Kyrie Irving, grande ma sfortunata stagione

Kyrie Irving, protagonista di un’eccellente ma sfortunata stagione

Non è LeBron James, ma è la ragione per cui Cleveland è tornata a respirare basket, a credere di poter ricostruire qualcosa di buono con la sua storicamente martoriata franchigia. Il motivo per cui i Cavaliers hanno un futuro che li possa allontanare dall’anonimato in cui sono bruscamente ricaduti dopo la polemica separazione dal nativo di Akron. E’, più semplicemente, Kyrie Irving.

Nato a Melbourne, in Australia, dove il papà giocava professionalmente a basket e dove ha trascorso i primi due anni di vita, Kyrie Andrew Irving è il detentore del premio di rookie dell’anno, vinto all’esordio nella lega sconfiggendo gli scettici che, a causa di un infortunio, l’avevano visto solo per 11 partite al college, con la maglia di Duke, e non lo ritenevano pronto per il grande salto, tantomeno con la prima scelta assoluta. Ma, come spesso accade (però non sempre, per conferma telefonare a Toronto…), questa insufficiente considerazione gli ha fatto scattare la prima molla delle motivazioni a dare il massimo, ad andare in campo per mostrare di valere quel palcoscenico e, perché no, anche il ricco contratto. Con 18.5 punti, 5.4 assist e 3.7 rimbalzi di media (tirando meglio delle previsioni: 46.9% dal campo, 39.9% da tre) e pure la vittoria del premio di MVP al Rising Stars Challenge dell’All-Star Weekend griffato con 34 punti, è lui l’unica vera luce nel buio di una squadra in ricostruzione, che prevedibilmente langue nei bassifondi della classifica.

Quella stessa squadra che arriva rinforzata al campionato in corso, ma ancora con un nucleo molto giovane e la decisione di non impegnare troppo il monte salari in attesa di off-season più propizie in cui dare la caccia a giocatori di primissimo livello. Kyrie è sempre più il leader e l’elemento a cui aggrapparsi negli ancora frequenti momenti di difficoltà. La crescita però comincia a vedersi e soprattutto grazie a lui arrivano autentici show individuali ma anche vittorie di prestigio. Al Madison Square Garden riscrive il proprio career-high con 41 punti segnati pur indossando la maschera sul volto per proteggere lo zigomo fratturato la sera prima contro Milwaukee. Nella sorprendente vittoria sui Thunder firma 35 punti, contro gli Hawks ne mette 33, a gennaio Boston cade sotto i suoi 40 punti e un clamoroso 16/24 al tiro. Dopo quella partita, Paul Pierce lo incorona “miglior point-guard realizzatrice della NBA”. Ed è arduo contraddirlo, pur in ruolo ricchissimo di talento in giro per la lega, perché Kyrie ha la rapidità e la tecnica per battere l’uomo in uno contro uno, sa accelerare per andare a canestro anche nel traffico e crearsi la conclusione praticamente in ogni situazione, tira il 58% quando attacca il ferro e un irreale 61% nelle triple frontali.

Non è un super difensore né un passatore di altissimo livello, tanto che il suo partner del backcourt Dion Waiters, rookie da Syracuse, non brillantissimo all’inizio nella scelta dei tiri ma cresciuto col passare delle settimane, ha in un certo senso beneficiato delle gare di assenza di Irving per avere l’atteso incremento di responsabilità offensive. Più tiri, insomma, ed è una situazione di certo non sgradita per una guardia, ma anche meno spazio e tempo per prenderli.

Le gare di assenza, dicevamo. Questo è un tema da tenere in considerazione, perché gli infortuni non sembrano dare tregua ad Irving, passato da 15 partite saltate nella stagione da 66 (pari al 22.7%) alle 15 (appena 5 vittorie, non casualmente…) solamente guardate nelle prime 64 uscite della stagione in corso, pari ad un 23.4% molto simile ad un anno fa, ma una percentuale destinata ad aumentare perché la lussazione alla spalla sinistra subita domenica a Toronto, a causa di uno scontro in entrata con Valanciunas, lo terrà fuori per almeno 3 settimane. Dopo le 11 assenze per la frattura di un dito della mano e le 3 per l’iperestensione del ginocchio destro, un altro brusco rallentamento verso la sua ascesa ai massimi livelli della lega, che potrebbe anche indurre i Cavaliers, vista la situazione di classifica, a non forzarne il rientro per le ultime partite.

Kyrie Irving elegante in panchina con abiti borghesi (AP Photo/Mark Duncan)

Kyrie Irving elegante in panchina con abiti borghesi (AP Photo/Mark Duncan)

“Non so se sia giusto dirlo ora. Aspetteremo e decideremo con l’aiuto dei dottori e del preparatore atletico” riconosce coach Byron Scott, che però non vuole vedere neanche avvicinarsi alla sua point-guard la pericolosa etichetta “injury prone”: “E’ molto giovane (compirà 21 anni il prossimo 23 marzo, ndr) e fisicamente può ancora svilupparsi tanto. Non sono preoccupato. Tutti gli infortuni sono stati traumatici e determinati dal momento. Non sono mai state cose ricorrenti”. Per la prossima off-season, però, Scott ha già pronto il primo compito da dare al suo giocatore: “Dovrà dedicarsi molto alla sala pesi, deve irrobustirsi perché nel suo stile di gioco i contatti ci sono e deve poterli reggere meglio”.

Per lo spettacolo sarebbe un peccato, ma Irving – che ha messo in bacheca anche la gara del tiro da 3 all’ultimo All-Star Weekend – rischia seriamente di aver chiuso così la sua seconda stagione, in cui ha messo altri importanti miglioramenti nel proprio bagaglio, ben confermati dai 23.0 punti di media che lo collocano al momento al 6° posto assoluto tra i migliori realizzatori. D’altra parte rischiarne un rientro affrettato solo per partite che, con i playoffs fuori portata, avranno poco da dire potrebbe essere controproducente per l’intera franchigia. Perché Kyrie, al di là di un eventuale e già vociferato ritorno di LeBron, del possibile rilancio di Oden, della crescita di Thompson e Waiters, è il futuro dei Cavaliers.