Rick Adelman, coach dei Minnesota Timberwolves, entra nella storia raggiungendo le 1000 vittorie in carriera. Festeggiato da tutti, assieme alla moglie Mary Kay (AP Photo/Jim Mone)

Rick Adelman, coach dei Minnesota Timberwolves, entra nella storia raggiungendo le 1000 vittorie in carriera. Festeggiato da tutti, assieme alla moglie Mary Kay (AP Photo/Jim Mone)

6 aprile 2013: Minnesota batte Detroit 107-101. All’apparenza è un risultato normale, tra due squadre che non hanno più molto da chiedere alla regular season. In realtà è la partita che permette a coach Rick Adelman di tagliare il prestigioso traguardo delle 1000 vittorie nella carriera NBA. Alla 22^ stagione da capo-allenatore, pur non avendo mai vinto un titolo, entra a far parte di una ristretta cerchia che comprende Don Nelson, Lenny Wilkens, Jerry Sloan, Pat Riley, Phil Jackson, Larry Brown e George Karl.

Un risultato storico, che i suoi giocatori sono riusciti a regalargli al Target Center, quindi sul campo di casa, davanti ad amici e parenti accorsi per poterlo festeggiare. Tra questi non è mancata la moglie Mary Kay, ovviamente la prima persona che il coach è andato ad abbracciare al termine della partita. “Le avevo detto che l’avrei portata in campo. Non era molto felice di questo. Ma è sempre stata presente negli anni, se non fosse stato per lei che si è dedicata tantissimo ai figli, non avrei mai ottenuto questo risultato nel mio lavoro” ha detto il 66enne di Lynwood, California, sempre apprezzato per l’eleganza, la serietà, la competenza ma anche la discrezione nell’affrontare le luci della ribalta mantenendo sempre un contatto saldo con la famiglia. E’ stata una stagione difficile per tutti nel Minnesota, soprattutto perché gli dei del basket hanno scelto di decimare una squadra potenzialmente molto interessante con una serie impressionante di infortuni, ma anche per i problemi di salute della consorte che hanno costretto coach Adelman ad allontanarsi dalla squadra, affidandola per qualche tempo al vice Terry Porter, e a mettere in dubbio il proprio futuro in panchina.

Ci penserà con più calma quando la regular season sarà finita. Ma l’ex point-guard di Loyola Marymount, arrivato nella NBA grazie alla scelta dei San Diego Rockets (poi trasferitisi a Houston) nel 1968, ha allungato la lista degli apprezzamenti ottenuti nel corso degli anni da allenatore, costruendo ancora ottimi rapporti con lo spogliatoio ed una squadra che ha attraversato momenti fisicamente difficilissimi, ma non è mai crollata. “E’ un grande coach secondo me – ha detto Andrei KirilenkoAma avere un dialogo con i giocatori, non vuole un monologo”. “Merita questo risultato – ha aggiunto Ricky RubioHa saputo fare cose fantastiche quest’anno. E’ rimasto con la squadra, nonostante i suoi problemi. Li ha affrontati ed è sempre stato al nostro fianco. Questo significa molto, lo ammiro e lo ringrazio per tutto ciò che ha fatto per noi. Un grande esempio per tutta al squadra”.

Uno dei principali esempi di “players’ coach”, Adelman ha iniziato ad allenare nel 1977 al Chemeketa Community College di Salem, Oregon, rimanendovi fino al 1983, prima dell’importante chiamata di Jack Ramsay per diventare assistente a Portland e mostrare subito nell’ambiente la sua competenza, la sua conoscenza del gioco e la capacità di stabilire rapporti positivi con i giocatori. Dopo l’esonero di  Ramsay, rimpiazzato da Mike Schuler, viene confermato come primo assistente fino a diventare interim coach nel 1988-89. Riesce a finire quella stagione portando la squadra ai playoffs e questo gli fa guadagnare l’incarico che manterrà fino al 1994. Con i Blazers arriva due volte in Finale ma manca il bersaglio grosso, schiantandosi contro Pistons e Bulls, e una in Finale di Conference.

Dopo cinque anni a Portland, segue un biennio meno positivo a Golden State poi, dopo una stagione di pausa, guida per sette anni i Sacramento Kings. Viene portato in California dal g.m. Geoff Petrie, che da giocatore con lui aveva formato per un paio d’anni il backcourt titolare a Portland ed aveva poi costruito una relazione di amicizia durata negli anni. Con la sapiente gestione-Adelman, i Kings diventano con continuità una delle squadre più vincenti dell’intera Western Conference, merito soprattutto di un attacco che esalta le qualità dei giocatori e fa innamorare tifosi in ogni parte del mondo, per la qualità, gli spazi e i tempi di esecuzione. Era la squadra di Webber e Divac vicino a canestro, di Mike Bibby in regia, del sottovalutato Doug Christie e di un tiratore come Stojakovic che col tempo prende il posto di Turkoglu. Presenza fissa ai playoffs, in quegli anni diventa celebre il duello a distanza con i Lakers di Phil Jackson, che vive probabilmente il proprio apice nel 2002 con una serie spettacolare, piena di colpi di scena, ma anche di botta e risposta mediatici, che i Kings potrebbero chiudere in gara 6 ma perdono nell’ultima decisiva puntata.

Rick Adelman parla con Ricky Rubio (Photo By Eric Muller/Reuters)

Rick Adelman parla con Ricky Rubio (Photo By Eric Muller/Reuters)

L’impresa di rompere la dinastia gialloviola non riesce e Adelman anche nella successiva esperienza a Houston, che lo ingaggia dopo le dimissioni di Jeff Van Gundy, paga dazio alla sfortuna che a lungo gli toglie Tracy McGrady e Yao Ming, ovvero quelle che nelle intenzioni dovevano essere le colonne – troppo fragili – di una squadra pensata per arrivare più avanti possibile nei playoffs. Non arriverà mai fino in fondo, ma, in condizioni ben diverse da quelle originarie, ottiene pure risultati apprezzabili, come la serie di 22 vittorie consecutive nel 2007-08 che solo recentemente i Miami Heat hanno fatto scendere sul terzo gradino delle strisce positive più lunghe di sempre.

Anche nell’ambiente dei campioni in carica, Adelman è molto stimato: “Lo conosco da una vita, abbiamo anche giocato insieme per un paio di stagioni – ha detto Pat RileyAveva già la mentalità da allenatore in campo, giocando da point-guard la transizione è stata più facile”. “Ero già un suo sostenitore all’high school – ha aggiunto coach SpoelstraE’ un modello di continuità, integrità e professionalità. Ha dimostrato di essere un innovatore col suo attacco”. Ma la sintesi probabilmente più efficace è quella di Lawrence Frank, che il 6 aprile può dire di essere stato presente, anche se sull’altra panchina: “E’ fenomenale, incredibile, probabilmente l’allenatore più sottovalutato nella storia della NBA. Adoro vedere giocare le sue squadre. Quando parli a suoi ex giocatori, ti rendi davvero conto che hanno sempre apprezzato l’esperienza con lui. Penso che sia un coach da Hall of Fame”.