“Ci sono dei momenti nella vita in cui si aprono nuove strade: per me questo momento è arrivato adesso”

L’opportunità di vivere una nuova avventura a 33 anni, e, perché no, anche quei 2 milioni di dollari che in NBA nessuno si sarebbe sognato di offrirgli (anche se alcuni media parlano di 1 milione), hanno portato Tracy McGrady a dire basta e trasferirsi in Cina. Non siamo di fronte all’epilogo definitivo della sua carriera, ma l’accordo con i Qingdao Eagles, franchigia della Chinese Basketball Association arrivata ottava (su 17) nello scorso campionato, rappresenta la fine della ricchissima avventura NBA di uno dei più amati e discussi giocatori nella storia del gioco.

Dopo gli interventi chirurgici subiti fra il 2008 e il 2009 e gli estremi tentativi di tornare ad avere una voce da protagonista, la scelta cinese è sembrata l’unica e la più adatta per porre fine a una storia durata 16 stagioni, durante le quali T-Mac è stato apprezzato da tutti gli appassionati della palla a spicchi, indistintamente dalla maglia che portava (e ne ha indossate ben 6).

Dopo aver provato a trovare uno spazio degno del suo talento e del suo passato in quel di Atlanta, T-Mac ha quindi detto basta e ha salutato tutti i suoi fan tramite il suo blog:

“Sono orgoglioso di quello che ho fatto nei miei 15 anni passati in NBA. Fu un sogno entrare in questa lega quando avevo appena 18 anni. Ho sempre lavorato duro e messo il mio cuore e la mia anima in questo gioco. (…) Ho vissuto i migliori momenti che un giocatore di basket può vivere e ho attraversato anche i momenti bui, ma che sono serviti a farmi diventare l’uomo che sono adesso. (…) Sono lieto di poter giocare per i Qingdao Eagles in Cina. Sono stato in Cina molte volte negli ultimi anni ed ho potuto apprezzare la gente e la nazione. Sono onorato di poter giocare per loro. Grazie a tutti i tifosi che mi hanno seguito (…). È stato un sogno aver giocato di fronte a tutti voi, ogni notte, in ogni palazzetto”.

Impossibile scegliere un momento dal quale cominciare per raccontare la carriera del sette volte All-Star e due volte miglior scorer della lega più bella del mondo. E non basta neppure ricordare di quella volta che riuscì a segnare 13 punti negli ultimi 35 secondi di una gara di regular season contro gli Spurs (impresa trasmessa da Sky Sport con il commento di Flavio Tranquillo e Federico Buffa, il cui video ha spopolato e continua a spopolare in rete, e che potete vedere anche qui di seguito).

httpv://www.youtube.com/watch?v=BrtZa1On6i8

Non basta, perché Tracy McGrady lascia un vuoto enorme ma solcato da anni. I problemi fisici alla schiena e al ginocchio sinistro, al pari di quelli caratteriali (alcuni lo hanno accusato di comportarsi come una testa calda e di essere incapace di coprire il ruolo di leader), hanno impedito al cugino di Vince Carter di esprimere fino in fondo il suo incredibile potenziale.

Il vuoto è ancora maggiore se si pensa al fatto che The Big Sleep (era questo il suo primo soprannome causato dal fatto che le sue palpebre sembravano sempre tendere a chiudersi), non sia mai riuscito a vincere nemmeno una singola serie di playoff: da non credere per chi l’ha visto esaltare le platee con la sua meravigliosa tecnica cestistica.

La sua carriera inizia a Toronto, nell’ormai lontano 1997, quando approda in NBA direttamente dalla high school, seguendo le orme di Kevin Garnett e Kobe Bryant, scelti rispettivamente nel 1995 e nel 1996. Nei primi anni di carriera, dunque, condivide il palcoscenico dell’Air Canada Centre con suo cugino di terzo grado, Vince Carter, con il quale si rende protagonista dell’All Star Saturday del 2000 in quel di Oakland, dove ha luogo la più bella gara delle schiacciate dai tempi del dualismo Wilkins-Jordan. Carter vincerà, ma per la prima volta le luci della ribalta si accendono anche sul figlio di Auburndale, Florida, il luogo dove il numero 1 ha trascorso la sua infanzia e giocato i primi tre anni di high school, prima di passare, già accreditato come uno dei migliori prospetti della nazione, alla prestigiosa Mount Zion Christian Academy in North Carolina.

Dopo l’uscita prematura dai playoff del 2000 per opera dei Knicks (3-0 in quella serie), McGrady diventa free agent e per la prima volta in carriera si trova al centro del mercato. In una sign & trade sbarca nella nativa Florida, per giocare con gli Orlando Magic, squadra in cui è chiamato a formare una temibile coppia con Grant Hill.

Nonostante i problemi fisici dell’ex Detroit, è il momento più bello della carriera di T-Mac: nelle stagioni 2003 e 2004 segna rispettivamente 32 e 28 punti a partita ed è consecutivamente il miglior marcatore NBA, con un massimo in carriera che arriva contro i Washington Wizards, contro i quali segna 62 punti. Il suo dualismo, quasi obbligato, non è più con Vince Carter, ma con Kobe Bryant (ricordato nella lettera d’addio con un you made me work harder and it was an honor to play against you”), con il quale condivide per qualche anno lo scettro di miglior realizzatore e miglior giocatore dell’intera lega.

È meraviglioso poter avanzare finalmente al secondo turno”. È questa una delle uscite infelici della carriera di T-Mac, arrivata in occasione del primo turno di playoffs contro i Pistons nel 2003. Quella serie fini 3-1 per Detroit, e per la prima volta i media cominciarono a parlare non solo dello straordinario talento, ma anche della scarsa concentrazione e dell’incapacità di essere leader da parte di Tracy. Aggiungendo che a Orlando era arrivato il momento di Dwight Howard, prima scelta assoluta del draft 2004, la dirigenza dei Magic non esitò a spedirlo a Houston, dove Jeff Van Gundy era pronto a consegnargli il posto appartenuto a Steve Francis, nello scambio che, il 29 giugno di quello stesso anno, fece nascere una coppia destinata a vincere e a dominare: McGrady e Yao Ming.

Le promesse sono tante, ma le sconfitte anche. Nonostante i 30 punti a partita nella serie contro i Mavericks, anche i playoffs del 2005 finiscono al primo turno. La schiena avrebbe di li a poco cominciato a far male, e la carriera di T-Mac cominciò a prendere una piega che nessuno avrebbe voluto, quando anche il ginocchio disse basta. Passano tre stagioni, e dopo tanti infortuni e fallimenti, Jeff Van Gundy (unico allenatore ringraziato da T-Mac nella sua lettera d’addio alla NBA) viene esonerato, e McGrady viene operato sia alla schiena che al ginocchio nel maggio 2008, non prima di aver segnato 40 punti nella sua ultima partita importante di postseason, quella gara 6 contro gli Utah Jazz, vincenti con il punteggio di 113-91.

Ragionando da tifosi e quindi con il cuore, la speranza di rivederlo di nuovo al 100 % erano intatte, ma in realtà continuarono ad affievolirsi, soprattutto dopo che anche la stagione 2008-09 saltò quasi completamente per la necessità di sottoporsi ad un altro intervento al ginocchio sinistro: lo scherzo del destino è che i Rockets avrebbero superato il primo turno contro i Blazers sotto la guida di Ron Artest (!) ma senza l’apporto del loro miglior giocatore (ormai solo sulla carta).

La carriera del ragazzo della Florida finisce inesorabilmente alla ricerca di una squadra che voglia dargli un po’ di spazio. Nel febbraio 2009, i Knicks acquisiscono McGrady in uno scambio a tre che coinvolge anche i Sacramento Kings, e i tifosi del Madison Square Garden possono assistere a una prestazione da 26 punti contro i Thunder.

Dopo le 72 partite giocate con i Pistons e gli 8 punti di media nel 2009/2010, nella stagione appena passata gli Hawks gli regalano l’ultima possibilità di far bella figura su un parquet NBA. Il resto è storia recentissima, poiché in questa off-season 2012 nessuno ha avuto il coraggio di offrire un contratto a questo magnifico e sfortunato giocatore, che verrà ricordato come uno dei talenti più puri che il gioco abbia mai conosciuto.

Gli ingredienti per un fallimento di una carriera che poteva raggiungere vette altissime ci sono tutti: dolori alla schiena e problemi al ginocchio, rapporti spesso non idilliaci con i propri head coach, un etica del lavoro che spesso lo ha fatto paragonare ad Allen Iverson, la mancanza di leadership e di concentrazione in particolari momenti della regular season (leggendaria la sua fuga da una gara di stagione regolare contro gli Utah Jazz per andare ad assistere la fidanzata partoriente in ospedale), soggetto ad infortuni e purtroppo mai vincente nei playoffs.

Tralasciando tutti questi aspetti negativi, noi vogliamo e possiamo ricordarlo, o meglio, celebrarlo, semplicemente come una delle guardie tiratrici più belle e talentuose che il basket abbia mai visto, e che la Cina aspetta. Lì, dove Tracy McGrady andrà a far compagnia a Stephon Marbury e a raggiungere il suo vecchio compagno di mille promesse non mantenute, Yao Ming. Lontano da noi, testimoni dell’apprezzamento senza eguali che tutti i tifosi della palla a spicchi stanno riservando nei suoi confronti, tifosi che non lo ricorderanno come il cugino di un cestista “qualsiasi” (etichetta di inizio carriera) o come un perdente (etichetta di fine carriera), ma come uno che ha vissuto un sogno, lo stesso che ha fatto vivere a tutti gli appassionati, a prescindere dalla maglia che indossava.