5. BELLI E SFORTUNATI

Indiana-Toronto e Miami-Charlotte andranno a gara-7, per la gioia di tutti e per l’autostima di coloro che avevano previsto due battaglie apertissime. Beh, se volessimo dirla tutta, non ci voleva Nostradamus per pronosticarlo…

Equilibrio, energia, passione, sudore, aggressività, tensione: questo tutto quello che chiediamo ai playoff. E la Eastern Conference, quest’anno, sta appagando i nostri insaziabili spiriti.

Tra i protagonisti di questi due incroci, Paul George e Kemba Walker. Accomunati da una stagione grandiosa, da un percorso simile in questa post-season e, ahi per loro, da due prestazioni settimanali da standing-ovation coincise con altrettante sconfitte.

Cominciamo da Paul George. L’asso di Indiana sta guidando i Pacers con la leadership della stella assoluta. Il che gli compete. Eccome. Visto che stiamo parlando di un giocatore ritornato a essere fenomeno dopo le ben note disavventure fisiche. Viaggia a quasi 28 punti di media e in gara-5 ne ha messi ben 39, alimentando il sogno di qualificazione alle semifinali di Conference.

Serata da urlo, con 11/19 dal campo, 5/11 da tre, 8 rimbalzi e 8 assist. In 41 minuti sul parquet.

Niente lieto fine: abbiamo già svelato che stiamo parlando di losing effort, dunque… Ha vinto Toronto, 102-99, ma le magie di PG13, in ogni caso, non possono passare inosservate.

Così come quelle di Kemba Walker, autore di 37 punti in gara-6. Storia simile a quella di George: sforzo enorme ma sfortunato, visto che gli Heat hanno alzato le mani al cielo (97-90) e prolungato la serie. Per il #15, 14/30 dal campo (ha tirato quel tantino…), 4/8 da tre e il solito repertorio: triple, penetrazioni alla velocità della luce, atletismo, moto perpetuo.

 

4. MAI GETTARE LA SPUGNA

I Clippers sono gli unici che, ogni anno, non devono misurarsi solo con altre 29 squadre. C’è un altro avversario, infimo e terribile, che da sempre ha la meglio sui losangelini: la sfortuna.

Ciò che è accaduto quest’anno è incredibile: quando tutto sembrava girare per il verso giusto, con la prospettiva di una semifinale di Conference contro i Warriors senza Curry, quindi “fattibile”, ecco la mano rotta di Paul e il problema muscolare di Griffin. In un attimo, il castello di carte è crollato.

La serie con i TrailBlazers, tutto sommato ben indirizzata, si capovolge: Portland, che merita tutto il successo che sta avendo, vince, rivince e chiude i conti, volando al secondo turno. Gioia e incredulità nell’Oregon, ennesimo psicodramma in California.

Gara-6, che ha deciso la contesa, è iniziata con i Clippers senza le già citate stelle e con Austin Rivers, in quintetto per Paul, subito k.o. dopo la terrificante gomitata (involontaria) incassata da Aminu. Un colpo da MMA che ha mandato il figlio del coach al tappeto, costringendolo a correre in infermeria.

Partita finita? Macchè: 11 punti sul viso, 21 nel tabellino. Occhio gonfissimo e incerottato, faccia tumefatta e aria da pugile suonato. Ma tanta voglia di non mollare, di lottare fino alla fine e affrontare quel maledetto avversario che già aveva rovinato tutto.

Perciò, onore a Rivers. Anche i Clippers, perdenti quanto volete, quando vogliono sanno combattere.

 

3. UNO PER TUTTI, TUTTI PER UNO

Una maledetta macchia di sudore che rischiava di rovinare tutto. Un ginocchio che fa uno strano movimento e Stephen Curry costretto a correre negli spogliatoi. Senza più tornare.

I Warriors perdono il proprio leader ma non si smuovono, perché sono un gruppo vero, tosto, orgoglioso e consapevole della propria forza. La reazione dei gialloblu alla sfortuna è sublime: terzo quarto da 41-20 che demolisce i Rockets, gioco che si fa vorticoso, Thompson che si prende tutte le responsabilità del leader e Livingstone che sostituisce Steph alla sua maniera, con le sue qualità, senza scimmiottare l’MVP.

E gara-4 va in archivio, così come quella successiva (poca storia nel 114-81), filata via liscia come se Stephen fosse in campo e nulla fosse successo. Ma il #30, purtroppo, mancherà ancora per un paio di settimane. Un’assenza che non può passare sottotraccia. Ma, se i compagni continueranno a reagire così, i giochi rimarranno aperti, Curry avrà tempo di tornare e la corsa al titolo in back-to-back proseguire come se nulla (o quasi) fosse successo.

Come ribadito da Klay Thompson dopo gara-5: “None of us can do it alone”.

 

2. LEE-MITLESS

Ci vuole coraggio, freddezza, talento, tecnica e, soprattutto, tantissima voglia per fare quello che ha fatto Courtney Lee nella gara-5 tra i suoi Hornets e gli Heat, valsa il 3-2 nella serie per la franchigia della North Carolina.

Il canestro vincente, a pochi secondi dal termine del match, sarebbe, già di per sé, meritevole di infinite lodi. Ma poi vai a rivedere com’è stato costruito e, allora, osanni l’ex Memphis. Perché ci ha creduto e, su una palla vagante, è volato a rimbalzo, mantenendo poi la lucidità: passaggio a Lin, movimento, ricerca dello spazio, ricezione e bomba senza esitazione. Gli Dei del basket non avrebbero potuto voltargli le spalle.

Mentre esplode la panchina degli Hornets, si ammutolisce il palazzo di Miami, improvvisamente pallido, e non solo per il look total-white scelto per l’occasione.

 

1. CROMOSOMA W

C’è chi nasce buon giocatore e chi, invece, ha il DNA del campione. Di differenza ce n’è: eccome. Il campione è colui che sa prendersi in mano la partita in qualunque momento, elevando il proprio gioco a livelli impensabili per gli avversari. Talento tecnico e, soprattutto, mentale. Un dominatore che decide quando è arrivata l’ora di mettersi al timone e rimettere il match sulla rotta preferita.

Dwayne Wade è un campione. Anzi, un campionissimo.

Non lo scopriamo di certo ora, ma l’ultimo quarto di Miami-Charlotte, gara-6 di una serie tiratissima, ci ricorda perché questo signore è destinato a rimanere nella storia del gioco.

Dopo tre periodi “normali”, il #3, vista la rimonta degli Hornets, decide di cambiare marcia e zittire tutti (in primis l’ormai noto tifoso con camicia viola seduto in prima fila). Prima due triple difficili e pesantissime, soprattutto per uno che, ed è pazzesco, non segnava un tiro dall’arco dal 16 dicembre; quindi un jumper in precario equilibrio tra una selva di mani avversaria; infine, la stoppata da dietro su Kemba Walker.

Scatti di onnipotenza cestistica che in pochi si possono permettere. Prove di forza e orgoglio che solo i grandi combattenti possono sostenere. Una magia vera. Un fenomeno senza se e senza ma.

Tutti a gara-7. Così ha voluto D-Wade.