center (123-114).

Il “Barba”, tuttavia, ha poco da recriminare, perlomeno a livello personale: 33 punti, 17 rimbalzi e 14 assist. Con 6 palle perse, che, conoscendo giocatore e squadra, sorprendono il giusto.

Performance monstre di un fenomeno vero. Con pregi e difetti annessi.

 

3. WELCOME BACK COACH

Steve Kerr è di nuovo sulla panchina dei suoi Warriors. E Steph Curry ha voluto dargli il suo “regalo di bentornato”. Alla maniera dell’MVP, ovviamente.

Contro gli Indiana Pacers di Paul George, tripla doppia del #30: 39 punti, 10 rimbalzi e 12 assist. Con 11/19 dal campo, 8/15 da tre e 9/9 ai liberi. Solita sensazione di onnipotenza e straordinaria capacità di unire bellezza e concretezza. Senza mai dimenticare il sorriso e le giocate da funambolo che incantano il mondo intero. Che siano penetrazioni slalomeggianti, assist col “terzo occhio” o le proverbiali triple da ogni dove.

Letteralmente da “ogni dove”. Anche da metà campo. Da così lontano ci vuole fortuna, ma se ne metti due su due, e se ti chiami Wardell Stephen Curry, è più che probabile che la Dea bendata ci metta sì lo zampino, ma nemmeno troppo.

 

2. WALK(ER) THIS WAY

Career-high, record di franchigia, massimo di sempre nel Martin Luther King Day. Kemba Walker griffa il suo memorabile 18 gennaio con la bellezza di 52 punti (con 8 assist e 9 rimbalzi). Tanti, belli e, soprattutto, decisivi. Di fatto, il play ha deciso la gara con i Jazz.

E’ vero che è stato ”aiutato” dal doppio overtime, ma vanno sempre e comunque segnati. Anzi, a maggior ragione tanto di cappello, se si pensa che al termine dei 48 minuti regolamentari era fermo a 35 (già di per sé una gran gara) e che, poi, ha letteralmente trascinato Charlotte realizzando 17 dei 29 punti totali degli Hornets nelle due frazioni addizionali.

16/33 dal campo, 6/11 da tre, 14/15 a cronometro fermo. Patron Michael Jordan, per una volta, avrà potuto rivedere un po’ di se stesso (perdonate la blasfemia) in uno dei suoi ragazzi.

 

1. BOLLICINE GIALLOBLU

Steph Curry voleva sentire se negli spogliatoi della Quicken Loans Arena ci fosse ancora il profumo dello champagne stappato nel giugno scorso. LeBron James aveva detto che avrebbe cominciato a prendersi un po’ di rivincita su chi, l’anno passato, gli ha sbarrato la strada verso l’anello. Insomma, il ritorno a Cleveland dei Warriors aveva tutto il necessario per essere un grande e combattutissimo spettacolo.

Peccato non ci sia stata partita. Mai. Nemmeno per un attimo, con i padroni di casa triturati dagli imprendibili gialloblu, letali e spietati sin dalla palla a due. 132 a 98: un’umiliazione per il Re e i suoi scudieri.

35 punti per l’MVP, solo 16 per LeBron. Green che sfiora la tripla doppia e Iguodala che che torna “sul luogo del delitto” mettendone 20, mentre Love e Irving deludono e Smith si fa cacciare fuori per un fallaccio su Barnes. Golden State quasi al 50% da tre (19/40), il 54% dal campo e 33 assist complessivi. Una superiorità schiacciante, in ogni situazione tattica e anche sul piano mentale. Di sicuro, i californiani si erano segnati sul calendario la data del ritorno in Ohio.

“Hanno fatto quello che hanno voluto” ha commentato un attapirato LBJ. Non poteva esserci sintesi migliore.